Don Chisciotte della Mancia Vol. 2/Capitolo LXXIII
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO LXXIII.
Degli augurii ch’ebbe don Chisciotte all’entrare nel suo paese, con altri avvenimenti che adornano e accreditano questa grande istoria.
— Vossignoria è pur uomo stravagante, disse Sancio. Supponiamo che questa lepre sia Dulcinea del Toboso, e che questi levrieri che la inseguono sieno quei maledetti incantatori che la trasformarono in contadina; ebbene, ella fugge, io l’acchiappo, la do in mano a vossignoria, e vossignoria l’accarezza e la tiene stretta tra le sue braccia: che cattivo segnale può esser questo? Che malaugurio può mai cavarsene?„ I due ragazzi che contrastavano corsero a vedere la lepre, e Sancio dimandò ad uno di essi perchè contendessero. Quello che aveva detto: — Tu non la vedrai se campassi mille anni,„ rispose che aveva tolta al suo compagno una gabbia da grilli, ed aveva protestato di non restituirgliela mai più. Sancio si cavò di tasca quattro maravedis, li donò al ragazzo per avere la gabbia, e la passò tosto in mano di don Chisciotte, cui disse: — Eccovi, signor padrone, rotti e fracassati tutti i vostri augurii, i quali hanno tanto che fare colle nostre venture, per quanto ne penso io goffo come sono, quanto la luna coi gamberi. Sappia vossignoria che io ho sentito dire dal nostro curato che non è da persone cristiane e savie il prestar fede a questa sorta di scioccherie, e vossignoria medesima me lo disse nei passati giorni, persuadendomi che erano ignoranti e balordi tutti quelli che davano ascolto agli augurii: e poi non serve che ci fermiamo di soverchio su questi discorsi, passiamo avanti ed entriamo nelle nostre case.„
Arrivarono intanto i cacciatori, domandarono della lepre, e don Chisciotte la consegnò. Continuavano la loro strada, quando incontrarono all’improvviso il baccelliere Sansone Carrasco ed il curato che recitava l’uffizio. Il bello si è che Sancio aveva posto sopra il suo asino l’involto delle armi, perchè servisse di soprassoma, e la veste di tela bottana, dipinta a fiamme di fuoco, che gli era stata messa in dosso nel castello del duca, nella notte che Altisidora risuscitò, ed inoltre aveva sì bene accomodata presso alla testa della bestia la mitra, che facevala apparire nella più strana trasformazione in cui si abbia mai veduto asino al mondo. E padrone e scudiere furono subito salutati dal baccelliere e dal curato, i quali volarono loro addosso a braccia aperte. Smontò don Chisciotte, e li abbracciò strettamente; ed i ragazzi, che hanno sempre occhi di lince, scopersero di lontano la mitra del giumento, e corsero ad esaminarla, dicendo l’uno all’altro: — Corri, corri, vieni a vedere l’asino di Sancio Panza, che è più galante di Mingo, e la bestia di don Chisciotte ch’è divenuta più magra di uno scheletro.„ Attorniati da gran numero di questi ragazzi, ed accompagnati dal curato e dal baccelliere, passeggiarono per il paese, e finalmente entrarono nella casa di don Chisciotte. Stavano sulla porta la serva e la nipote, le quali avevano già avuto nuova del suo arrivo e l’avevano anche data a Teresa Panza, moglie di Sancio, la quale tutta scapigliata, in carpetta, e menando per mano Sancetta, sua figliuola, corse a vedere il marito. Scorgendo che non era sì bene assettato della persona come pensava che dovesse essere un governatore, gli disse: — Che vuol dire, marito mio, che tu torni a questa maniera? Ei mi pare di vedere un mascalzone, un pelapiedi, e tu hai più cera da disgovernato che da governatore. — Taci, taci, Teresa, rispose Sando, chè il più delle volte l’uomo pensa che sia una cosa, ed è un’altra, nè sempre dove sono stanghe v’è carne secca; e andiamo a casa, che ti racconterò maraviglie e ti mostrerò i danari (che importa più di tutto) guadagnati colla mia industria, e senza danno di alcuno. — Porta pure danari, marito mio buono, disse Teresa, e sieno pure guadagnati come si vuole, chè già qualunque ne possa essere stato il mezzo, tu non sarai quello che abbia messo al mondo usanze nuove.„ Sancetta abbracciò suo padre, e gli chiese se le avesse recato niente, e ch’ella lo stava aspettando come l’acqua di maggio: e poi acchiappandolo da un lato della cintura, e sua moglie per la mano, e Sancetta tirando dietro a sè l’asino, se ne andarono a casa loro, lasciando don Chisciotte nella sua in compagnia della nipote, della serva, del curato e del baccelliere.
Don Chisciotte, senza aspettare termini, nè ore, si appartò nello stesso punto col baccelliere e col curato, e confessò loro alle brevi la sua disfatta e l’obbligo in cui era di non uscire più, durante un anno, dal suo paese; il che avrebbe eseguito con rigore, nè sarebbe uscito per un minuto solo a fine di non trasgredire alla puntualità dovutasi all’ordine della errante cavalleria. Raccontò poi che aveva divisato di farsi, durante quell’anno, pastore, e di trattenersi nella solitudine delle campagne, dove avrebbe potuto a briglia sciolta dare alimento ai suoi amorosi pensieri, esercitandosi in pastorecci e virtuosi esercizii. Supplicò in fine i suoi due amici, che se non avessero avuto grandi faccende, nè gravi impedimenti per negozii di maggiore importanza, volessero diventare compagni suoi, e ch’egli avrebbe comperato e pecore e bestiame e quanto occorreva, ed avrebbe loro imposti nomi pastorali che vi starebbero come dipinti: chè già aveva pensato a tutto. Il curato gli disse: — Vorrei sapere quali saranno i nostri nomi.„ Rispose don Chisciotte che aveva a sè imposto il nome di Chisciottizzo pastore, al dottore quello di Carrascone, al curato quello di Curatambro, e a Sancio Panza quello di pastore Panzino. Ognuno della casa stupì della nuova pazzia di don Chisciotte; ma perchè non lasciasse un’altra volta il paese, nè se ne tornasse alle sue cavallerie, e sperando di poterlo medicare durante l’anno, aderirono al suo nuovo progetto, tennero per saggia la sua determinazione e si offrirono per compagni suoi nel nuovo esercizio. — E tanto più volentieri, disse Sansone Carrasco, che come sa tutto il mondo, io sono poeta celeberrimo, e potrò ad ogni istante comporre versi pastorali e cortigiani, o come mi verrà meglio, purchè non meniamo vita oziosa tra quelle catapecchie che dovremo abitare: ma poi importerà molto, signori miei, che ciascuno di noi elegga il nome della pastora che sarà da celebrarsi nei nostri componimenti, e che non si lasci arbore, per duro che sia, senzachè porti inciso il suo nome, com’è uso e costume di tutti gl’innamorati pastorelli. — Stupenda è questa osservazione, disse don Chisciotte, ma a me non accade eleggere il nome della mia pastora, mentre voglio conservare quello della senza pari Dulcinea del Toboso, gloria di queste spiagge, ornamento di questi prati, sostegno della bellezza, modello della grazia, soggetto in somma su cui potrebbe fondarsi bene ogni lode per iperbolica che si fosse. — Va benissimo, soggiunse il curato, quanto a voi, e quanto a noi andremo cercando dove vorrà la sorte pastorelle più dozzinali, che se non ci quadreranno bene non possano almeno angolarci. — Quanto a questo, disse Sansone Carrasco, se fossimo imbarazzati sulla scelta dei nomi, non ci mancherebbero quelli che sono in istampa e dei quali è pieno il mondo: Fillide, Amarilli, Diana, Florida, Galatea, Belisarda già si vendono per le piazze, e non sarà poi gran cosa se verranno comprati da noi e tenuti per nostri: e se per sorte la mia dama pastora si chiamasse Anna, io la celebrerei sotto il nome di Anarda, e se Francesca, la chiamerei Francenia, e se Lucia, Lucinda: chè tutto viene ad essere una pietanza medesima; e Sancio Panza (se pure avrà luogo nella nostra compagnia) potrà celebrare sua moglie Teresa Panza col nome di Teresaina.„ Rise don Chisciotte dell’applicazione del nome, ed il curato portò alle stelle l’onorata ed onesta sua risoluzione, e si offrì di nuovo a tenergli compagnia in tutto il tempo che potrebbe disporre dopo adempiti gli obblighi suoi. Dopo questi discorsi si licenziarono, e pregarono e consigliarono don Chisciotte che avesse cura della sua salute, e che badasse a governarsi il più che potesse.
La nipote e la serva avevano ascoltato tutto il dialogo seguito fra i tre, e subito che i due se ne furono andati, l’una e l’altra entrarono nella camera di don Chisciotte, e la nipote gli disse: — Che faccenda è questa, signor zio? Adesso che noi altre pensavamo che vossignoria tornasse a ridursi a casa sua ed a condurre con noi vita quieta e onorata, ella vuole entrare in nuovi labirinti facendosi pastorello! Oh il bel pastorello! Vien qua; passa di là; eh! sappia pure che coll’orzo verde non si fanno zampogne.„ Soggiunse la serva: — Come potrebbe vossignoria sopportare alla campagna i calori della state, i freddi dell’inverno, gli urli dei lupi? Questi sono esercizi da uomini forti e robusti, e allevati a quel mestiere sino dalle fasce, e sarebbe forse manco male l’essere cavaliere errante piuttosto che pastore: ci pensi vossignoria, pigli il mio consiglio, chè non glielo do mica dopo essere satolla di pane e di vino, ma a corpo digiuno e con i cinquant’anni che ho sulle spalle: stia a casa sua, tenga occhio attento alla sua roba, si confessi spesso, soccorra i poveretti, e se gliene riesce male dica che io sono cattiva femmina. — Tacete, figliuole, rispose don Chisciotte, chè io so benissimo quello che mi conviene, e intanto menatemi a letto, che mi pare di non istar troppo bene. Tenete per certa cosa che, divenga io cavaliere errante o pastorello, non mancherò mai di aiutarvi di quello che avrete bisogno, e di accudire ai miei affari, come lo sperimenterete in effetto.„ Le buone donne, chè tali erano senza dubbio serva e nipote, lo condussero a letto, e gli apprestarono il cibo ed ogni più affettuosa assistenza.