Don Chisciotte della Mancia Vol. 2/Capitolo LXVIII
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO LXVIII.
Della pelosa avventura che accadde a don Chisciotte.
In questa guisa continuava il dialogo, quando s’intese ad un tratto sordo fracasso e noioso rumore che per tutte quelle valli si distendeva. Rizzossi don Chisciotte, e pose mano alla spada, e Sancio si rannicchiò sotto al leardo, mettendosi ai fianchi il fagotto delle armi e la bardella del suo giumento, e tremando tutto di paura. Non restò senza perturbarsi nè anche don Chisciotte per lo rombazzo che veniva crescendo e appressandosi. Ora avvenne che certi uomini menando a vendere ad un mercato più di seicento porci, con essi a quell’ora avanzavano cammino, ed era il rumore causato dal digrignare e dallo stridere che facevano quegli animali, e con cui assordavano gli orecchi di don Chisciotte e di Sancio senzachè potessero capire che cosa si fosse. Arrivò in truppa il gregge grugnitore, e senza portar rispetto all’autorità del valoroso don Chisciotte, passò di sopra ad esso ed a Sancio, disfacendo le trincee e facendo cadere tutto ad un fiato e don Chisciotte ed anche il suo Ronzinante. Il gran numero, il grugnire e la prestezza con cui arrivarono quegl’immondi animali, produssero estrema confusione, gittando sottosopra la bardella, le armi, il leardo, Ronzinante, Sancio e don Chisciotte. Si rizzò Sancio alla meglio, ed infuriato dimandò la spada al padrone, dicendogli che voleva ammazzare una dozzina di quei signori e malcreati porci, che già li aveva benissimo conosciuti. Don Chisciotte gli disse: — Lasciali andare, amico, chè questo affronto è pena del mio peccato, ed è giusto castigo del cielo che un cavaliere errante abbattuto sia mangiato dal gavocciolo, punto dalle vespe, calpestato dai porci. — Deve pure, Sancio rispose, essere castigo del cielo che gli scudieri dei vinti cavalieri erranti sieno dalle mosche punzecchiati, mangiati dagl’insetti e investiti dalla fame? Se gli scudieri fossero figliuoli dei cavalieri ai quali servono, o loro prossimi parenti, non ci sarebbe che dire quando li colpisse la pena dei falli sino alla quarta generazione: ma che hanno mai a fare i Panza con i Chisciotti? Basta, torniamoci a coricare, e dormiamo il poco che rimane della notte; chè dimani qualche santo ci aiuterà. — Dormi tu, o Sancio, rispose don Chisciotte, tu che sei nato per dormire, quando io nacqui per vegliare. Nel poco di tempo che manca sino all’alba, io lascerò libero il corso ai miei pensieri, e li sfogherò in un madrigaletto, che composi stanotte nella mia fantasia senza farne teco parola. — Pare a me, rispose Sancio, che i pensieri che possono esprimersi in versi non debbano essere molto serii; ma vossignoria versifichi pure a suo piacere, chè intanto io dormirò il meglio che potrò.„ E sdraiandosi sulla terra, si accoccolò e tornò a dormire saporitamente senzachè mallevadorie, debiti o dolore alcuno ne lo sturbassero. Don Chisciotte, appoggiato al tronco di un faggio o sughero (chè Cide Hamete Ben-Engeli non ha distinto bene di che qualità fosse l’albero), cantò al suono de’ suoi stessi sospiri i versi seguenti:
Quanto il mal che mi dài sia grande e forte,
Vommi incontro alla morte,
Sperando di finir mio male immenso.
Ma giunto appena al passo,
Ch’è porto a questo mar del mio tormento,
Tanta letizia sento
Che la vita s’afforza e nol trapasso.
Così il viver m’uccide,
E la morte fa sì ch’io torni in vita:
Vedi sorte inaudita,
Che ognor tra vita e morte mi divide!
Accompagnato era da molti gemiti e da non poche lagrime ognuno di questi versi, come parto di un cuore trafitto dal cruccio dell’essere stato vinto e da quello dell’assenza di Dulcinea. Venne il giorno, ed il sole colpì co’ suoi raggi gli occhi di Sancio, che si destò, si stirò, e scuotendo e dilungando le infingarde membra, mirò il mal governo che avevano fatto i porci della sua credenza, e maledisse il gregge, e andò anche più avanti colle imprecazioni. Tornarono finalmente ambidue all’intrapreso cammino, e al declinare del giorno si accorsero che venivano alla volta loro intorno a dieci uomini a cavallo, e quattro o cinque a piedi. Si destò il coraggio di don Chisciotte, e si avvilì quello di Sancio, perchè quella gente portava lance e targhe, e sembrava disposta a combattere. Don Chisciotte si voltò a Sancio, e gli disse: — Se io potessi, o Sancio, trattare le armi, e non fossi sì legata nelle braccia dalla mia fede, io valuterei meno di una zero le nuove diavolerie che ci minacciano: ma potrebbe anche essere che fosse altra cosa differente da quella che noi temiamo.„ Giunsero in quell’istante due di quei a cavallo, e inalberando le lance, senza dir parola circondarono don Chisciotte, e gliele appuntarono alle spalle ed al petto, minacciando di volerlo ammazzare. Uno di quelli a piedi si avvicinò un dito alla bocca in segno che ciascuno dovesse osservare il silenzio, pigliò Ronzinante per la briglia, e lo tirò fuori di strada; gli altri a piedi cacciaronsi dinanzi Sancio e il leardo, e serbando ognuno alto e costante silenzio, seguitò i passi di colui che menava don Chisciotte, il quale due o tre volte tentò di chiedere dove lo conducessero o quello che da lui si pretendesse. Ma cominciava egli appena a movere le labbra, e tosto erano pronte a chiuderle i ferri delle lance; e lo stesso avveniva a Sancio subito che faceva mostra di voler parlare: ed uno di quei pedoni punzecchiava con un pungolo lui e il leardo ancora, come se anche questo desse intenzione di voler parlare. Venne la notte, accelerarono il passo, crebbe la paura nei due prigioni, e più ancora quando udirono (che di tanto in tanto dicevasi loro: — Camminate, trogloditi; tacete, barbari; pagate, antropofaghi; non vi lagnate, sciti; non aprite gli occhi, Polifemi ammazzatori, leoni divoratori;„ ed altri nomi simili a questi coi quali tormentavano l’udito dei miserabili padrone e servitore. Andava Sancio fra sè dicendo: — A noi tortoliti? a noi barbieri, a noi troppo fango! Eh non mi piacciono per niente questi titoli; tira un cattivo vento a quest’aia: tutto il male viene in una volta come al cane le bastonate, e volesse Dio che fossero almeno le ultime tra tante nostre sventurate venture.„ Don Chisciotte marciava come uomo mezzo fuori di sè, e senza cogliere nel segno, per quanti ragionamenti facesse a fine di conoscere la causa che l’esponeva a tanti oltraggi, dai quali in sostanza veniva a conchiudere ch’ei non poteva sperar nulla di bene. Pervennero quasi ad un’ora di notte in un castello, che fu conosciuto da don Chisciotte per quello del duca, da dove non era molto che aveva fatto partenza. — Mi aiuti il cielo! diss’egli come l’ebbe meglio riconosciuto: che sarà mai? Non è questa la casa della cortesia e della buona creanza? Ma per i vinti il bene si converte in male e il male in peggio.„ Entrarono nell’andito principale del castello, e lo videro preparato e disposto in maniera che si accrebbe in loro la maraviglia, e si raddoppiò la paura, come si vedrà nel capitolo seguente.