Don Chisciotte della Mancia Vol. 2/Capitolo LXVII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
◄ | Capitolo LXVI | Capitolo LXVIII | ► |
CAPITOLO LXVII
Andavano con questi ragionamenti seguitando il loro viaggio, quando giunsero al sito medesimo dove erano stati già scompigliati dai tori. Lo riconobbe don Chisciotte, e disse a Sancio: — Il prato è questo dove noi c’incontrammo colle bizzarre pastorelle e coi pastori galanti che volevano rinnovare e imitare la pastorale Arcadia: pensiero nuovo altrettanto quanto prudente, ed a cui imitazione io vorrei, o Sancio, se tu approvi il divisamento, che noi ci convertissimo in pastori per tutto il tempo in cui sarò obbligato al ritiro. Io comprerò alquante pecore e le altre cose tutte che al pastorale esercizio son necessarie; mi chiamerò il pastore Chisciotizzo e tu il pastore Panzino, e ce ne andremo per i monti, per le selve e per i prati, qui cantando, querelandoci là, bevendo le onde dei liquidi cristalli delle fonti o dei limpidi ruscelli ovvero dei rapidi fiumi. Ci somministreranno le querce a larga mano le dolcissime loro frutta; ci serviranno di sedia i tronchi dei durissimi sugheri, di ombra i salici, di odore le rose e di tappeti gli spaziosi campi di mille colori dipinti. Sarà nostro alito l’aria chiara e pura; saranno luce la luna e le stelle a dispetto dell’oscurità della notte; avremo allegrezza nel gaudio e nel pianto, e c’inspirerà Apollo i versi e gli amorosi concetti coi quali potremo renderci famosi non pure nei secoli presenti, ma nei futuri. — Perdinci, rispose Sancio, che questa maniera di vita sarebbe uno zucchero, e mi andrebbe proprio proprio a sangue; e scommetterei che il baccelliere Carrasco e maestro Niccolò, barbiere, non l’avranno saputo appena, che verrà loro la frega di seguitarla e di farsi eglino ancora pastori con noi; e chi sa che non venga il grillo anche al signor curato di entrare nel branco, ch’egli è uomo di allegro umore e molto amico di darsi bel tempo. — Tu hai detto benissimo, soggiunse don Chisciotte, e il baccelliere Sansone Carrasco se entrerà nel pastorale grembo (chè vi entrerà senza dubbio), potremo chiamarlo il pastore Sansonino ovvero il pastore Carrascone. Niccolò barbiere potrà intitolarsi Niccoloso, come già l’antico Boscano si chiamò Nemoroso: non so che nome daremo al curato, se non fosse alcuno derivativo dal suo, appellandolo il pastore Curatambro. In riguardo alle pastorelle delle quali dovremo essere seguaci, potremo, come in una cesta di pere, scegliere i loro nomi: e giacchè quello della mia signora tanto quadra a pastorella come a principessa, non occorre che io vada a dicervellarmi per cercarne altro che meglio le si convenga: tu, o Sancio, porrai poi alla tua il nome che più ti andrà a genio. — Io fo conto, disse Sancio, di non metterle altri nomi che quello di Teresona, che calzerà bene colla sua grassezza; e molto più che celebrandola io nei miei versi, verrò a scoprire i miei casti desiderii, non andando a cercare miglior pane che di grano per le case altrui: nè sarà poi bene che il curato tenga pastora, come colui che ci deve dar buon esempio: e se il baccelliere vorrà averne una, ci pensi egli. — Poffare il mondo! disse don Chisciotte, che vita abbiamo a condurre noi, Sancio amico! Quante zampogne ci hanno da rallegrare gli orecchi, quante pive zamorane, quanti tamburini, quante sonagliere, quanti ribecchini! Pensa poi se tra questa diversità di musica ci sarà frammischiata quella degli alboghi! Oh si avranno tra noi quasi tutti i pastorali strumenti. — Che cosa sono questi alboghi? disse Sancio, chè io non li ho sentiti mai a nominare, nè li ho visti mai in vita mia. — Gli alboghi, rispose don Chisciotte, sono certe piastre come di candelliere d’ottone, che dando una contro l’altra, per lo vôto e vano mandano suono se non molto grato ed armonico, almeno che non dispiace e si accorda colla rusticità della piva e del tamburino. Albogo è vocabolo moresco, come lo sono tutti quelli che nella lingua castigliana cominciano in al; per esempio, almohaza, almorzar, alhombra, alguazil, alhuzema, alcuza, almazen, alcanzia, ed altri somiglianti, che debbono essere pochi più: e tre soltanto ne ha la lingua spagnuola che sono moreschi e terminano in i, e sono: borceguì, zaquizami e maravedì: le voci alhelì e alfaquì, tanto dall’al onde cominciano, quanto dall’i in cui finiscono, sono conosciute per arabiche. Ti ho detto questo di passaggio e per essermelo ricordato nella occasione di nominare alboghi: e ci ha da giovare assai alla perfezione di questo esercizio l’essere io un cotal poco poeta, come tu sai, e come lo è ancora in grado eccellente il baccelliere Sansone Carrasco: del curato non fo parola, ma scommetterei ch’egli pure debba avere i suoi merletti ed il collare da poeta, come non dubito che li avrà maestro Niccolò; perchè tutti o la maggior parte dei barbieri sono poetastri o chitarristi. Io mi dorrò della lontananza; tu ti vanterai d’innamorato costante; il pastore Carrascone d’essere disprezzato, e il curato Curatambro di quello che più gli sarà in piacere, ed in tal maniera procederà benissimo la nostra vita.„ Sancio rispose: — Signore, io sono tanto disgraziato che ho paura che non arriverà mai quel giorno in cui mi vegga in questo beato posto. Che bei cucchiai farei io quando fossi pastore! Quanti pani grattati! Quanti pastorali manicaretti! Rinunzierei allora alla fama di savio, e mi contenterei di quella di grazioso; e Sancetta, mia figliuola, porterebbe da mangiare al gregge: ma attenti bene, chè Sancetta è belluccia, e vi hanno pastori più maliziosi che semplici, nè vorrei che andasse per lana, e tornasse tosata: chè nelle campagne come nelle città ci si pecca; e levata la causa, si leva il peccato; e occhio che non vede, cuore non crede; ed è meglio essere uccello di campagna, che di gabbia. — Basta, basta, non più proverbii, o Sancio, disse don Chisciotte, chè qualsivoglia di quelli che hai detto, è bastante per esprimere il tuo pensiero. Ti ho consigliato le tante volte a non voler essere sì prodigo di strambotti, ma e’ mi pare di aver predicato al deserto, o come diceva quella buona donna: Forbice, forbice. — Mi sembra, rispose Sancio, che vossignoria sia come quello che si suole dire, che la padella ha detto al paiuolo: Fatti in là, chè tu mi tingi; ella mi sta correggendo perchè mi astenga dal dire proverbii, e intanto vossignoria li va infilzando a due per due. — Considera, o Sancio, rispose don Chisciotte, che io fo uso dei proverbi a proposito, e calzano a pennello quando io li dico; ma tu li strascichi tanto, ch’escono fuori di tempo e non in via naturale. Mi ricordo di averti detto altra volta che i proverbii sono sentenze brevi, cavate dalla sperienza e dalle speculazioni dei nostri antichi saggi, e che il proverbio ch’esce senza occasione, è piuttosto sproposito che sentenza. Ma di ciò non si parli più: e giacché si avvicina la sera, appartiamoci alquanto dalla strada maestra, e cerchiamo dove passare la notte; chè dimani Dio sa quello che sarà.„
Si ritirarono, cenarono tardi e male, e ognuno pensi che ciò seguiva contro la intenzione di Sancio, il quale si ricordava tutte le angustie della errante cavalleria incontrate nelle selve e nei monti, che però vedeva talvolta temperate coll’abbondanza trovata nei castelli e nelle abitazioni sì di don Diego di Miranda, come nelle nozze del ricco Camaccio ed in casa di don Antonio Moreno. Considerando non essere possibile che sia sempre di giorno, nè sempre di notte, si addormentò finalmente, lasciando in piena veglia il padrone.