Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia/Capitolo III

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CAPITOLO III




PROBLEMI SULLA FACOLTÀ LASCIATA AGLI ITALIANI
DI VIVERE CON LA LEGGE ROMANA.


Al Muratori, come s’è detto, e ad altri, è parsa questa concessione un bel tratto di clemenza, e una prova, tra molte, della dolcezza e della saviezza de’ conquistatori longobardi. E questa opinione pare la più universalmente ricevuta da quelli che vogliono averne una sulle cose di que’ tempi.

Che scrittori i quali non si stancano d’ammirare l’equità, la sapienza, la previdenza delle leggi de’ Longobardi, riguardino poi con clemenza il non averne essi chiamati a parte i vinti, è una cosa che non s’intende così facilmente. Vogliam forse dire che a questi non piacessero, e che a que’ buoni vincitori paresse un’ingiustizia il costringerli a ricevere anche un benefizio? Ma perchè non piacevano ai vinti quelle leggi così perfette, così scrupolose, così giudiziose nel rispettare, nel regolare ogni diritto? Per un cieco affetto all’antica legislazione? o per orgoglio nazionale? o perchè non si confacessero alle loro abitudini, e non s’applicassero ai casi comuni nel loro modo di vivere? dimanierachè, ottime per il popolo conquistatore, fossero scarse, superflue, insomma non adattate per essi? Ma non ci hanno detto quegli stessi scrittori, che Longobardi e Italiani erano un popolo solo? E quale è tra queste ipotesi, che non faccia a’ cozzi con quell’opinione?

[p. 120 modifica]S’osservi poi che quest’uso di lasciare ai vinti la legge romana non è particolare a’ Longobardi: una costituzione di Clotario I la conserva ai Gallo-romani viventi sotto i Franchi 1; le leggi de’ Burgundioni, quelle de’ Ripuari 2 stabiliscono i casi e le persone da giudicarsi con la legge romana: e per finirla, questo aver lasciato ai vinti, o in perpetuo, o per qualche tempo, l’uso, più o meno esteso della legge antica, si può dire che sia stata una consuetudine comune de’ conquistatori barbari del medio evo. A un fatto così generale convien dunque cercare una ragione generale; e questo ha voluto fare il celebre Montesquieu. La ragione delle diverse legislazioni in un solo paese, la trova nell’esserci state riunite più nazioni, le quali, nella riunione, abbiano voluto e potuto conservare la loro indipendenza e le loro consuetudini 3. Questa ragione spiega benissimo il perchè varie nazioni riunite a conquistare un paese, e stabilite insieme in quello dopo la conquista, conservassero le loro leggi particolari giacchè essendo quelle nazioni uguali tra di loro, o almeno volontariamente associate, non c’era motivo per cui una dovesse ricevere la legge dall’altra: ma non è una ragione che si possa applicare ai vinti. Questi non trattavano, non istipulavano, non venivano a patti: la cagione dell’esser loro stata lasciata la legge antica, bisogna dunque cercarla nella semplice volontà de’ vincitori. Intorno a questa cagione arrischieremo una congettura; e sarà pur troppo la sola conclusione di questo discorso: per ora, se alcuno vuol proprio che la fosse clemenza, si rammenti almeno che non si può farne un merito particolare ai Longobardi; convien supporre un’inclinazione, una consuetudine, uno spirito di clemenza in tutti i barbari che vennero a dividersi l’impero romano. Una tal supposizione, del resto, non sarà la più singolare che si sia fatta su quell’epoca.

Ma, per valutare, nel nostro caso particolare, il grado della clemenza longobardica, ci manca un dato essenzialissimo, cioè di saper precisamente in che consistesse il benefizio, cosa volesse dire: vivere con la legge romana. Il senso ovvio e intero di questa frase è inammissibile; bisogna dunque trovarne uno modificato, e che possa conciliarsi co’ fatti incontrastabili della dominazione longobardica: questo senso non è stato, ch’io sappia, nè proposto, nè cercato finora 4.

Viver con la legge romana aveva certamente per gl’Italiani, quando eran sotto gl’imperatori, un significato che non ha potuto conservare interamente dopo l’invasione longobardica. Quella legge stabiliva ufizi e attribuzioni, che cessarono per il fatto della conquista; regolava delle relazioni politiche, che furono distrutte da questa. È dunque necessario restringere il senso di questa frase, quando la si applica al periodo di cui parliamo. Ma fin dove restringerlo? con che dati circoscriverlo?

In secondo luogo; come si regolavano le nuove inevitabili relazioni tra i Longobardi stabiliti, come conquistatori, nel territorio, e gli antichi abitatori? relazioni, certo, non prevedute dalla legge antica. [p. 121 modifica]Terzo; volendo conoscere con qualche precisione fino a che segno la facoltà di vivere con quella legge, e co’ rimasugli di quella legge, fosse un privilegio, una franchigia, un dono, bisogna però sapere al giudizio di chi fosse rimessa la legge stessa, per le riforme, per l’aggiunte, per l’interpretazioni; poichè, vogliam noi supporre una legge viva senza un legislatore? una ferrea immutabilità di prescrizioni? regole sottratte a ogni esercizio di sovranità? Questo sarebbe uno strano stato di cose, il quale presenterebbe tante considerazioni e tanti problemi, che la clemenza, quando c’entrasse, sarebbe certamente l’ultima cosa da considerarsi. Nè a spiegare un tale stato si potrebbe addurre, come un fatto simile, la storia o la storiella di Licurgo, che fece giurare agli Spartani di non toccar mai le leggi stabilite da lui; poichè queste creavano generalmente de’ poteri, e disegnavano le persone che dovevano esercitarli: erano leggi, come si direbbe ora, costituzionali, che davano i mezzi e le forme per fare tutte l’altre leggi, che le circostanze potessero richiedere; ma nel caso degli Italiani sotto i Longobardi, la legge conservata non n’avrebbe somministrato alcun mezzo. Se c’era dunque sulla legge un potere legislativo, chi n’era investito?

Quarto; di che nazione erano i giudici, che applicavano questa legge?

Ognuno vede quanto queste condizioni dovessero influire sull’esecuzione della legge stessa; e per conseguenza quanto sia necessario conoscere queste condizioni nel caso in cui si tratta.

Di documenti legislativi che possono servire a ciò non abbiamo in tutti gli atti pubblici, da Alboino fino alla conquista di Carlo, che una sola prescrizione sulla maniera d’applicare la legge romana. Ed è una legge di Liutprando, la quale prescrive a’ notai che, dovendo fare una scrittura, o secondo la legge longobardica, o secondo la romana, stiano all’una o all’altra delle due leggi; impone il guidrigilt (la multa, il risarcimento) a quelli che per ignoranza, stipulano cose contrarie alla legge seguita dai contraenti; eccettua i casi, in cui i contraenti stessi rinunziassero alla legge, in qualche parte, o in tutto 5. Questo unico e così digiuno documento fa sempre più sentire quel carattere particolare d’oscurità dell’epoca longobardica in tutto ciò che riguarda i conquistati. In tutte le altre leggi barbariche, i Romani sono nominati spesso; qualche volta con distinzioni di gradi, per lo più in circostanze che danno lume per trovar notizie importanti e applicabili a molti casi del loro stato civile e politico: ma negli atti pubblici, ma nella storia de’ Longobardi, la popolazione italiana è talmente lasciata fuori, che le ricerche intorno ad essa spesse volte non conducono ad altro che, a nuovi problemi.

Ricapitoliamo ora i quesiti, per vedere quale aiuto per iscioglierli si possa ricavare dalla legge citata di Liutprando, e dov’essa non ne somministra, da altre induzioni; per veder finalmente se sia lecito venire a qualche conclusione un po’ più positiva sulla legge lasciata agli Italiani, e quindi sui motivi di questa concessione.

1.° Quanta parte di legge romana fu lasciata agli indigeni?

2.° Questa legge era per essi la sola obbligatoria? [p. 122 modifica]

3.° Chi n’era il legislatore vivo?

4.° Chi erano i giudici, che l’applicavano?

Se si prescinde da queste ricerche, bisogna almeno riconoscere, che quelle parole – Gl’Italiani sotto il dominio de’ Longobardi conservarono la loro legge — non danno un concetto; ma sono di quelle cortesi parole, le quali, come diceva Mefistofele, si presentano per l’appunto quando manca il concetto.


I.


La legge citata di Liutprando non par che supponga l’uso della romana, se non ne’ casi civili; poichè parla solamente di contratti e di successioni. Ma siccome lì non era il luogo di parlare dell’altre sue possibili applicazioni, così quel silenzio non basta a provare che la legge romana fosse abrogata in tutte le disposizioni d’un altro genere. Nelle cause criminali era in vigore per gl’Italiani quella legge, o erano essi giudicati secondo le longobardiche? E nelle cause criminali tra persone di diversa nazione, come si procedeva? Più sagaci e attente ricerche delle nostre potranno forse condurre altri alla soluzione di questo quesito. Si veda intanto, se una legge del figlio di Carlomagno, Pipino, re in Italia de’ Franchi e de’ Longobardi, possa, quantunque posteriore alla conquista di Carlo, e bastantemente imbrogliata, dar qualche lume per i tempi di cui parliamo.

«Secondo la nostra consuetudine, se ci sarà una lite tra un Longobardo e un Romano, intendiamo che, per i Romani, si decida secondo la loro legge. E anche le scritture, le facciano secondo quella; e secondo quella giurino: così gli altri. Quanto alle composizioni (risarcimento pecuniario de’ danni e dell’offese), le facciano secondo la legge dell’offeso; e così viceversa i Longobardi con loro. Per tutte l’altre cause, si stia alla legge comune, che fu aggiunta nell’editto da Carlo, eccellentissimo re de’ Franchi e de’ Longobardi nota

Quando Pipino dice: «secondo la nostra consuetudine,» non si vede chiaramente se parli della consuetudine della nazione a cui apparteneva per nascita, o di quella su cui regnava; e quindi non si può sapere se accenni qui una costumanza antica del regno longobardico, o una di quelle che i re franchi v’introdussero. Un’altra strana difficoltà presenta questa confusissima legge. Come applicare alla legge romana la composizione pecuniaria per l’offese? Tanto le leggi de’ Longobardi quanto quelle de’ Franchi, discendono a particolari minutissimi su questo proposito: tanti soldi per una ferita alla testa, al petto, al braccio; tanti per un occhio cavato; tanti per un dito, o per il naso tagliato; tanti per un pugno; per avere affrontato uno nella strada nota. Ma quando chi aveva ricevuto uno di questi complimenti, era romano, come poteva l’offesa comporsi con la sua legge, nella quale non c’era, o se si vuole, non rimaneva più traccia veruna d’una sanzione di tal genere? S’osservi finalmente che

67 [p. 123 modifica]quest’ordinanza di Pipino è scritta così variamente ne’ diversi esemplari, che non se ne può nemmeno ricavar la certezza che in essa si stabiliscano le relazioni tra Longobardi e Romani. Dimanierachè non pare che se ne possa sperare alcun lume.

Nella collezione delle leggi de’ Barbari 8, fu la prima volta pubblicato un codice col titolo di Lex Romana, compilato evidentemente sotto una dominazione barbarica. Pare a prima vista che in questo documento si dovrebbe trovare l’intera soluzione del presente quesito; ma, come la più parte de’ documenti di que’ secoli, anche questo fa nascere molto più dubbi che non ne dissipi. Due ragioni impediscono di cavarne alcuna conseguenza per i due secoli del regno longobardico: 1.° l’incertezza del tempo, in cui quel codice fu scritto: 2.° il non sapere che grado d’autenticità avesse, nè dove precisamente fosse in vigore 9. Del resto, contiene prescrizioni, le quali certamente non potevano aver forza di legge nell’epoca di cui parliamo; e, tra l’altro, quella che proibisce, sotto pena di morte, le nozze tra un barbaro e una Romana, e viceversa 10. Che un Longobardo potesse incorrere nella pena capitale, in forza d’una legge romana, è una supposizione indegna, non solo di fede, ma d’esame: e non c’è nemmen bisogno d’opporle la legge di Liutprando già citata, la quale parla degli effetti delle nozze tra un Romano e una Longobarda 11. Un altro titolo di quella Legge Romana contiene prescrizioni per i matrimoni de’ senatori 12. Certo, farebbe una bella scoperta chi potesse trovar de’ senatori ne’ paesi d’Italia posseduti da’ Longobardi.

Due cose in quel codice ci par che meritino una particolare osservazione: la prima, che non ha testi di legge romana, ma oscure interpretazioni; e queste disposte in una serie non ragionata, prese a caso, scarse, mancanti, tronche, nelle cose più essenziali, e piene a un tempo di superfluità; dimanierachè, per intendere come un popolo non avesse altre leggi che queste, bisogna supporlo in uno stato completo di disordine. L’altra cosa da osservarsi sono le parole barbariche di significato legale e importante, le quali provano che anche la parte conservata di legge romana è stata alterata e modificata dal dominio dei barbari. Nella prefazione fatta a quel codice dal primo editore ne sono addotti alcuni esempi, e molt’altri si possono vedere nel codice stesso. Tra l’altre cose, c’è nominato il Fredo, come una consuetudine 13.

Forse un esame attento della lingua di quel codice, e altre osservazioni sulla sostanza di esso, potrebbero condurre a scoprir l’epoca in cui fu compilato; ma, per fortuna, noi non abbiamo bisogno d’entrare in un tal laberinto: basta al nostro assunto il poter dire che, della legge romana, non rimasero in vigore, se non frammenti, in quella parte d’Italia che fu sottratta all’impero greco dall’occupazione longobardica.


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II.


Ma quand’anche, dai documenti che si sono accennati, e da altri, se ce n’è, si volesse arguire che gl’Italiani avevano leggi, e civili e criminali, loro proprie, per ciò che riguarda le relazioni tra privati, resterebbe da domandare sotto che legge vivevano per ciò che riguarda le relazioni tra i privati e la pubblica autorità. Documenti che possano condurre alla soluzione del quesito non n’abbiamo; ma se ne può far di meno. Sappiamo che i Longobardi imposero a degl’Italiani il tributo della terza parte della raccolta: ecco certamente per questi una legge, che non era nel codice teodosiano. Nelle leggi franciche s’incontrano a ogni passo le prove, per chi n’avesse bisogno, che la nazione vincitrice faceva, quando lo trovava a proposito, delle leggi per la vinta: nelle longobardiche non si vedono, è vero, come in quelle, delle prescrizioni per i Romani; ma sarebbe troppo strano l’argomentar da questo silenzio un’esenzione: piuttosto, accozzando questo fatto con altri, se ne potrebbe concludere, che gl’Italiani sotto i Longobardi conservavano meno importanza, ritenevano meno la forma d’un popolo, che i Gallo‑romani sotto i Franchi. È certo che lo stabilimento d’una nazione sovrana e armata in Italia creò, tra questa e i primi abitatori (poichè non furono scannati tutti), delle relazioni particolari; e queste erano regolate, come si fosse, dai soli vincitori. Quando si dice dunque che gl’Italiani avevan la loro legge, non s’intenda che questa fosse il limite della loro ubbidienza, e una salvaguardia della loro libertà; ma si badi che, oltre di quella, n’avevano un’altra, imposta da una parte interessata. Il non trovarla scritta, il non conoscerla noi, nemmeno per tradizione, può lasciar supporre che fosse una legge di fatto, sommamente arbitraria ed estesa nella sua applicazione, e a un tempo terribilmente semplice nel suo principio.


III.


Che poi la legge romana conservata fosse soggetta all’autorità legislativa della nazione dominatrice, è piuttosto un fatto da accennarsi che un punto da discutersi, chè nessuno, credo, ha sognato che gl’Italiani avessero, sotto i Longobardi, conservata, anzi acquistata la facoltà e il mezzo di far leggi. Rammenteremo solamente, per un di più, la legge citata sopra, nella quale Liutprando regola l’uso della legge romana, e impone una sanzione penale; e per conseguenza esercita in questo caso insieme co’ suoi giudici e con tutti gli altri Fedeli longobardi, un’azione sovrana su quella legge.


IV.


Quali erano finalmente i giudici degl’Italiani? «In que’ secoli, afferma il Muratori, la diversità delle leggi indusse la diversità anche de’ giudici, dimanierachè altri erano Giudici romani, cioè periti della legge romana, altri longobardi, altri franchi, ecc. 14» Non si vede qui chiaramente se il Muratori intenda che i giudici per la legge romana fossero romani di nazione. Sia però quel ch’esser si voglia, il documento da lui addotto per provar la diversità de’ giudici, non serve a nulla nel caso nostro. È [p. 125 modifica]un placito del marchese Bonifazio, tenuto nell’anno 1015; dalla conquista di Carlo erano allora passati dugento quarantun anno, pieni di rivoluzioni, o per dir meglio, di continua rivoluzione. Noi, dal vedere questo documento riferito come unica prova da un Muratori, possiamo in vece cavare un’altra conseguenza, cioè che, ne’ documenti anteriori al 1015 veduti da lui, che aveva veduto tanto, non sia fatta menzione di giudici romani. E ci prendiamo in quest’occasione la libertà d’osservare che le parole: in que’ secoli, o le equivalenti, furono troppo spesso usate anche da quell’insigne scrittore. Comprendendo in quelle parole di troppo ampio significato tutte l’epoche del medio evo, si chiuse più d’una volta la strada a scoprire ciò che c’era di più importante, cioè la distinzione appunto delle varie epoche, e in quelle il differente stato della società.

Uno scrittore posteriore al Muratori, dall’avere i Romani conservata la loro legge, argomenta in una maniera più positiva, che avessero anche giudici della loro nazione: «Dovevanvi dunque essere, dice, e tribunali e giudici italiani, che agli Italiani rendesser giustizia nelle cause che si offerivano ad esaminare 15.» Non fu forse mai scritto un dunque così precipitato; e non si può leggerlo senza maraviglia: poichè, dopo la pubblicazione dello Spirito delle Leggi, non pare che fosse lecito passare, per dir così, a canto senza avvertirlo, a quel fitto capitale delle dominazioni barbariche, la riunione del poter militare e del giudiziario in un solo ufizio, e nelle stesse persone 16. E già il Muratori aveva evidentemente provato che, presso i Longobardi, giudice e conte eran due parole significanti una sola persona 17: e non si può scorrere le memorie barbariche, senza avvedersi subito, che l’autorità di giudicare era riguardata come uno de’ più naturali, incontrastabili e importanti esercizi della conquista, della sovranità, del possesso, e quindi come un attributo de’ vincitori. Che se in qualche legge, in qualche cronaca longobardica, del periodo di cui qui si tratta, si trovassero queste portentose parole: giudici romani: sarebbe un fatto da osservarsi, un’anomalia da spiegarsi 18: ma non è un fatto da supporsi senza alcun dato, e per la sola induzione delle leggi diverse; non è un fatto da supporsi specialmente sotto quella dominazione, la quale, più d’ogn’altra, par che abbia levata ogni esistenza politica ai vinti. Un altro scrittore, ancor più moderno, credette che avesse sbagliato il Muratori nell’affermare che i conti avevano ufizio di giudici; e credette dimostrar lo sbaglio, dimostrando che la carica di conte aveva attribuzioni politiche e militari 19. Come se, nella maniera di vedere de’ Longobardi, queste fossero state incompatibili con le giudiziarie; come se anzi l’une e l’altre non fossero state per essi strettamente legate, e confuse nell’idea di sovranità aristocratica e nazionale.

L’errore di questo scrittore è derivato da una sorgente feconda d’errori già additata, ma troppo spesso inutilmente, dal Vico. Riferir qui le sue splendide parole, sarà uscir di strada un momento; ma qual sarà il lettore che ce ne voglia fare un rimprovero?

«È altra proprietà della mente umana, che, ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possono fare niun’idea, le stimano dalle cose loro conosciute e presenti. [p. 126 modifica]Questa degnità 20 addita il fonte inesausto di tutti gli errori presi dall’intiere nazioni, e da tutti i Dotti d’intorno a’ Principj dell’Umanità; perocchè da’ loro tempi illuminati, colti e magnifici, ne’ quali cominciarono quelle ad avvertirle, questi a ragionarle, hanno estimato l’Origini dell’Umanità; le quali dovettero per natura essere piccole, rozze, oscurissime 21

Anzi se si guarda meglio, l’opinione dell’autore dell’Antichità Longobardico‑milanesi non è neppur fondata sulle cose del suo tempo; lo è appena sull’idea di ciò che avrebbe dovuto essere. Nel paese stesso dove scriveva l’autore, in quel paese dove sul dominio longobardico erano passate le repubbliche de’ secoli posteriori, rimaneva ancora una traccia di questa prima consuetudine del medio evo, nelle preture feudali, in cui il conte, il cavaliere riteneva in titolo l’autorità di giudicare, e la conferiva a un suo mandato. Ancor più presente alle menti, quantunque lontane, doveva essere il fatto delle giustizie signorili, così di fresco, e così clamorosamente abolite in Francia. Anzi non si può dire, anche al giorno d’oggi, che siano totalmente abolite in ogni parte d’Europa.

Ma per concludere intorno ai giudici; quando non si volesse arrivar fino ad ammettere, o che gl’Italiani avessero sotto i Longobardi grado di milizia, o che fossero riguardati come indipendenti dalla giurisdizione sovrana di questi (supposizioni egualmente portentose), bisogna dire che i giudici fossero tutti della nazione conquistatrice. Le prove materiali ci mancano; ma, ridotti ad argomenti d’induzione, a congetture, perchè non ci atterremo a quella sola che è in armonia con tutte le nozioni che si hanno del dominio, longobardico, a quella che si spiega tanto facilmente col resto della storia, e che a vicenda serve a spiegarlo?

Riepilogando il detto fin qui, avremo: che una parte della legge romana cadde da sè; che la parte di legge conservata non esentava coloro che la seguivano da ogni altra giurisdizione del popolo padrone; che la legge stessa rimase sempre sotto l’autorità di questo; e che da esso furono sempre presi i giudici che dovevano applicarla 22. Ristretta in questi limiti, la concessione di vivere sotto la legge romana è tale che, per trovarne il motivo, non c’è più bisogno di ricorrere alla clemenza. Se può dare un’altra cagione, pur troppo più naturale.

Ed ecco finalmente su questo punto la nostra congettura.

Tutti i barbari che riuniti in corpo di nazione si gettarono su qualche parte dell’impero romano, avevano delle leggi loro proprie, non scritte, ma tradizionali. Queste, o fossero leggi propriamente dette, o semplici consuetudini, erano naturalmente fondate sui bisogni, sui costumi e sulle idee di quelli per cui e da cui erano fatte: costumi e idee che in parte sussistono ancora, e che sono così esattamente descritte nella Germania di Tacito, che qualche volta par di sentirlo parlare del medio evo, qualche volta perfino de’ nostri tempi. Portarono i barbari quelle leggi nel paese conquistato, le accrebbero, le riformarono, secondo i novi bisogni, ma sempre con quelle mire generali che abbiam detto. Ora queste leggi, ch’erano l’opera loro, la loro proprietà, perchè le avrebbero comunicate [p. 127 modifica]ai vinti? Per tenerli in ubbidienza? Ma quelle leggi non erano state fatte con un tale scopo: non regolavano le relazioni da vincitore a vinto, da popolo a popolo; ma da privato a privato, da privato a magistrato. Ecco perchè, nè i Longobardi, nè gli altri barbari obbligarono i vinti a ricevere le loro leggi. Il perchè poi lasciassero ad essi l’antiche mi pare ugualmente manifesto. Assicurati i privilegi della conquista, le relazioni de’ conquistati tra di loro diventavano indifferenti ai padroni. Perchè si sarebbero presi l’incomodo di far delle leggi per della gente che, del resto, n’aveva già? E come farle? che norma prendere, in una materia, nella quale non erano guidati, nè dalle loro usanze, nè dai loro interessi? Ognuno sa che non era quella precisamente l’epoca delle legislazioni a priori, e che non s’era ancora trovata l’arte di far le leggi por i popoli (dico leggi davvero per popoli davvero) come le monture per i soldati, senza prender la misura.

Queste mi paiono le cagioni generali dell’essere stata lasciata ai vinti la legge romana: le diverse circostanze in cui si trovarono i barbari ne’ diversi paesi occupati, danno poi le cagioni particolari delle varie modificazioni d’una tal concessione.



Note

  1. Inter Romanos negotia causarum romanis legibus praecipimus terminari. Chlot. Constit. generalis.; Rer. Franc., tom. IV, pag. 116.
  2. Lex Burgund., cap. 55, 2. - Lex Ripuar., tit. 58, 1.
  3. Esprit des Lois, liv. 28, c. 2.
  4. L’autore deve qui non tanto addurre per sua giustificazione, quanto confessare per sua vergogna, che, quando scriveva queste parole, non conosceva punto la dotta e insigne Storia del Diritto romano nel medio evo del signor De Savigny; della quale era pubblicata già da sei anni la parte relativa al regno longobardico. E in generale, tutto ciò che gli pare di poter fare per questo Capitolo, è di riprodurlo il meno corretto, come il più incorreggibile
  5. De scribis hoc prospeximus, ut qui chartam scripserit, sive ad legem Langobardorum, quae apertissima et pene omnibus nota est, sive ad legem Romanorum, non aliter faciant, nisi quomodo in illis legibus continetur. Non contra Langobardorum legem, aut Romanorum non scribant. Quia si nesciverint, interrogent alios; et si non potuerint ipsas leges plene scire, non scribant ipsas chartas. Et qui aliter praesumserit facere, componat guidrigilt suum, execepto si aliquid inter conlibertos convenerit. Et si unusquisque de lege sua descendere voluerit, et pactiones: atque conventiones inter se fecerint, et ambae partes consenserint, istud non reputetur contra legem, quod ambae partes voluntarie faciunt. Liutprandi Leges, lib. 6, 37.
  6. «Sicut Consuetudo nostra est, ut Langobardus aut Romanus, si evenerit, quod causam inter se habeant, observamus, ut Romani successores juxta illorum legem habeant (var.: ut romanus populus successionem eorum juxta suam legem habeat). Similiter et omnes sciptiones secundum legem suam faciant. Et quando jurant, juxta legem suam jurent. Et alii similiter. Et quando componunt, juxta legem ipsius, cuius malum fecerint, componant. Et Langobardos illos (var.: Langobardus illi) convenit similiter componere. De ceteris vero causis, communi lege vivamus, quam Domnus Carolus, excellentissimus Rex Francorum atque Langobardorum, in edictum adjunxit.» Pipini Reg. Lex 46; Rer. It., tom. I, par. II, pag. 124.
  7. Ved. le leggi di Rotari, ed altre.
  8. Leg. Barbar.; tom. 4, pag. 461.
  9. Vedi la dotta e sensata prefazione al codice stesso. Leg. Barb, tom. 4, pag. 461.
  10. Nullus Romanus Barbara cujuslibet gentes uxorem, habere presumat, nec Barbarus Romana sibi in conjugio habere presumat; quod si fecerint, capitalem sententiam feriantur. Lib. 3, cap. 14, pag. 479.
  11. Si Romanus homo mulierem Langobardam tulerit, etc. Liutpr. Leg., lib. 6, 74.
  12. Lib. 18, cap. 3.
  13. Salvum Judices fretum (sic). Lib. 4, c. 19. Freda o Fredo (da Friede, pace) prezzo della pace, pagamento della sentenza, la quale, fissando la composizione, faceva cessare la Faida (Fehde lo stato di guerra tra l’offeso e l’offensore). Ora si direbbe sportula. In tutte le leggi longobardiche, prima di Carlomagno, non è mai, per quel ch’io abbia potuto vedere, parlato di Freda: la qual cosa potrebbe essere un indizio per credere quel codice d’una età posteriore alla conquista.
  14. Praef. in Leges Langob.; Rer. It., tom. I, par. II, p. 4.
  15. Tiraboschi, Storia della Lett., tom. III, lib. 2, c. 5.
  16. Esprit des Lois, liv. 30, c. 18, Du double service; e altrove.
  17. Antiq., Dissert. VIII.
  18. Si trovano nel proemio delle leggi de’ Burgundioni, leggi degne d’osservazione per una singolare tendenza a pareggiare i conquistatori e i Romani.
  19. Ant. Long. Mil., Diss. 1,§ 64.
  20. Nel frasario del Vico, degnità equivale ad assioma.
  21. Scienza nuova. Lib. 1; Degli Elementi, II.
  22. In un’appendice annessa al presente capitolo esporremo alcune osservazioni sugli argomenti addotti dal fu professor Romagnosi nell’opera Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento, per provare che gl’Italiani, sotto i Longobardi, avevano giudici della loro nazione.