Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Libro settimo/30. Continua

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[p. 122 modifica]30. Continua. — Or accenneremo piú brevemente le riforme non dissimili fatte altrove. — Lente e poche furono dapprima in Toscana, governata da Richecourt in nome del signor lontano e straniero, l’imperator Francesco I. Non passaron guari le materie ecclesiastiche. Ma morto quello [18 agosto 1765], e succedutigli in Austria e nell’imperio il suo figlio primogenito Giuseppe II, e in Toscana il secondo Pietro Leopoldo, questi non solamente continuò le riforme ecclesiastiche, ma nel 1787 [p. 123 modifica] convocò un sinodo di vescovi toscani che fu riprovato da Roma. E fece insieme tanti e cosí vari ordinamenti civili, che sarebbe piú breve dire le cose da lui tralasciate che non le ordinate. Ai feudi, ai comuni, alle leggi civili e criminali, alle finanze, alla libertá dell’industria e de’ commerci, all’agricoltura, all’istruzione pubblica, a quasi ogni cosa si volse e provide cosí bene, che si potrebbe dire esserne riuscita Toscana lo Stato meglio ordinato di que’ dí, e modello perenne a qualunque principato assoluto. Ebbe sí il vizio di tali Stati; una polizia, una smania di sapere e regolare eccessiva, inquieta, incomoda, ficcantesi ad antivenire il male, non solamente colle leggi generali, che è dovere e possibilitá de’ governi, ma colla prevenzione d’ogni caso, che è impossibilitá. Ma questo fu male piccolo e passeggiero di natura sua. Peggiore e durevole fu che attese poco e male ad ordinar niuna milizia stanziale, che trascurò o disprezzò questa quasi spesa inutile in uno Stato piccolo ordinato ad economia e filosofia, e che tramandò questa trascuranza e questo disprezzo a’ posteri principi e popoli, i quali n’han portate le pene, e non se ne correggono perciò. Del resto, il Botta (libro L) ha tolto da uno scrittore straniero il cenno d’un governo deliberativo, che si pretende essere stato ideato da Leopoldo per Toscana; e non vedendo effettuata tale idea, il Botta dubita poi, se Leopoldo l’avesse veramente o se la lasciasse, «visti i mali prodotti da quelle assemblee in paesi illustrati da sole caldo». Ma s’ei l’ebbe e la lasciò, io crederei piuttosto ei la lasciasse per la solita ripugnanza che hanno i principi, che aveano particolarmente quelli del secolo scorso, a far concessioni. Ad ogni modo, morto Giuseppe II nel 1790, passò Leopoldo ad Austria ed all’imperio, e gli succedette in Toscana suo figliuolo Ferdinando III. — In Parma e Piacenza entrò a signoreggiar l’infante don Filippo per la pace d’Aquisgrana [1748]; e governò sotto lui Dutillot, un francese, de’ filosofi di quel tempo, che anch’egli fece riforme ecclesiastiche e buoni ordinamenti civili, e chiamò letterati d’altri paesi d’Italia e di fuori, fino alla morte del duca Filippo [18 luglio 1765], e poi durante la minoritá del duca Ferdinando figliuolo di quello. Ma cresciuto [p. 124 modifica]questo e preso il governo, cacciò Dutillot, e rimutò ogni cosa; da grandi contese, a grandi arrendevolezze per Roma; da progressi, a timiditá, immobilitá. — In Modena signoreggiò il duca Francesco III fino al 1742, e gli succedette poi Ercole Rinaldo ultimo degli Estensi, principe buono, e che solo forse de’ contemporanei non contese con Roma, ma che fu poco riformatore e gretto principe. — Delle due repubbliche poi, Venezia oziava, poltriva, marciva. Le contese con Roma erano solo moto che agitasse quella paludosa tranquillitá. Del resto, pace, beato far niente, carnovale quasi perpetuo, ozi e vizi. Non piú guerre continentali da due secoli e mezzo, non marittime contro a’ turchi dal principio del decimottavo; non riforme, non mutazioni, non miglioramenti di niuna sorta; commerci cessanti, perché, da maggiori che erano stati giá, diventarono, non progrediendo, prima pari, poi minori degli stranieri progrediti. La smania di difender qualunque cosa d’Italia, anche i malanni, fece difendere, lodare questa vergognosa decrepitudine veneziana; i nipoti, se risorti, ne giudicheranno. Dicesi delle aristocrazie che elle sono conservative; ed è vero; ma resta a sapere se sia bene o male il conservar le decrepitudini, e se conservandole si conservino gli Stati, o non anzi si precipitino. — Genova avea conservato piú commerci in pace, piú partecipazioni alle guerre italiane, senza dubbio; e l’ultimo fatto della propria liberazione era tale, che parrebbe averla dovuta rinnovare. Ma anche di lei si mani festò la vecchiezza all’incapacitá di saper reggere e serbare i sudditi. Continuarono dopo la pace d’Aquisgrana le parti in Corsica; rimastivi i francesi per aiutar Genova a tenerla, incominciossi a parteggiare per essi contro a Genova, e continuossi a parteggiar da altri per la libertá. Capo di questi era il Giafferi; fu assassinato dal proprio fratello [3 ottobre 1753]; crebbene, se n’inasprí sua parte; chiamò a reggerla Pasquale figlio di Giacinto Paoli, esuli amendue al servigio di Napoli. Natura forte, insulare, ma educata a civiltá, come quella poi di Napoleone, Pasquale Paoli avea del grand’uomo; e intese a liberar insieme e incivilire i suoi. Eppure (terribile insegnamento a chi anche con buone ragioni cerchi a dividere, o, se [p. 125 modifica]si voglia cosí dire, a liberare l’una dall’altra due parti d’Italia), or vedremo a che riuscisse. Approdò a’ 29 aprile 1755; fu riconosciuto da gran parte del popolo, rigettato, combattuto solamente da Matra, uno de’ capi che in breve fu vinto e passò a’ genovesi. Paoli ordinò un governo rappresentativo repubblicano, lui capo, e quasi dittatore, con titolo di «generale del regno e capo del magistrato supremo di Corsica»; ordinò una milizia non permanente ma che accorreva ad ogni cenno suo, ad ogni bisogno. Con questa mantenne la libertá del paese, delle popolazioni, ma non riuscí a cacciare i genovesi da parecchie delle cittá; e fa meraviglia il veder rimasti esso e i còrsi non pochi anni in tal condizione precaria, in sulla difensiva, senza ultimar la cacciata de’ lor nemici. E fosse in essi impotenza, o fiacchezza, o lentezza, ciò fu lor perdizione. Due volte i genovesi richiamarono i francesi: la prima, nel 1756 per due anni; poi, nel 1765 sotto Marbœuf per quattro anni, ma fu per sempre. Addí 15 maggio 1768, a Versailles, Genova cedette l’isola a Francia, serbandovi una sovranitá nominale. Quindici mesi appresso [15 agosto 1769] vi nascea Napoleone; e quindi per que’ patti, per cosí poco tempo frapposto, resta disputato tra Italia e Francia il grand’uomo. Per tali patti la mala contesa d’italiani contra italiani ebbe il fine solito, la soggezione a stranieri; per tali patti resta divelta d’Italia quella nobil isola. Paoli resistette, perdurò un anno ancora. Ma Francia guerreggiava ora per sé; guerreggiò forte e grosso; e Paoli, vinto, lasciò l’isola addí 13 giugno 1769. Esulò in Inghilterra, onde il vedremo tornare, e di nuovo inutilmente. — Ed ora (trascurando le repubblichette di Lucca e San Marino e i principatuzzi di Monaco e Massa, che porterebbero a dodici la somma degli Stati indipendenti italiani a quell’epoca), or ci volgiamo all’ultimo e piú forte e vivo di essi, al Piemonte. Ma la sua vitalitá speciale, e allor sola, stava nella guerra; e dal 1748 in poi sempre rimase in pace. Dicemmo che quando s’aprí tra Austria e Prussia la guerra de’ sette anni, avendo Francia presa parte per Austria, quest’alleanza novissima allora tolse a Carlo Emmanuele III l’occasione solita di entrar in guerra. Fu sventura? [p. 126 modifica]Ad ogni modo fu cessazione dell’operositá guerriera di Piemonte. L’esercito tenuto in piè, riordinato, esercitato non vi supplí. Né vi supplirono le operositá di pace, le riforme, i progressi civili fatti qui, del resto, anche meno arditamente che non altrove. Furono in tutto progressi di principato assoluto e non piú; riforme ecclesiastiche piú moderate che altrove; riforme feodali contro a’ signori; uniformitá, centralitá di governo; giustizia retta e severa; severo reggimento delle finanze; e per la prima volta da molto tempo, severi costumi, severa corte. Fu, in tutto, regno piú buono che grande, ed uno buono dopo uno grande è forse giá decadenza. La Sardegna, rozza ancora, quasi barbara, fu quella che si fece progredir piú, per portarla a quel segno delle altre province che si voleva arrivare, non oltrepassare. Lá furono fondate [1764, 1765] le universitá di Cagliari e Sassari. Ma in Piemonte bastò il mantenere, non si vollero forse avanzare gli studi. Ad ogni modo, avanzarono da sé; era giunto il tempo che Piemonte entrasse nelle colture italiane, e v’entrò splendidamente, come vedremo. Fu grave macchia di questo regno, Giannone esule da Napoli a Ginevra, e di lá venuto a Savoia per far sua pasqua, e cosí arrestato e tenuto poi prigione nella cittadella di Torino, dove morí il 7 marzo 1748. Tutto ciò per mal compiacere a Roma, a danno altrui, dopo averle dispiaciuto a profitto proprio. Morí Carlo Emmanuele III ai 20 febbraio 1773. Succedettegli suo figlio Vittorio Amedeo III, minore di lui. E fu servito da uomini pur minori; sia perché ogni principe li cerca pari a sé, sia perché gli uomini eran cresciuti dammeno in tempi piú facili. Amò, curò, esercitò molto, anzi esageratamente, la milizia; e per avere, nella pace non interrotta, un grosso ed allestito esercito, scompose le finanze assestate dal padre, e gravolle di grossi debiti, cattivo apparecchio alle guerre future. Istituí l’Accademia di Torino; amò piú che il padre le lettere e i letterati, e volle proteggerli; ma non dando loro libertá eguale a quella che giá cresceva per essi altrove, fu vergogna del regno suo, che i maggiori uomini di esso, Lagrangia, Alfieri, Denina, Bodoni ed altri, si facessero illustri o grandi, [p. 127 modifica] trapiantandosi altrove. Del resto, fu principe buono, amato, ma quasi compatito da sudditi e stranieri. — Finalmente, nella provincia straniera, in Lombardia, incominciaronsi le riforme, i progressi sotto l’imperio di Francesco I e di Maria Teresa. Poi, morto il primo [18 agosto 1765], e succeduto lor figliuolo Giuseppe II all’imperio, e fatto fin d’allora co-reggente degli Stati austriaci dalla madre superstite, e succeduto a questa poi nel 1780, egli fu riformatore piú ardito di tutti, principalmente nelle cose ecclesiastiche; né vi si fermò, per le supplicazioni e il viaggio a Vienna, che dicemmo, di Pio VI. Frati, monache, ecclesiastici ordinari, beni di chiesa, asili, immunitá, a tutto mise mano. Del resto, migliorò ed ordinò in codici le leggi civili, le penali e quelle di procedura; migliorò gli ordini comunali, ordinò la pubblica istruzione, protesse dotti e letterati. E cosí acquistò gran nome, fu posto in cima de’ principi riformatori ed amici di libertá da que’ contemporanei di lui, a cui pareva esser liberati, al cader di que’ privilegi signorili e religiosi che eran pur diminuzione della potenza assoluta e straniera, al livellarsi di tutto e tutti sotto questa. Il conte di Firmian fu ministro a ciò in Italia, e fece Lombardia invidiata da quegli italiani troppo numerosi sempre, i quali, non desti al sentimento dell’indipendenza, non si curan d’altro che di vivere, tranquillamente amministrati, alla giornata. — E cosí in tutto s’era progredito incontrastabilmente; i popoli godevano, i letterati lodavano; gli amici stessi di quel progresso universale, di che incominciavasi a concepir l’idea e pronunziare il nome, esultavano, speravano. E come alla fine del secolo decimoquinto, cosí alla fine di questo decimottavo, l’Italia, poco men che tutta indipendente, pareva avviata a felici destini. Ma in breve si vide una seconda volta, che non è fatto nulla quando non è fatto tutto in materia d’indipendenza; che niun progresso nazionale dura, finché non è fatto quello il quale solo è guarentigia di quanti son fatti, solo buon avviamento a quanti mancano. E si vide che tutte le vantate riforme del secolo decimottavo non erano apparecchi sufficienti a ben ricevere l’occasione che s’avanzava, l’occasione che avrebbe potuto essere d’indipendenza finalmente compiuta, che fu all’ultimo di cresciuta dipendenza.