Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Libro sesto/20. Re Carlo II d'Angiò

20. Re Carlo II d’Angiò

../19. Re Carlo I d’Angiò ../21. Re Roberto d’Angiò IncludiIntestazione 21 aprile 2018 75% Da definire

Libro sesto - 19. Re Carlo I d’Angiò Libro sesto - 21. Re Roberto d’Angiò

[p. 233 modifica]20. Re Carlo II d’Angiò [1285-1309]. — A Carlo I d’Angiò successe, da sua prigionia d’Aragona, Carlo II figliuolo di lui, nel regno di Puglia ed insieme nel contado di Provenza e gli altri feudi francesi. E fu nuova disgrazia nostra siffatta riunione del regno italiano e delle province francesi negli Angioini; i quali, quantunque dimoranti tra noi, sempre rimaser francesi, non si fecer nostri bene mai, come succedé poi piú volte delle famiglie di principi stranieri ma venute a regnare in Italia sola. Il tempo di Carlo II è famoso nella nostra storia letteraria, perché è quello della vita politica di Dante, quello de’ fatti che entrano piú abbondantemente nel poema di lui. Ed è pur tempo molto notevole nella nostra storia politica, perché oramai abbiamo in essa tedeschi, francesi, spagnuoli, tutti quanti gli stranieri moderni; e perché poi è il tempo degli ultimi errori di parte guelfa, quello in che succombette la suddivisione moderata, papalina ed italiana, e prevalse l’esagerata, pura o francese. — Morirono nel medesimo anno che Carlo I, papa Martino, a cui succedette Onorio IV italiano, e Pietro re, a cui succedettero il figliuolo primogenito di lui Alfonso III nel regno d’Aragona, e il secondogenito Giacomo in quel di Sicilia. Carlo II d’Angiò fu liberato per un trattato del 1288; onde rimase a lui il regno di Napoli o Puglia, a Giacomo quel di Sicilia. Ma appena giunto Carlo in Italia, ei ruppe il trattato; e si riaprí la guerra di Francia, Castiglia e Napoli contra [p. 234 modifica]Aragona e Sicilia, giá di nuovo riunite (per la morte di Alfonso) in Giacomo re dell’una e dell’altra. Cosí pressato, questi conchiudeva [1296] un nuovo trattato, per cui anche Sicilia era abbandonata all’Angioino. Ma sollevaronsi i siciliani, gridaron re Federigo fratello minore dell’Aragonese; e il sostenner poi generosamente, fortissimamente in lunga guerra contra Napoli, Francia, ed Aragona stessa. — Intanto al breve e non importante pontificato d’Onorio IV era succeduto quello non guari diverso di Nicolò IV [1288-1292]; ed era quindi vacata la Sedia due anni tra le dispute de’ cardinali italiani e francesi; ed eletto poi Celestino V, un santo romito, che fu grande esempio del non bastare le virtú private a quel sommo posto della cristianitá; e che fece quindi «il gran rifiuto», spintovi, dicesi, dalle arti di colui che voleva essere e fu in breve successor suo, Bonifazio VIII [1294]. Noi vedemmo, per due secoli e piú, un papa grandissimo e come pontefice e come principe italiano, non pochi grandi, quasi tutti buoni nelle due qualitá, quantunque talora imitatori inopportuni ed esagerati di Gregorio VII, alcuni solamente degli ultimi, i francesi, non buoni principi, come esageratori di parte guelfa fatta francese. Ora, Bonifazio VIII italiano, ma da principio tutto guelfo, esagerato, tutto francese, e poscia tutto contrario, e non solo imitatore inopportuno, ma, se sia lecito dire, caricatura di Gregorio VII incominciò la serie de’ papi men buoni o cattivi che vedremo poi. Una delle opere piú infelici di lui, fu il sostegno dato ai guelfi esagerati di Toscana; i quali prima in Pistoia, poi in Firenze e tutt’intorno, incominciarono a chiamarsi «neri»; contro ai moderati, chiamati «bianchi», ed accusati (secondo il consueto) di pendere alla parte opposta ghibellina. Dante, Dino Compagni, il padre di Petrarca, e quanti erano animi alti e migliori in Firenze furono naturalmente di parte moderata; ma fu poi gran colpa politica di Dante e non pochi altri, di quasi giustificar quell’accusa, rivolgendosi poi, quando perseguitati, e per ira, a quella parte non loro, a quelli che avrebbon dovuto serbare per avversari comuni. Intanto Bonifazio chiamava ad aiuto de’ guelfi neri o puri Carlo di Valois, un guerriero [p. 235 modifica] venturiero di casa Francia, a cui giá era stato dato e tolto nelle guerre e paci anteriori (in parole non in fatto) il regno d’Aragona. Scese in Italia con poca gente, pochi danari, s’abboccò con Bonifazio, risalí a Firenze, mutovvi il governo da’ bianchi a’ neri, che esiliarono i bianchi, e cosí Dante [1301]. L’anno appresso guerreggiò contra Federigo Aragonese, approdò in Sicilia; ma vi fu ridotto a cosí mal partito, che ne seguí finalmente la pace tra Francia, Aragona, Puglia e papa da una parte, e Federigo dall’altra, e ne rimase Sicilia a questo, secondo lo scritto per sua vita solamente, ma di fatto a sua famiglia poi [1303]. A tal fine contraria riusciva una delle ire di Bonifazio. Peggio che mai le due altre, in che si precipitò contro a’ Colonnesi, una famiglia cresciuta a gran potenza intorno a Roma; e contro allo stesso Filippo il bello, re di Francia, alla cui parte in Italia ei s’era anche troppo accostato, ne’ cui affari francesi ei voleva, ma non era lasciato entrare. Fu la prima od una delle prime volte che si parteggiò colá per quelle cosí dette libertá della chiesa gallicana, le quali Sismondi non cattolico ma liberale chiama «diritto di quel clero di sacrificar la coscienza stessa alle voglie del padrone secolare, e di respingere la protezione d’un capo straniero e indipendente contro alla tirannia». Ad ogni modo, accordatisi un mal cavaliero francese, ed un malo italiano, Nogareto e Sciarra Colonna, insidiarono il papa in Anagni; presero la cittá, invasero la casa, insultarono, minacciarono, e fu detto Sciarra battesse il vecchio pontefice di ottantasei anni. Ad ogni modo il tenner prigione tre dí, finché fu liberato dal popolo sollevato contro all’eccesso; ed egli d’angoscia o di furore moriva fra pochi altri dí [1303]. — Succedevagli Benedetto XI, papa italiano, buono e di nuovo paciero; ma morí fra pochi mesi, e, dicono, di veleno [1304]. Allora disputavasi a lungo l’elezione, di nuovo tra francesi ed italiani; e finivasi con un compromesso, che questi eleggessero tre candidati, e quelli nominassero ultimamente uno fra’ tre; e ne riuscí papa Clemente V, francese [1305], di funesta memoria, che tutti s’accordano a dire aver patteggiato di pontificare a voglia del re francese, e che ad [p. 236 modifica]ogni modo cosí pontificò. Rimase in Francia, chiamovvi i cardinali, la curia romana; e non potendo la Sedia, piantovvi la residenza, che continuò colá intorno a settant’anni, e fu dai contemporanei scandalezzati chiamata «cattivitá di Babilonia». Ancora, egli fu che abolí i templieri, ordine di frati guerrieri simili a’ gerosolimitani, piú guerrieri che frati, forse giá decaduti in costumi, certo cresciuti in ricchezze: ondeché loro spoglie furono forse allettamento, certo grande e brutta preda. In Italia Clemente V volle far il paciero; ma lontano, straniero, e da terra straniera non gli riuscí. La parte francese, guelfa esagerata, trionfò quasi dappertutto. In Toscana continuarono, s’accrebbero i neri; in Bologna prevalsero, cacciando i bianchi nel 1306. In Milano, dove, cacciati i Torriani da parecchi anni, avean signoreggiato i Visconti pendenti a ghibellini, erano stati cacciati questi fin dal 1302; e ne era seguíta una lega guelfa di molte cittá, lega non piú di nazionali contra stranieri, ma nazionali contra nazionali, caricatura anche questa di bei fatti antichi. Nei soli Scaligeri di Verona rimaneva qualche forza, qualche speranza, il primato della parte ghibellina, a cui i tedeschi non pensavano piú. Ché, morto Rodolfo nel 1292, e succedutogli a re de’ romani Adolfo di Nassau, non iscese, non poté nulla in Italia. Né vi scese o poté Alberto d’Austria figliuolo di Rodolfo, che nel 1298 fu eletto contro Adolfo, e lo spogliò ed uccise in battaglia; e che fu quello poi contro a cui nel 1307 si sollevarono e si liberarono ammirabilmente gli svizzeri, come ognun sa. Ma ucciso costui da un suo parente a vendetta personale nel 1308, gli fu eletto a successore Arrigo VII di Lucemburgo; il quale, chiamato da’ ghibellini, annunziò voler finalmente dopo sessant’anni far rivedere all’Italia una discesa imperiale. Ma, prima che l’effettuasse, morí Carlo II d’Angiò, e succedettegli Roberto suo figliuolo secondo [1309]. Il primo, Carlo Martello, l’amico di Dante, era morto da parecchi anni, lasciando un figliuolo, stipite degli Angioini d’Ungheria, i quali rivedremo in Italia.