<dc:title> Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Cesare Balbo</dc:creator><dc:date>1846</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Balbo, Cesare – Storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, Vol. II, 1914 – BEIC 1741401.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Della_storia_d%27Italia_dalle_origini_fino_ai_nostri_giorni/Libro_secondo/24._Continua&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20210210010507</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Della_storia_d%27Italia_dalle_origini_fino_ai_nostri_giorni/Libro_secondo/24._Continua&oldid=-20210210010507
Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni - 24. Continua Cesare BalboBalbo, Cesare – Storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, Vol. II, 1914 – BEIC 1741401.djvu
[p. 59modifica]24. Continua. — Di quelle scienze che alcuni chiamano «naturali», altri «positive», ma ch’io chiedo licenza di chiamare, per piú precisione, «materiali», poco è a notare in questa etá. Degli etrusci, dicesi sapessero tirar il fulmine: sará! Dei romani, toltone Catone scrittor d’agricoltura, non saprei qual altro un po’ grande nomare. Ma se, come dobbiamo, noi chiamiamo «italiani» tutti coloro che nacquero e crebbero di schiatte diverse in qualunque delle terre che or si chiamano Italia; noi abbiamo di quest’etá il maggiore scienziato che sia stato nell’antichitá tutt’intiera. Archimede siracusano [ — 208], gran matematico, gran filosofo, grande ingegner militare. Ma non si vede che abbia avuta scuola; certo, tutte le scienze avanzate da lui, non avanzarono dopo lui. Eppure, cosí positive come sono, cosí appoggiate alla facoltá del ragionar forte, elle sembrerebbero aver dovuto essere simpatiche al genio romano. Ma il fatto sta, che tal genio non era a nessuna contemplazione, nemmeno questa; era tutto alla vita attiva politica, finché fu conceduta. — E cosí è, che dell’arti quasi
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niuna fu coltivata felicemente da’ romani repubblicani. Della musica non si trova vi ponessero di gran lunga quell’amore, quell’importanza che i greci; quasi non pare la coltivassero. — Il nome di Pittore aggiunto ad uno de’ Fabi, è delle poche memorie che faccian credere essere stata l’arte, bene o male coltivata da liberi anzi da patrizi romani. Supplivano sí gli altri italiani. Quest’è l’etá a cui si riferiscono dagli archeologi presenti que’ monumenti piú perfetti dell’arte italo-greca, che s’attribuirono giá agli etrusci piú antichi. E giá accennammo quanti di que’ monumenti siensi trovati nelle cittá italiche. Ma è piú meraviglioso ciò che ce n’è detto dalle storie: duemila statue, dice Plinio, essere state in Volsci, quando fu presa da’ romani, spinti dal desiderio di esse. A questo modo i romani ornavano lor cittá. Se non che le pitture, che si facevano allora le piú sulle mura, non potevano esser trasportate; e cosí essi fecer probabilmente venir di fuori piú pittori, ma anche scultori, fonditori, figulini, incisori di monete e di gemme. — In una sola arte (fossero cittadini od altri italiani o greci gli artisti) si può dire che i romani avessero stili propri, peculiaritá: nell’architettura; e le loro peculiaritá vi furono le due solite, la sodezza e l’utilitá. Usarono fin da principio, molto piú che i greci, le vòlte, gli archi; furono, a dir di Strabone, inventori degli acquedotti; la cloaca massima è del tempo dei re; l’emissario d’Albano, dell’etá repubblicana [350 c.]. Ma la principale, piú certa e piú utile invenzione loro, fu quella delle grandi, ben diritte e sodissime vie pubbliche. Certo che anche prima di essi, in tutte le regioni incivilite di Grecia o d’Asia, furono vie segnate e fatte dal lungo passaggio; e certo che vi s’aggiunsero qua e lá tagli, argini, ponti, opere d’arte; ma colá non erano opere d’arte le vie intiere. I romani, all’incontro, le fecer tali fin da principio; e come vennero estendendosi nella penisola, vi fecero a poco a poco una vera rete di vie, non meno maravigliosa a quell’etá, di quel che sieno alla nostra le reti di strade ferrate, promosse da’ romani moderni che dicemmo. Tanto s’assomigliano le operositá, le necessitá della civiltá quantunque diversissime! O piuttosto, tanto s’assomigliano [p. 61modifica]
le civiltá anche piú diverse! Lo spendere per il pubblico, il capitalizzare il lavoro delle generazioni presenti a pro delle avvenire, è proprio sempre di tutte le nazioni forti, che han fiducia nel proprio avvenire, di quelle che sono conscie di lavorar per sé, non per altrui.