Dell'uomo di lettere difeso e emendato/Parte seconda/9

Parte seconda - 9. Che chi errò scrivendo , non dee rifiutare l'ammenda :

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Parte seconda - 9. Che chi errò scrivendo , non dee rifiutare l'ammenda :
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[p. 52 modifica]Che chi errò scrivendo non dee rifiutare l’ ammenda: e chi non sa non dee prendersi a correggersi né condannare altrui.


Non v’ è uomo in terra d’ ingegno sì limpido e cristallino, che in ricevere la luce della Sapienza non getti qualche ombra, chi più chi meno opaca e torbida d’ Ignoranza. Le nostre anime, diceva un Savio antico, fuoco da sé limpidissimo e tutto luce, perché sono congiunte a questa grossa materia de’ corpi che avvivano oltre la pigrezza che loro ne viene anche co’ fecciosi vapori s’ infoscano; onde a guisa di fiamma confusa e rammescolata con fumo, perdono in gran parte e la vivezza del moto e la chiarezza del lume. E quinci è la difficoltà nel cercare, e l’ incertezza nel conoscere la verità pertanto, hanc veniam petimusque damusque vicissim, di poter [p. 53 modifica]qualche volta non colpire nel centro senza esser perciò cace dal circolo de’ Dotti; così come la Luna, ancorché cada in eclissi e resti oscura, non per questo viene sbandita dal cielo.

E veramente non sono da sofferirsi coloro, che o vendono i proprj scritti o difendono gli altrui come Oracoli d’ infallibile verità, come oro di ventiquattro carati, senza mischianza d’ errore, senza lega di falso. De’ proprj, odano S. Ambrogio, che molto acconciamente li paragona a’ figliuoli, verso de’ quali l’ amore turba il giudicio, onde quanto s’ è loro buon padre, tanto suol’ essersi cattivo giudice: Unumquemque fallunt sua scripta, et auctorem prætereunt: atque ut filii etiam deformes delectant parentes; sic etiam Scriptores, in decores quoque sermones palpant. Degli altrui, leggano, oltre molti altri luoghi di S. Agostino, la III delle sue lettere, dove dice, suo costume essere non adorare gli Autori ma la Verità, non i loro detti ma la ragione; partendosi da essi dalla ragione si partono: talis sum ego in scriptis aliorum (finisce egli la lettura); tales volo intellectores meorum.

Di questo persuasi i Savj, prima di publicare i loro scritti, costumano di suggettarli all’ esame e alla censura d’ un’ amicougualmente avveduto e fedele, che, dove li truova manchevoli, dica loro come gli antichi schermidori a’ loro scolari: Repetere. Che se solo dopo essere usciti alla publica luce si conoscono difettuosi, essi stessi da sé lì corregono, ritoccandoli come Pittori, che non vantarono lor lavorio per opera a rigor di tutt’ arte perfetta, ma vi scrissero a piè il Faciebat di Poligleto e d’ Apelle: Tamquam inchoata arte, et imperfecta; ut contra judiciorum varietates superesset artificit regressum ad veniam, velut emendaturo quidquid desideretur, si non esse interceptus. E di ciò diede esempio il grande Ippocrate, che non si reco a vergogna il ritarre alcune cose che scritte avea delle Suture del capo.

Ma percioché tal volta o lo Scrittore, se non tardi non [p. 54 modifica]

s’ avvede degli errori suoi, de’ quali senza, volerlo si fece publicamente maestro stampandoli; o lascia prevenirsi da altrui nel prescrivere loro opportunamente l’ antidoto, e darne l’ammenda; quando ciò avvenga, chi è saggio conoscitore, e ragionevole amico del dovere, non se lo ascrive ad onta, non se lo reca ad ingiuria, né se n’ adira: impercioché non vuole, che come già i Romani, mentre erano affatto ignoranti delle Matematiche, regolavano le publiche azioni con uno sregolato e bugiardo orivolo a Sole, non enim congruebant ad horas ejus lineæ, così gli errori suoi sieno publica regola dell’ altrui sapere. Nimis enim, perverse seipsum amat, disse il grande Agostino, qui et alios vult errare, ut error suus latea.

Anzi essere ajutato a disingannare e sé, e, quello ch’è più, il Mondo, tanto dovrebbe esser caro ad ognuno, tanto obligato è ognuno ad amare la verità. Ed eccovi in alcune poche sue parole il senso, che di ciò ebbe lo stesso S. Agostino; uomo, non so se d’ ingegno o di modestia maggiore: Non pigebit me, sicubi hæsito, quærere; sicubi erro, discere. Proinde quisquis hæc legit, ubi pariter certus est, pergat mecum; ubi pariter hæsitat, quærat mecum: ubi errorem suum cognoscit, redeat ad me; ubi meum, revocet me.

E questa, di che ho fin’ ora parlato, la parte della modestia di chi scrive. Niente minore deve esser quella di chi legge: non prendendosi la professione di correr solamento a gli errori di chi scrive per condannarli, come gli Avoltoi a’ fracidi carnami, o i Corvi alle carogne per pascersi; facendolo di più con tanta libertà, come se non vi fosse altro in che non si potesse errare, che notando gli errori de gli altri. E pure verissimo è l’ aforismo di S. Ambrogio: Saepo in judicando majus est peccatum judicii, quam peccati illius, de quo fuerat judicatum.

Questa è scortese maniera di molti, qui obtrectatione alienæ scientiæ famam sibi aucupantur;

Ferulasque tristes sceptra Pædagogorum [p. 55 modifica]con un sopraciglio censorio tengono sempre alzate sopra i gli Au- tori che leggono, per isferzarli; godendo non meno essi d’ usare con questo la sferza, che altri lo scettro. Quindi sono nate le tanto liti, le apologie per non dire i duelli, e le tragedie di mille Autori, anche di non ordinario sapere, che in questa maniera d’armeggiare hanno gittato molto tempo e molto sudore; ma con che pro?

Bella geri placuit, nullos habitura triumphos,

materia a me par questa da non passarsi affatto a chiusi occhi. Eccovi dunque, intorno ad essa alcuni pochi avvisi.

Primo: Che un’ uomo, che non ha altro che la lingua e la pancia (come Antipatro disse di Demade), voglia prendersi a fare il Saggiatore degli scritti d’ oro de’ valen’ uomini; trovando in essi quanto v’ è di puro e quanto di lega, condannando ciò che non intende, ributtando ciò che non gli piace, e rodendo ciò che non può masticare che una vil feminuzza, presa in vece di fuso la penna, scriva contra diviii Teofrasto, e, tacciandolo d’ignorante e di scemo, rinnuovi gli antichi mostri delle favole: che una superba Onfale condanni il grand’ Ercole dalla mazza alla rocca, e dall’uccider mostri al filare che un Demostene, cuoco di Valente imperadore, quasi se gli fosse stata la cucina scuola di Sapienza e le stoviglie libri qualifichi la Teologia del magno Basilio e la ributti come vivanda senza sale e Sapienza senza sapore: che un, Messer Gio. Lodovico tratti il dottissimo S.Agostino da ignorante, e pretenda (Sus Minervam) insegnare, le vere forme di Logica a quel grande Agostino tutto mente, a quell’ingegnoso Archimede, che contra i nemici della Verità e della Fede seppe fare tanti fulmini quanti argomenti, prendendo da chiarissimi principj quasi raggi dal Sole le proporzioni, e unendole con le forme dialettiche al punto d’ infallibili conseguenze: non è questo lo stesso, che vedere Mures de cavernis exeuntes corvere una paglia per lancia in petto a Lioni? Ranocchi delle paludi non solo intorbidar l’acqua a Diana, ma volersela ingojar bell’ e intera; Giumenti collo sconcio [p. 56 modifica]ragghiare delle loro dissonantissime trombe atterrire e mettere in fuga i Giganti?

In vedere costoro, e altri lor pari, postillare cassare, correggere gli scritti di que’ valent’ uomini, mi ritorna alla mente e quasi mi viene inanzi a gli occhi quell’ indiscretissimo Asino, che con la bocca avvezza a gli sterpi, a’ bronchi, alle spinose pinnocchie de’ cardi osò lacerare e mangiarsi tutta l’Iliade del Poeta Omero; con tanto maggior vergogna e disavvetitura di Troja, sì come disse un Poeta, quanto che già un Cavallo più onoratamente, ora più vilmente un’ Asino la distruggeva.

Moriva Aristide, Greco: uomo di virtù guerriera, provata a più d’ un cimento: e moriva di veleno preso dalla morsicatura d’ un certo piccolo animaluccio, che l’ avea punto. Non incresceva al valent’ uomo il morire, ma il morire da vile; cioè non isquarciato da un Lione, non pesto da un’ Elefante, non isbranato da una Tigre, ma punto da un’ infelice bestiuola. Simile a me par che potesse essere il dolore di que’ grandi Maestri del Mondo, vedendosi impugnati, ripresi, condannati, non da uomini per Lettere o per ingegno eccellenti, ma da un cuoco, da una femina, da un pedante. Che se le stelle (disse Cassiodoro) vedendo in un’ orivolo a Sole imitati e quasi scherniti col piccol moto d’ un’ ombra, gl’ immensi periodi della lor luce, se avessero sdegno, confonderebbero per isdegno il Cielo, e ‘l Mondo, e incomincerebbero altri movimenti, altri giri, meatus suos fortasse deflectere,nt ne tali ludibrio subjacerent; che vi pare farebbero ora tanti in ogni professione di Lettere oracoli di Sapienza, se nel silenzio de’ loro sepolcri potessero udirsi tacciare chi di cieco, chi di scimunito, chi d’ inescusabilimente ignorante? e questo da uomini, non che non tutto savj, ma, Se dal senno si misurino, ne pur tutt’ uomini; che per guadagnarsi appresso il volgo degl’ ignoranti e nome e credito d’ Ercoli e di Sansoni, svellono i peli dal mento a’ già morti Lion.

Secondo: Molte volte avviene, che sia nostra ignoranza [p. 57 modifica]quello, che in altrui ci sembra errore; e ci si potrebbe per avventura dire ciò, che molti savj e santi Vescovi dissero all’ Apostata Imperadore Giuliano, che lesse sprezzò una dottissima Apologia di Santo Apollinare: Legisti, sed non intellexisti; si enim intellexisses, non improbasses.

Gli antichi Romani, nell’esercizio dell’ armeggiare in che tenevano la soldatesca, d’ ogni tempo occupata, davano per prima regola di ben colpire, non iscoprirsi alla spada del nemico; sì che schermendo egli il colpo, nell’atto medesimo ferisse ove l’ armi non difendevano, prima che riaver si potesse la spada dal tiro, e rimettersi, con perdita di più tempi, in guardia. In qua meditatione (disse Vegezio) servabatur illa cautela, ut ita Tyro ad inferendum vulnus insurgeret, ne qua ex parte pateret ipse ad plagam. E prima regola appunto di chi prende la penna contro d’ uno Scrittore de’ essere, ove si condanna l’ altrui ignoranza, non mostrare la propria. Altrimenti, se, entrando in un laberinto, per cavarne chi ci va errando, voi non avete filo con che uscirne, sarete la burla di Diogene, che si rideva de’ miserelli Grammatici, tutt’ intesi a rintracciare gli errori d’ Ulisse, mentre intanto non veggono i proprj.

Non bisogna prendersi a mordere altrui, inanzi che sieno nati i denti della Sapienza, che (conte avvisa Aristotele) spuntauo tardi. Conviene esser doppiamente fornito a Lettere e ad ingegno avendo a correggere chi errò, sì che e l’errore sia certo, e la correzione incolpabile. Ed oh quante volte avviene, che, per non essersi bastevolmente inteso il vero senso dello Scrittore, si fanno i colpi di Muzio Scevola, che, credendosi d’ uccidere il Re, ammazzò il servidore! S’ impugna, come detto dall’altro,’ ciò ch’ egli né disse né sognò, e contro una fantasima s’ armeggia alla disperata che se, non avendo occhi di veduta bastevole, ci fossimo serviti, di quegli d’ un’ avveduto amico, ci avrebbe fatta riporre la spada, come la Sibilla ad Enea, perché non ferissimo indarno l’ Ombre, con molta nostra fatica, e senza al [p. 58 modifica]cun lor danno.

Terzo: Non si vuole attizzare alcuno che viva, misurando il suo sapere adeguatamente da gli scritti che publicò; conciosiccosaché, in chi s’ attizza, lo sdegno molte volte divenga ingegno, svegliandosi tutti gli spiriti prima addormentati, e correndo ove il bisogno li chiama; così, come in lucernis oleum fluit illo, ubi exuritur. Quanti, che si teneano in seno nascose e sepolte le vene d’ oro di bellissimi ingegni e di prezioso sapere, punti da chi volle (stimandoli poveri di Lettere) provocargli, le hanno fatte al mondo palesi, dando a’ loro emuli il mal pro d’averli attizzati? nella maniera, che tal volta le rupi gravide di ricchi, ma occulti metalli, percosse e spezzate da un fulmine, mandando per le aperture della ferita i saggi di quel prezioso che dentro nascondono, fanno vedere, che sono monti d’oro e d’argento quelli che si stimavano essere non altro che oziose masse di sassi. Quanti, che sembravan cervelli freddi, e duri come le selci, provocati al cimento della penna, appunto come selci percosse, hanno mandate, non che scintille per rilucere, ma vampe e fulmini per ferire? Qual più insensato e più, stolido animale d’ una Giumenta? Pur’ eccovi quella dell’ avarissimo Balaam, che, percossa con più sdegno che ragione, divenne in sua difesa un Demostene. Balaæ (disse Crisostomo) erat Asinus, animal omnium, hebetissimum; nec minus bene se defendit apud. eum, qui ipsum pulsabat, quam homo præditus ratione. Non sanno ancora i mutoli (come del figliuolo di Creso si dice) a difesa delle cose loro per natura congiunte, snodare la lingua; e con miracolo di quel naturale amore a cui nulla e miracolo, dire ciò che mai non impararono a dire?

Oh quanti, sia invidia, sia rabbia di contradire, sia ambizione di fabricarsi su le rovine altrui concetto di valent’ uomo, imitando, dice Teodoreto, quel Semei che si fece al mondo famoso con lapidare un Re, e Re sì santo e sì innocente com’ era David, hanno con le punte e punture delle lor penne troppo acute attizzati di che creduti Agnelli, e provati Leoni, han fatto loro desidare [p. 59 modifica]di ritirarsi dallo steccato i ma indarno, e tardi; perché Galeatum, sero duelli poenitet.

Hanno seminati, come Cadmo, detti mordaci, quasi denti di serpe velenosa; si sono dipoi atterriti, vedendone nascere di repente un’ esercito d’ armati, Messis cum proprio mox bellatura colono.

Hanno presa (come disse Archiloco a chi fuor di ragion, volle provocarlo) la Cicala per l’ ali e udendone poscia le grida, vorrebbono o non aver’ avute mani per prenderla, o non avere orecchi per sentirla. L’ hanno attaccata come Marsia con Apollo, credendo essere un Pastore quello ch’ era un Dio; quando poi si son veduti scorticar come un Bue, hanno chiesta pietà, hanno offerte promesse: ma indarno; ché chi voleva la pelle non s’ è lasciato dar parole, né vincer dalle preghiere chi fu vincitore del canto. In fine si son trovati come in mezzo alle vipere, e a gli aspidi, né hanno saputo di chi lagnarsi fuor che di sé soli, che vi si andarono a mettere temerariamente in mezzo: tardi avvertiti, e queruli senza pro; come quell’ infelice esercito romano, che, trovati in Africa più mostri che uomini nemici, con chi guerreggiare, diceva:

Nihil, Africa, de te,

Nec de te, Natura, queror, Tot monstra ferentem,

Gentibus ablatum, dederas serpentibus, orbem.

In loca serpentum nos venimus.

Un tal fu Ruffino, che a gran suo danno punse e provocò San Girolamo, e volle essergli anzi emulo che amico. Dipoi provando com’ egli avesse e destra in colpire e pesante in ferire la mano, volle sottrarsi dalla mischia gridando, sé essere senza sua colpa punito. Amore di verità non passione di sdegno avergli guidata la mano mentre scrivea. Non doversi fra Cristiani, fra Monaci, prendere i tiri di penna come colpi di spada. A cui S. Girolamo, Esto, disse, me nescius vulneraris: quid ad me, [p. 60 modifica]qui percussum sum? Num ideirco curari non debeo quia tu me bono animo vulnerasti? Confossus jaceo, stridet vulnus in pectore, eandida prius sanguine membra turpantur; et tu mihi dicis: Noli manum adhibere vulneri, ne ego te videar vulnerasse?