Dell'uomo di lettere difeso e emendato/Parte seconda/7

Parte seconda - 7. A gli Scrittori d'impudiche poesie , Parenesi.

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[p. 42 modifica]A gli Scrittori d’ impudiche poesie, Parenesi.


Uditemi, o Luciferi della terra. Così dunque vi donò Dio un’ ingegno d’ alti pensieri e d’ acuto intendimento perché aveste a voltarne contro di lui ingratamente la Punta? V’ insegnò a maneggiare con lode una penna, perch’ ella vi fosse saetta per ferirlo nell’ onore? Dandovi una mente d’Angioli; vi avea a provare nimici come Demonj?

Né mi dite: non avevamo ingegno fuor che solo per questo. Dirò di voi ciò che Tertulliano degl’ Israeliti: Maluistis allium et cæpe, quam coelum fragrare. La chiarezza de’ vostri ingegni, che poteva risplendere con raggi di stella salutevole, avete voluto che sia luce di legno fracielo, nata dalla putredine e dalla corruzione. Siasi vera che foste docili solo al poetare. Ma poetar lascivamente fa egli necessità d’ingegno, o vizio di volontà? Bastava (ciò che fece Pitagora con un lascivo, sonatore di cetera) che mutaste tuono alla lira della vostra Musa; e cambiandole un Lidio molle, in un Dorio grave, in vece di svegliare negli altrui affetti movimenti di passione lasciva, glie li avreste addormentati. [p. 43 modifica]


Ma quando pur vi fosse toccata una Musa metrice, con quello che voi chiamate genio o talento di poetar lascivo; io vi dirò, e con più ragione, quello che Lattanzio ebbe a dire di Leucippo Filosofante, primo inventore degli Atomi, e difensore del Caso: Quanto melius fuerat tacere, quam in usus tam miserabiles, tam inanes, habere linguam! Non è egli meglio non avere vena di poesia, che avere una vena che butti tossico e veleno? Un savissimo Imperadore mai non acconsentì che la moglie sua beesse vino, ancor che i Medici giurassero, altra medicina non esservi per fare ch’ ella di sterile ch’ era divenisse feconda. Stimò quel saggio Principe il rimedio peggior del male; e diceva: Malo uxorem sterilem, quam vinosam. O quanto meglio starebbe a voi in bocca quest’ altro: Malo Musam sterilem, quam lascivam! S’ io non so favellare altra lingua, che d’animale; voglio essere anzi uomo mutolo, che bestia parlante.

E qual pro vostro, che struttovi l’ ingegno, e consumata l’ età e la vita, publichiate al mondo un’ opera, quando pur ciò sia, immortale, se per essa sarete lodati in terra, e tormentati sotterra; lodati dove non siete, e tormentati dove in eterno sarete? Gli Orazj, i Catulli, gli Ovidj, i Galli, i Marziali (per non dire de’ nostri di Religione più santa, ma di poesia piu profana), che giova loro, che stiano ora alla luce della publica fama, se intanto stanno nelle tenebre dell’inferno sepolti; e per ogni apice di quell’ impuro che scrissero, sono tormentati colà, mentre qui, senza saperlo, sono per quello stesso inutilmente lodati?

Benché, quando pur dopo lo studio di molti anni v’uscisse della penna un’ opera di merito immortale (nel che pero pauci, quos æquus amavit Juppiter); di quella gloria, ch’ è il legittimo premio delle fatiche de’ grandi ingegni, altra parte non vi promette che la men degna, quella dico del volgo o de’ viziosi: poiché uomini, assennati e savj, a’ cui orecchi solæcismus magnus et vitium est, turpe quid narare, anzi v’ abbommeran come peste della vita civile [p. 44 modifica]e de’ buoni costumi; né sembrerà loro la mal’ usata virtù de’ vostri ingegni altrimenti che la smisurata sì ma empia forza de’ Giganti, che non si lodano come robusti perché poteano svellere dalla terra i monti e accavallargli l’ un sopra l’altro, ma si condarmano com’ empj perché con ciò presunsero di combattere il Cielo e levar Giove di seggio.

Ma se altro non vi persuade, eccovi Dio sceso alle sordidezze d’ una stalla, alle miserie della povertà, alle bruttezze d’ una vita oscura, a gli scherni dì scimunito, alle calunnie di seduttore, alla vendita di schiavo, alla condannagione di reo, alla morte di ladro, tutto lividure sotto le sferze, tutto sangue tra le spine e i chiodi, tutto confasione nella nudità, tutto dolor su la Croce. Or fatevi avanti e gli chiedete: Per chi cercare un viaggio sì lungo, e fra termini sì lontani, dal Cielo al Calvario? Per chi riscattare uno sborso sì copioso di lagrime, di sudori, di sangue? Ebbe egli in ciò, questo nobile mercatante, disegno d’ altro guadagno, che d’anime? Pretese egli altro da noi chiese altro al suo Padre, che averci in vita imitatori, dopo morte compagni? Or mettetevi voi a paragone con Dio, e mirate l’indignità di questo gran contraposto. Egli per salvar’ anime fa quanto può, voi ciò che sapete per perderle. Che pronostico fate di voi stesso? Qual faccia avrete in comparirgli davanti come reo a vostro giudice, mentre alzeranno contra di voi dall’ inferno le grida tanti per vostra cagione perduti, e ne’ volumi de’ secoli avvenire vi si mostrerà quanti altri dopo questi per vostra cagione si perderanno? Qual difesa avrete alle vostre, reo delle colpe altrui? Bench’ elle non sono tanto d’ altrui, che non sieno vostre, già che voi poneste a quelle cadute l’inciampo, voi deste a que’ frutti di morte il seme.

Uomo in terra non vive, cui Lucifero miri con miglior’ occhio, e a maggior cura guardi e conservi, quanto chi s’ affatica: in distillar dal suo capo nella tazza d’ oro d’ un libro ingegnoso o peste d’ errori o veleno d’ impura poesia. Uno di questi basta a torre alla metà de’ Demonj la fatica di tentare; poiche un mal libro vale per cento Demonj. Qui dorme Beemot in silentio calami, in [p. 45 modifica]locis humentibus; né ha mestieri d’ affaticarsi perché si cada, dove lo stesso suolo, lubrico e sdrucciolente inganna il piede e gli toglie il sostegno.

Timone Ateniese odiò tutti gli uomini; un solo Alcibiade amò: ma amar lui, era odiar tutti; perché dall’indole sua egli indovinava, lui dover’ esser la rovina di molti, e, se gli riusciva, anche lo scempio di tutta la Grecia. E que’ veri Misantropi di colà giù, se v’è uomo che careggino come amico e abbraccino come caro, sono cotesti, che con libri di durata immortale e di malizia mortale hanno a combattere molti secoli contra il Cielo, ad espugnare l’onestà in molti petti, ad arricchire il loro regno di molte anime.

Queste verità vedute al lume della ragione e della Fede da: un famoso Poeta, io so per ragguaglio di persona sua o domestica o conoscente che gli cagionarono molte volte raccapriccio per orrore e quasi sfinimento per doglia; e lo portarono, preso in mano il libro da sé composto, a mirarlo tanquam Orbis terrarum Phætontem (come Tiberio chiamava Caligola); indi, come a meritevole d’ un fulmine, dargli sentenza di fuoco. Ma se stendeva la mano alle fiamme per gittarvelo dentro, e abbruciare in esse quell’ incendio del mondo, ne la ritirava con occulta violcnza di compassione. L’amore, che gli raccordava le lunghe e fredde notti vegliate in sette anni (ché tanti ne spese a lavorarlo) le grandi fatiche dell’ ingegno, che vi aveva ivi spremuto il sugo migliore del suo sapere; i danni della sanità infievolita e fatta debole con la lima de’ lunghi studj, sì che non v’ era ivi sillaba o verso che non gli costasse un pezzo di vita; finalmente il publico desiderio del mondo invogliato d’ averlo, e la gloria che il merito dell’ opera gli prometteva; Ahi! incantesimi erano questi che gli rendevano intormentita la mano, stupido il braccio, e ‘l cuore diverso: onde mutando consiglio condannava sé di credulo e di crudele; e quasi in atto di chiedere al suo libro mercè e perdono, lo baciava, sel riponeva sul cuore, e, per [p. 46 modifica]

racconsolarlo dello spavento del fuoco, gli prometteva per quanto prima la luce. Dico vi guardi, che mai siate padri d’ un simil libro, Quantunque lo conosciate d’ indole, scelerata e di costumi infami, l’ucciderlo di vostra mano, lo sbranarlo facendone pezzi, l’ incenerarlo nel fuoco, vi sarà impresa di così dlifficile riuscimento, quanto ammazzare di vostra mano un figliuolo, e cavargli l’ anima con un colpo di coltello nel cuore: e appunto disse ne’ suoi Stromati il Maestro d’ Origene: Libri sunt filii animorum. Il conoscere, l’ antivedere, che il publicarlo alle stampe sarà per caduta dimolti e per rovina vostra, come ad uomo come a Cristiano, metterà tal volta orror nella mente e gelo nel cuore, e sospirerete d’ aver fatto quello, che tanti sospiri tante fatiche vi costa. Ma in fine questi saranno rimordimenti della coscienza di Cesare su le rive del Rubicone. Vi farete forza per vincere e voi stesso e Dio; e con ciò, per altrui danno e vostro, lo passerete con un risoluto jacta est alea.

Io per me, se due spettacoli mi si offerissero a vedere,

o il vecchio Abraam legare come vittima su l’altare l’ unico suo Isaac, con la mano sì ferma come intrepido aveva il cuore, e, accostato alle legne del sagrificio il fuoco alzare il coltello in atto di calarne il colpo sul collo dell’inneocente figliuolo, senza che né tremante il braccio né pallido il volto né lagrimosi gli occhi dessero testimoniaanza d’ un cuore addolorato; sì inteso all’ufficio di Saceredote, come se si fosse dimenticato d’ esser padre; o pure, se affetto di padre sentiva, con più invidia compassione, al figliuolo che moriva, ancorché in lui egli, Vittima e Sacerdote uccidesse non meno sé stesso che lui, in cui più che in sé stesso vivea: o un’ ottimo Autore d’un pessimo libro, vinti i contrasti de’ suoi pensieri, de’ suoi amici, di tutto l’inferno, metterlo generosamente nel fuoco con il quella mano medesima, che l’ avea a sillaba a sillaba e scritto e bilanciato; buttando in un colpo le fatiche degli anni passati e la gloria de’ secoli avvenire, [p. 47 modifica]e- uccidendo in un suo parto sé stesso, perdendo con voliontario rifiuto quella vita che sola tien vivo dopo morte, dico la fama ne’ posteri: di questi due spettacoli io non so qual più volentieri vedessi; e forse mi parrebbe più lieve, per espresso ordine di Dio, Padre de’ non nati e Vita de’ morti, uccidere un figliuolo che si generò con diletto e può risorgere con miracolo, che alla segreta voce dell’occulta favella con che Dio parla a’ cuori abbruciare un suo libro, che in concepirlo, in partorirlo, in allevarlo costò più fatiche che non ha sillabe. E che? L’amore della gloria, e la speranza di trovar nome d’ animo invitto, non mossero Bruto a condannare a morte gli stessi suoi figliuoli ribelli alla patria, nimici del publico bene? Volle condannarli come Consolo, non liberarli come Padre, Et exuit Patrem, ut Consulem ageret. Gli sofferse il cuore di vederli legati al palo, giovani di bellissimo aspetto, e basta dire figliuoli: Et qui spectator erat amovendus, eum ipsum Fortuna exactorem supplicii dedit. Ma egli ne poteva di meno: Chi dunque gli temperò sì duro il cuore, o chi gliel cavò per quel tempo, mentre e comandò e mirò intrepidamente le morte de’ figliuoli? Vicit, amor Patriæ, laudumque immensa cupido. Dunque avidità di gloria tanto può che fa infino di padri carnefici? ma dove in uno stesso si perde e il figliuolo, e la gloria che da lui s’attendeva, quanto è più eroico atto l’ ucciderlo, poiché non prende per farlo forza altronde che dall’amore della virtù?

Ma sperare d’ aver mai uno spettacolo sì beato, e vanità. Pur s’ impetrasse, che le sordidezze, quelle che affatto sentono del brutale, si togliessero e restasse il libro, se non buono, almeno non pessimo. Ma ancor per, questo s’ ode quella risposta, data già al Senato di Roma, mentre si deliberava di scemare il Tevere con diramarlo, e torgli l’ acqua de’ fiumi che vi mettono, per assicurare la città dalle spesse inondazioni che la sommergevano: Ipsum Tjberim nolle prorsus accolis fluviis orbatum [p. 48 modifica] minore gloria fluere. Non soffrono, che scemino d’ una stilla, che calin d’ un’ apice i loro componimenti. Parrebbero loro mostruosi, se fossero tronchi; essendo veramente mostri, con essere interi.