Dell'uomo di lettere difeso e emendato/Parte seconda/2

Parte seconda - 2. Che si dee non torre l'altrui, ma trovar cose nuove del suo .

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Parte seconda - 2. Che si dee non torre l'altrui, ma trovar cose nuove del suo .
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[p. 11 modifica]Che si dee non torre l’altrui, ma trovar cose nuove del suo.


Se il desiderio di farsi con le stampe appresso i posteri immortale assottigliasse così l’ingegno per ritrovar del suo, come aguzza le unghie per involare l’altrui; molti, a cui, come a’ convinti di ladroneccio, è stato sbandito il nome e confiscata la gloria, avrebbero avuto l’un’e l’altro immortale. Ed oh! quanto più felici andrebbon le lettere, e a quanto miglior’ uso si spenderebbono gli anni, gli studi, e l’ingegno, se, lasciata questa vile fatica di mutare quadrata rotundis, e mettere in disteso quello ch’altri pose in iscorcio, tutto lo sforzo de’ nostri pensieri si rivolgesse ad arricchire le Scienze e l’Arti di qualche nuovo ritrovamento, che, non conosciuto da gli antenati, sia giovevole a’ posteri che verranno! Un sol foglio di questi basterebbe a meritarci quell’onore, che molte volte i grandi volumi in vano presumono.

Anzi il solo cercar cose nuove, quando ben non succeda trovarle, non è senza lode; perché non è senza utile. Plurimum enim ad inveniendum contulit, qui speravii posse reperire, disse il Morale. E chi ha stimoli di generosi pensieri, vuole anzi farsi da sé con fatica la strada in cielo, che caminare dietro altrui in terra; tal che possa dir col Poeta: Libera per vacum posui vestigia princeps.

Non aliena meo pressi pede.

Ché alla per fine, benché sia più agevole che cada chi [p. 12 modifica]

tenta di volare in cielo che chi si contenta di caminare in terra, pure quel mgnis tamen excidit ausis ha tanto del glorioso, che la lode d’esser salito vince di lunga mano il biasimo d’esser caduto. E ancora oggidì il generoso ardire del giovane Icaro, che volando s’avvicinò alle stelle, ha più ammiratori della salita che non ha schenitori della caduta.

Stivæque innixus arator

Vivit, et obstupuit; quique æthera carpere possit,

Credidit esso Deum.

Ed io per me, vedendo che senza o caduta o inciampo, mal si può ire ancor per la calcata (già che in molte cose, il nostro sapere è più credere, che sapere; è più non vedere gli errori che abbiamo, che non averli), hi nelle lettere il senso, che per altro avea quell’amico di Seneca: Si cadendum est mihi, coelo cecidisse velim. Vorrei che i nostri ingegni fossero co’ nostri pensieri come l’Aquile co’ loro pulcini, che, ancor prima che abbiano messe tutte le penne e fermate sicuramente l’ali al volo, li caccian dal nido, perch’ escano alla caccia; come se dicessero: Siete Aquile oramai del tutto impennate, e ve ne state qui neghittose a covare il nido? Avete artigli e becco, e non vi vergognate di prendere come pulcini di Rondini, l’imbeccata? Ite alla caccia, e trovatevi da voi, stesse il vivere ché per questo avete l’armi in pugno, per questo siete Aquile.

Ogni altro pensiero, che non mirasse a ritrovar nelle Lettere nuove cognizioni Ippocrate lo stimava fuori del segno, dove debbon tirare tutte le linee del loro studio i Letterati. Non volea che si raccogliessero gli avanzi de’ morti Scrittori, quasi bona naufragantium; ma che sì facesse vela all’acquisto di nuove mercatanzie, onde riuscisse e il mondo più ricco e noi più gloriosi. Mihi vero invenire alilquid corum, quæ nondum inventa sunt, quod ipsum notum, quam occultum esse præstet, scientiæ votum, et opus esse videtur. [p. 13 modifica]


Oh quanti, cercando cose non prima trovate, trovarono cose non prima cercate! Solo il desiderio di tramutar qualche metallo più vile in oro, non ha egli aguzzati i pensieri e assottigliato l’ingegno tanto, che si sono trovati que’ be’ miracoli di natura, che l’Arte chimica sa lavorare? E qual miniera di cognizioni fondamentali d’una vera naturale Filosofia non s’è scoperta in essi, quando, vi sia ne’ tempi avvenire chi sappia lavorarla caminando su le sperienze degli effetti alle prime origini delle loro cagioni? Ed è avvenuto in ciò, come a que’ riferiti da Esopo, che cercando l’oro, che il padre loro morendo disse d’aver sepolto nel campo, tutto lo cavarono; con che il campo, di sterile che prima era, divenne fecondo, e non diede no l’oro ch’essi cercavano e, non v’era, ma in quella vece una messe abbondantissima, equivalente a molt’oro.

Non è rimasa sterile la Verità, quantunque ell’abbia inseguato a’ nostri Maggiori. Etiam quicuimque sunt habiti niortalium sapientissimi (scrisse il politissimo Columella multa scisse dicuntur, non omnia. Essi studiando non hanno pescate tutte le perle, speculando non hanno scoperte tutte le tracce del vero: valenti sì; ma non però come Ercole, sì che abbiano o trovate, o poste le confini alla Natura: onde ad uomo non sia lecito oltrepassare que’ termini, dov’essi piantarono le colonne. Patet omnibus veritas (disse il Morale); nondum est occupata; mutium ex illa etiam faturis relictum est. E come dicevano gli Spartani, che del loro regno né fiumi né monti segnavano i confini, ma che giungeva fin dove essi potessero lanciare un’asta, parimente le Scienze e le buone Arti tanto si stendono, quanto l’acutezza de’ nostri ingegni può giungere ad allargarle. Non si fa qui come nell’Oceano; dove Alessartdro sesto tirato dall’un Polo all’altro una linea sopra una dell’isole di Capo Verde, pose termine alle navigazioni, quinci de’ Castigliani all’Occidente quindi de’ Portoghesi all’Oriente. Patet omnibus veritas.

Questa linea vollero alcuni Antichi tirare fra la greca e la latina Poesia: onde Orazio, che volle trascorrerla, [p. 14 modifica]intrecciandosi alla corona i lauri Atene con que’ di Roma, mentre fece sentire su le cetere latine le greche liriche Poesie, n’era da’ più antichi ripreso; e i componimenti suoi, come figliuoli di Musa bastarda e mostri di due nature, ributtati. Per questo abbisognò, che il Poeta chiamasse il suo stilo in difesa del suo plettro, e sotto forma di sua discolpa publicasse le colpe dell’altrui malignità e invidia, dicendo: che l’odiare i componimenti suoi non era tanto amore dell’altrui bello antico quanto invidia del suo bello moderno: che condannavano nel suo sapere la loro ignoranza, vergognandosi di aver’ad imparare da lui giovane ciò ch’essi vecchi non aveano, saputo rinvenire: questa essere ne gli emuli suoi l’origine; d’ogni malivoglienza:

Vel quia nil rectum, nisi quod placuit sibi, ducunt;

Vel quia turpe putant, parere minoribus, et quæ

Imberbes didicere, senes perdenda fateri.

E certo, si può dir con colui appresso Minuzio: Quid invidemus, si veritas nostri temporis ætale maturuit? È sì determinato il Buono all’antico, che non possa mai esser nuovo? Ciò che della Religione scrisse Arnobio, delle Verità che ogni giorno con nuovo acquisto si scuoprono è vero: Non quod sequimur novum est, sed nos sero didicimus quod non sequi oportet.

Chi vuol dunque prescrivere termini e mete al volo liberissimo degl’ ingegni, confinandoli fra le angustie del trovato, come se null’altro ritrovar si potesse? Se questa legge si fosse saputa ab antiquo, oggi non si saprebbe né pur l’antico. Nusquam enim invenietur, si contenti fuerimus inventis. Propterea qui alium sequitur nihil sequitur, nihil invenit, imo nec quærit. E di questi mi par che possa dirsi appunto quello, che delle Pecorelle seguaci, perché timide, disse vaghissimamente Dante:

Come le Pecorelle escon del chiuso,

Ad una, a due, a tre; e l’altre stanno

Timidelle alterrando l’occhio e ‘l muso

E ciò che fa la prima, [p. 15 modifica]e l’altre fanno,

Addossandosi a lei s’ella s’arresta,

Semplici a quete; e lo perché non sanno.

Quare (soggiungasi a Dante Lattanzio) cum sapore, idest veritate in quærere, omnibus sit innatum, Sapientam, sibi adimunt, qui sine ullo judicio inventa Majo Probant et ab aliis, pecudum more, ducuntur. E certo, aggiustatissima è la risposta, che l’Eco d’Erasmo diede a quel misero Ciceroniano, che gridando decem annos consumpsi in legendo Cicerone, sentì rispondersi One: che fu quanto dirgli, che volendo diventare una Scimia di Cicerone, era diventato un’ Asino per Cicerone.

Ma la fortezza per intraprendere, e la felicità per riuscire nel ritrovamento d’ utili e nuove cose, ben m’ avveggo io, che non è d’ognuDo perché chi s’accinge a quest’impresa, ordinario è, che truovi in sé timori che lo spaventino, e in altrui persuasioni che lo ritirino.

Le stelle fisse, che da sé non si muovono, ma sono portate dal cielo e rapite dal corso commune, non hauno chi le tacci di sregolatezza, o le condanni d’errore. All’ incontro i Pianeti, che si fanno da sé generosamente la strada, perché un semplice regolatissimo movimento con apparenza di salita e di scesa, di velocità e di tardanza variamente contemprano, sono chiamati dal volgo sregolati nel movimento, confusi ne’ giri, e creduti fare non periodi ma errori, non circoli ma laberinti.

Alessandro, che ebbe un cuore sì ampio e sì capace che vi potè concepir dentro il desiderio d’un mondo di mondi, giunto a’ lidi dell’Oceano d’Oriente, si confessò minore di quest’ unico e piccolo; e dubitando di trovare la fortuna del mare diversa da quella della terra, calò le vele a’ suoi desiderj, che lo portavano a cercare di là dall’Oceano nuovi paesi da soggiogare. Si mostrò prudente dov’era timido; e per autorizzare la sua fuga coll’altrui consiglio, mostrò di lasciarsi piegare dalle ragioni de’ suoi, che per distornelo gli dicevano: Signore. Poco più della Grecia bastò a far Ercole un Semideo; tutta la terra non basta, a far voi un’Ercole? Non perdiate [p. 16 modifica]questo Mondo per ricercarne un’altro. Se vi fossero altre terre di là dall’ Oceano, vi sarebbero fuggiti i vostri nemiei, che, per nascondersi dalle vostre armi e da voi, sono iti a sepellirsi fin nell’ Inferno. Contentatevi d’avere le confini del vostro regno su gli stessi termini della natura. Questo lido conserverà le orme del vostro più vittorioso eternamente impresse; e in piantare le ultime mete dell’umana generosità, voi sarete stato un’ Ercole in Oriente, sì come Ercole fa un’ Alessandro in Occidente. Con ciò Alessandro

Constitit, et maggio se vinei passus ab orbè est.

Se quel generoso Colombo, che nell’ Oceano opposto, quasi in un diluvio d’acque, scuoprì nuove terre e nuovi Mondi, altrettanto avesse fatto, quando, al dispetto delle repulse di due Republiche e d’un Re, seguitando l’avviso de’ venti che soffiavano d’Occidente e gli dicevano all’orecchio esservi colà amplissime terre ond’essi prendevano a sì gran copia l’esalazioni, salpate l’ancore e spiegate le vele con una piccola nave e due caravelle, entrà in seno a quel vastissimo Oceano, né mai poterono cessargli il corso o rivolgere indietro la prora né l’incertezza del viaggio in un mare non più praticato e creduto impraticabile, né la lunghezza d’un corso di termine incerto, né l’ incontro de’ mostri, né le congiure de’ suoi, ne la mancanza de’ viveri in luogo abbandonato da ogni forestiero ajuto, né le spesse tempeste che lo trabalzavano ad estranj climi, né le lunghe e importunissima calme che l’inchiodarono presso alla zona ardente, dove il cielo per gli eccessivi caldi sembra un’inferno; avrebbe ora l’Europa, non che gli aromati e le miniere, ma ne pur la contezza che ha di quel mezzo mondo l’America? Avrebbe il Colombo medesimo guadagnato, non dico solo da’ Re di Castiglia privilegio d’inquartar l’ armi del Casato coll’aggiunta del nuovo Mondo, ch’egli scoprì, con di sopra il motto

Por Castilla y por Leon

Nuevo Mundo hallo Colon, [p. 17 modifica]


ma que’ meriti immortali, per cui tutti i secoli avvenire a lui e por lui a Gettova e all’Italia tutta si confesseranno debitori di quanto vale un Mondo? Non altrimenti, chi nelle Lettere intraprende a fate il primo la strada alla scoperta di nuovi paesi, ch’ è niente meno che navigare Oceani non praticati, conviene, che fra’ le noje e i tedj del lungo viaggio, d’un’ infaticabile studio, fra le dimestiche e spesse congitire della disperazione, vinca mille volte sé stesso, attendendo, come que’ valorosi Cavalieri conquistatori del Vello d’oro, più alla gloria del termine, che alla fatica del mezzo.

Tu sola animos mentemque peruris,

Gloria; te viridem videt immunemque senectæ

Phasidos in ripa stantem juvenesque vocantem

Così Omero, primo Poeta eroico, e primo Eroe de’ Poeti; e doppiamente grande, per non avere avuto né prima di né chi imitare, né dopo sé chi l’abbia imitato. E nel primo, maggiore degli Antenati; nel secondo, migliore de’ Posteri ch’è il gran Panegirico, che in due parole gli strinse Vallejo in vece di quant’ altro appena poteva dirsi con molto: Neque ante illum quem imitaretur, neque post illum qui eum imitari posset inventus est. Questi, per fin che viveranno al Mondo le lettere (e viveranno per fin che viva il Mondo), sarà nelle lodi de’ Letterati illustre, come quell’avventurosa Argo, che dalle tempeste del mare, che prima d’ogni altra nave solcò, giunse a prender porto in cielo, dove ora è ricca di tante stelle, di quanti Eroi allora fu. conduttrice.

Mari quod prima cucurrit,

Emerilvni magnis mundum tenet acta procellis,

Servando Dea facta Deos.

Così dopo, mille altri in quest’ultima età il Galileo, Academico veramente Linceo, e per l’occhio dell’ingegno, e per quello del Cannochiale, con che ha renduto sì domestico il commercio della Terra col Cielo, che non isdegnano più le stelle, che prima nascose non comparivano, lasciarsi vedere; e quelle, che già si vedeano, [p. 18 modifica]scoprirci, non che la bellezza, ma ancora i difetti. A piè del sepolcro di questo acutissimo Lince potrebbe scriversi per dolore ciò che quasi per ischerno disse, d’ Argo il Poeta:

Arge, jaces: quodque in tot lumina lumen habebas, Extinctum est; centumque oculos nox occupat una

Così Cristoforo Sceiner, che da’ movimenti delle facelle e delle macchie del Sole ha tratte per l’Astronomia, per la Filosofia celeste luci di sì nobili, pellegrine, e autentiche verità; quali sono il doppio movimento del Sole, che a guisa di turbine in sé stesso stabilmente s’aggira, e de’ poli del suo asse, che, movendosi, nello stesso tempo in due cerchj, ordinatamente l’obliquano ond’è la varietà delle apparenze, che sopra vi fanno le macchie: oltre, ragionevolissime conghietture, che dal concepirsi, dal nascere, dall’ingrandirsi, dal ritornare tal volta, e dal mancar delle macchie si tranno, per definire qual sia la sostanza e la natura stessa del Sole: con ciò ha, fatto sì ricco d’altissime cognizioni il Mondo, che, se ogni secolo desse altrettanto, pochi secoli baster così padrona di tutto il Cielo l’Astronomia, l’è la Geografia di quasi tutta la Terra. Macte ingenio este (dico loro con Plinio), Coeli Interpretes, rerumque naturæ capaces: argumenti repertores, quo Deos, Hominesque vicistis. Degni, a cui, come a quell’antico Metone che lasciò a’ posteri per retaggio scolpito in una colonna con linee di giusta proporzione il vario corso del Sole, si rizzi per mercede d’eterno, onore una statua con la lingua indorata, e ‘l titolo al piè: Ob divinas prædictiones. Degni, a cui doni il Cielo, non come già perador Carlo quinto diede, ma solo in pittura, le stelle, del Crociero all’Oviedo Istorico delle cose d’America, ma tutto sé per mercede, e le stelle sue per corona. E ben sono degni; poiché

Admovere oculis distantia sidera nostris,

Ætheraque ingenio supposuere suo.

Questi due soli ho raccordati per non tacer [p. 19 modifica]di tutti che di tutti io non potea favellare. Solo a noi, che veniamo dietro a questi, debbo ricordare con Seneca, che agamus bonum patrem familiæ: faciamus ampliora quæ accepimus. Major ista hæreditas a me ad posteros transeat. Multum, adhuc restat operis, multumque restabit; nec ulli nato post mille secula præcludetur occasio aliquid adhuc adjiciendi.

Con questo io non vo’ dire, che, per farei inventori di cose nuove, ci facciamo Maestri di Novità, traviando senza ragione (massimamente nelle cose ch’escono dal puro naturale) da quelle vie, che, calcate già tanti secoli sono da’ primi Ingegni, del mondo, hanno, per chi le trascorre, su le confini la Temerità o l’Errore. Far del, Diogelie, andando contra la corrente dì’tutti gli uomini, come se noi soli fossimo i Savj, noi soli pescassimo al fondo del pozzo d’Eraclito, per trarne la Verità. Stimarci il Sole degl’Ingegni del mondo, non dalla luce di maggior conoscimento del vero, ma dal contraporci al corso di tutto il mondo, e poter dire per vanto ciò che per ammaestramento disse il Sole a Fetonte e,

Nitor in adversum; neque me, qui cætera, vincit

Impetus; et rapido contrarius evehor orbi;

dovendosi anzi da lui medesimo udire, che senza pericolo di caduta uscir non si può da quelle diritte vie, che corse dal carro della luce sono fatte non meno segnalate che chiare:

Hac fit iter: manifesta, rotæ vestigia cernes.

Girarsi la Terra con periodo annovale sotto l’Eclittica, e con movimento d’ogni giorno rivolgersi da Oriente in Occidente: la Luna, anzi tutti i Pianeti, non altrimenti che terre volubili, avere abitatori popoli di differenti nature il Mondo essere di mole infinito, e negl’immensi suoi spazi innumerabili Mondi comprendere, ecc. opinioni sono coteste, che alcuni moderni hanno scioccamente risuscitate, richiamandole dalle tombe, i primi di Cleante e di Filolao, i secondi di Pitagora e d’Eraclito, i terzi di Democrito e di Metrodoro; co’ quali morte, erano state [p. 20 modifica]tanti secoli nel silenzio e nella dimenticanza sepellite.

Questo non è far ricco il Mondo di nuove cognizioni ma di vecchi errori; né far sé stesso Maestro di quei che verranno, ma Discepolo di quei che già furono; con questa mercede, che i medesimi loro sogni, che non furono ricevuti ad occhi chiusi dal Mondo, abbiano parimente a dormire con esso noi nel sepolcro.