Dell'uomo di lettere difeso e emendato/Parte prima/5

Parte prima - 5. Il Savio prigione

../4 ../6 IncludiIntestazione 16 novembre 2023 25% Da definire

Parte prima - 4 Parte prima - 6

[p. 34 modifica]Il Savio prigione.


Le anime de’ Filosofi (diceva un savissimo Antico) hanno il corpo per casa, quelle de gl’lgnoranti per carcere. Perché le, prime, comeché ne’ tempi del sonno e del riposo stieno ritirate nel corpo, pur n’escono libere a lor piacere dovunque i pensieri le portano: e le seconde, fra le strettissime mura de’ loro corpi racchiuse, legate con tante catene, quante sono le membra che portano, senza vedere altra luce che quella che da piccolissimi fori di due pupille lor viene, tanto stanno ivi serrate, quanto non hanno pensieri che da gl’interessi del corpo le sollevino. Quindi è, che se gl’ignoranti cadon prigioni, sono doppiamente prigioni. I Savj no; de’ quali la parte migliore niente più chiuder si può, di quello che possa imprigionarsi il vento in una rete, o serrarsi dentro il cristallo la luce. Il Tulliano di Roma, la Cava di Siracusa, la Lete di Persia, il Ceramone di Cipri, e quant’altre v’erano e vi sono oggi più famose o infami carceri al mondo, non sono si profonde che sepelliscano, si oscure che acciechino’, si anguste che stringano, sì forti di doppie mura che chiudano un’animo veramente filosofo. Mercè che la Sapienza, che Platone diceva essere l’ali dell’anima, lo porta a volo, non che fuori della sua prigione, ma, se vuole, ancor fuori del mondo: Nam cogitatio ejus (disse lo Stoico circa omne coelum, et in omne pæteritum futurumque tempus immittitur. Corpusculum hoc [p. 35 modifica]custodia, ac vinculam animi, huc atque illuc jactatur. In hoc supplicia, in hoc latrocinia, in hoc morbi exercentur. Animus quidem ipse sacer et æternus est, et cui non possit injici manus.

Dunque la prigione ad un’animo saggio non si può dir prigione, ma casa; poiché gli è libero l’uscirne quantunque volte gli piace. Totum autem hominem animus circumfert (disse Tertalliano) et quo velit tranfert.

All’animo poco importa dovunque sia il corpo, mentre egli è co’ pensieri fuori del corpo. Così Erinotimo la cui anima ne abbandonava a suo piacere il corpo, e se ne andava pellegrina in varj paesi anche di lontanissimi climi a vedere ciò che si facca nel mondo, tanto non sentiva, che non sapeva né pure s’egli patisse; sì che gli avvenne abbruciarsi il suo corpo vivo in un inogo, e la sua anima non consapevole di ciò godere in un’altro.

Piccol rimedio alle gravi molestie della sempre fastidiosa Santippe era quello di Socrate, salire alle parti più alte della casa, quando ella le basse rendeva impraticabili con le grida. Quanto meglio è, per non vedere le tenebre, per non sentire le angustie, per non annojarsi della solitudine di una prigione, salire coll’animo fino alle stelle, farsi splendido nella loro luce, e, rintracciaado i loro periodi e misurando le loro grandezze, farsi compagno delle Intelligenze che sì maestrevolmente le girano? Nihil crus sentit in nervo, cum aninus in coelo est.

Dolcissima pazzia era quella, riferita da Orazio, d’un Greco scemo, a cui per molte ore del giorno pareva di trovarsi in un pieno teatro, e di vedere comparire in iscena personaggi, e di udir recitare da bravissimi attori eccellenti tragedie. Non v’era in tutta Argo uomo più contento di costui,

Qui se credebat miros audire tragoedos, In vacuo loetus sessor plausorque theatro.

Gli amici suoi, mentre vollero essergli pictosi, gli furono, [p. 36 modifica]senza saperlo, crudeli: perché, rimettendogli a forza d’elleboro il senno in capo, gli tolsero l’allegrezza dal cuore; onde quegli, che non avrebbe data la sua pazzia per tutta la saviezza del mondo, risanato, si piangeva savio e s’invidiava pazzo; e a gli amici, perché ritogliendolo da una innocente allegrezza l’avean renduto alle noje de’ suoi, primi fastidj, e di finto uditore l’aveano fatto, vero attore di tragedie, tutto dolente,

Ne occidistis, amici,

Non servastis, ait; cui sic extorta voluptas,

Et demptus, per vim mentis, gratissimus error.

Tanto può fare altrui contento una pazza imaginazione, de’ suoi pensieri, mentre, ritogliendolo a sè, in un dilettevole oggetto lo affisa. E ciò che può la pazzia in un capo vuoto di senno, nol può la Sapienza in un pieno di nobili e d’alte cognizioni? Non saprà ella proporvi alla mente spettacoli di tanto piacere, che vi faccia obliare il luogo dove siete, sì che, stando rinchiuso in una prigione, vi paja di essere ora nelle viscere della terra, ora ne gli abissi delle acque, ora su l’oceano, ora per l’aria vagabondo co’ venti, ora intorno al Sole, or fra le stelle, or ne gli ultimi cerchi del mondo, e infin’anche ne’ vani immensi fuori del mondo? Questi sono gli spettacoli, che a se rubano le menti, e le fanno di loro vista beate. Veri sogni d’occhi vegghianti, che danno, in uno stesso, riposo e diletto. Scis enim Philosophi spectaculum (disse quell’eccellente Platonico, Massimo Tirio, cui maxime simile dico? Insomnio nimirum manifesto, et circumquaque, volitanti, cujus, integro corpore manente, animus tamen in universam terrarn excurrit. Ex terra effertur in coelum, universum, mare pertransit, universum pervolat acrem. Terram ambit cum Sole, cum Luna circumfertur, cæleroque astrorum jungitur choro; minimumque abest, quin una cum Jove universa gabernet et ordinet. O operationem beatam! O spectacula pulchra! O insomnia verissima!

Chi abile a tali pensieri entra in prigione, può ben, dire con Tertuffiano: Auferamus carceris nomen, [p. 37 modifica]secessum vocemus. Muta luogo, ma non fortuna; cambia ricetto al corpo, ma non, impiego all’animo: e come de’ Semidei disse il Poeta che là già sotterra ne’ Campi Elisi fanno, quello stesso, che qui sopraterra vivendo facevano,

Quæ gratia curruum,

Armorumque fuit vivis quæ cura nitentes

Pascere equos, eadem sequitur tellure repostos;

così il Savio prigione, quel nobile esercizio di mente, quella o sola o prima cura di salir più alto a nuovi gradi di miglior cognizione che libero avea, eadem, sequitur tellare repostum. Con che egli entra in carcere, non per ricevere da esso l’oscurità e ‘l disonore, ma per portarvi la luce e la gloria; vi entra come il gran Socrate, ignominiam, ipsi loco detracturus, disse Seneca; neque enim poterat carcer videri, in quo Socrates erat. Ma non è questo solo il frutto delle Lettere nel Savio prigione: assai più è (quello, che molte fiate avviene), cambiare la prigione in un Liceo, e co’ piedi incatenati ne’ ceppi usare la libertà della mano coll’esercizio della penna; sì che chi visse in una Segreta, noto solo a sè stesso, quasi verme da seta dentro al suo boccio, Jam mutatus in alitem, voli co’ libri suoi per ogni luogo, fatto nella scuola di una prigione publico maestro del mondo. Nella guisa appunto, che il Sole, quando è tolto da questo Emisfero e sepolto sotterra, dà al mondo un mondo di stelle; onde il suo perdersi è con guadagno, il suo nascondersi e con onore. E che altro fanno le conchiglie, che imprigionate in un fondo di mare, attaccate co’ ceppi ad uno scoglio senza luce, anzi senza occhi, lavorano perle, che sprigionate da quel profondo, e tratte dalle tenebre alla luce del Sole e dell’oro, sono poste per ornamento delle corone sa le teste reali alla venerazione del mondo? Così Anassagora, fra quattro pareti d’un’angusta prigione, trovò la Quadratura del Circolo. Così Nevio poeta, mutato il fondo d’una torre ne [p. 38 modifica]lle cime di Parnaso, vi compose gran parte de’ suoi poemi. E perché non vi era chi imprigionasse Euripide, egli stesso si serrava nel più cupo fondo di una caverna, e colà dentro scrivea quelle tragedie, che poscia hanno avuto teatro e ammiratore il mondo. Le prigioni, dove erano chiusi questi grandi uomini, non lasciavano che si vedessero. Ma più li palesavano al mondo, i loro scritti, che non, avrebbero fatto i loro volti. E come delle imagini di Bruto e di Cassio, non vedute in un publico funerale, disse Tacito, eo ipso præfulgebant, quod non visebantur; similmente a questi, lo star nascosi nelle tenebre di una prigione diede maggior luce di gloria, che non se fossero stati publicamente palesi.

Oh quanto ben, cade loro in acconcio ciò, che Tertulliano disse della luce del giorno, che calata di là dall’Oceano d’Occidente, e quasi sepolta sotterra, rursus cum suo cultu, cum dote, cum Sole, eadem et integra et tota uniterso orbi reciviscit, interficiens mortem suam noctem, rescindens sepulturam suam tenebras! Entrarono questi savj uomini nelle loro prigioni come fra le glebe i semi, che, sepolti sì, ma non morti, senza uscir di colagiù, spuntano rigogliosi da terra, e con le piene spighe che mandano fanno vedere, che, dove parevano morti, ivi lavoravano per la vita di molti. Serrati dentro le torri, e colà girando con infaticabili speculazioni i loro pensieri, si fecero utili al publico: appunto come gli oriuoli delle città, che serrati ancor’essi in una torre prigioni, con un dito che girano su per le ore, danno regola a tutte le azioni di un popolo. Furono fra caverne di vive pietre nascosi; ma, quasi quella favolosa Eco de’ Poeti, perduto ogni altro loro essere, tutta voce divennero, che, da’ sassi delle loro prigioni articolata e scolpita, si fece sentire per tutta la terra sì che di ognun d’essi può dirsi, come dell’Eco l’Autore delle Trasformazioni: [p. 39 modifica]


Latet, nullaque in luce videtur;

Omnibus auditur. Sonus est, qui vivit in illo.

La solitudine e ‘l silenzio, compagni indivisibili dello studio, per cui trovare altri si sepellisce ne’ più riposti nacondigli di casa, altri nelle selve e nelle caverne, questi aveano nelle loro prigioni compagni e con essi tanto men soli, e con la mente tutta in sè stessa raccolta, aveano colagiù si buona vista all’ingegno per ritrovare i più chiari lumi di tutte le Scienze, come dal fondo di quel famoso pozzo, abili si rendevano gli occhi a vedere anche da mezzo giorno le stelle.