Da Quarto al Volturno/La battaglia del Volturno

La battaglia del Volturno

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Marcia trionfale verso Napoli L'incontro di Teano

1° ottobre. Caserta. Nella piazza del Palazzo Reale.

Eccoci qui di riserva, quasi tutta la Divisione Türr. La battaglia infuria, su d’una tratta, che a segnarla ci vuole tutto il gesto del braccio largo quanto si può farlo. Noi qui non si muore ancora, ma si provano delle angoscie come a essere nel Limbo. Veggo delle faccie d’un pallore mortale, ne veggo d’allegre, di pensose, di fatue; chi sa come è la mia?

In un canto della piazza v’è un battaglione di Savoia, ora brigata Re. I soldati stanno sotto le tende, e gli ufficiali si aggirano intorno ad esse, forse temendo che qualcuno ne sgusci via e venga con noi. Ma ci guardano, e c’invidiano: noi da un momento all’altro possiam essere chiamati, essi no. No? Ma allora cosa ci son venuti a fare? Vedo un capitano, Savoiardo vero, certamente ancor di quelli del quarantotto. Volge verso noi i suoi occhi chiari, nei quali par la visione dei suoi compatriotti passati alla Francia. Forse gli piange il cuore, perchè pensa che erano dei migliori; e che alla guerra quando si griderà: Savoia! Savoia non vi sarà più.

* * *


Ed ecco un altro capitano dell’esercito di Vittorio, ma dell’artiglieria. Giovane quanto me e già capitano, io lo credeva uno dei nostri, di quei vanesii che per pompa si fanno far la divisa. Ma dietro lui venivano stretti degli artiglieri, proprio di quei di lassù, qualcuno colla medaglia della Crimea. Vengono da Napoli, vanno in cerca di Garibaldi, vogliono darsi col loro capitano che si chiama Savio, nobile piemontese. — «Cosa ci vengono a fare? — ha detto un ufficiale dei nostri: — poi vorranno aver fatto tutto loro, aver gli onori e tutto...?» — «Ahi, amico, diamo loro dei cannoni e poi lasciali andare... Vedrai che Garibaldi non dirà come te».

Una carrozza da Santa Maria, una donna dentro, viso di fuoco. capelli di fuoco, gesti di fuoco, e un angelo, e una Furia, che cos’è? Parla con un colonnello ungherese, si mette le mani alle tempie, deve dire cose orrende; o che i feriti e i morti sono già a centinaia, o che di Capua vien fuori la nostra rovina. Ohimè! perchè non è italiana? Si chiama Miss White, è moglie del Mario, uno dei nostri migliori, forse la più bella testa che possa essere spezzata oggi da un misera palla di soldato ignorante.

* * *


E da Maddaloni una Guida volando... «Dov’è, dov’è il generale Türr». Bixio domanda aiuto! — Aiuto Bixio? Dunque dev’essere agli estremi. O sole che vedesti tante cose orrende nel mondo, o Dio, non lasciate perir l’Italia, oggi... qui...

* * *


Primo battaglione, prima e seconda compagnia, pigliate l’armi, fianco destr, via. Tocca a noi. Portiamo a Bixio questi quattro petti; sgriccioli che andiamo in aiuto dell’avvoltoio.



1° ottobre. Ore 2 pom.

E poi venimmo salendo il monte, volgendoci sgomenti a guardare dietro di noi Caserta, e più lontano Santa Maria e la campagna, tutto fumo e scompiglio. Dal di là dei monti Tifatini venivano dei rimbombi che parevano echi ed erano battaglia. E ben presto, sul versante opposto a quello per cui salivamo, avremmo scoperto il campo di Bixio. Al tuonar dei cannoni pareva ch’egli indietreggiasse. Ma arrivati alfine in cima, allora che vista! Giù giù per i pendii a sinistra, sul gran ponte, sotto ed oltre, un formicolìo di rosso fra nembi di fumo e delle grida che parevano di centomila. Più basso delle tinte nere che s’allontanavano; borbonici vinti, passi amari di fuga. Nello stradone, fuor del tiro dei nostri più avanzati, stava serrato un grosso squadrone di cavalli; due cannoni da lontano lanciavano ancora delle granate qua e là, contro di noi; tiri da Parti.

Bixio tornava indietro e il suo sguardo diceva: Vittoria! — Cosa siete voi? — domandò al Capitano Novaria. E Novaria: — Gente della brigata Eber. — Correte per di là su Valle, e fate presto: mettetevi agli ordini del colonnello Dezza.



1° ottobre. 3 pomeridiane.

La mia dolce terra delle Langhe, quasi sconosciuta all’Italia, l’ho sentita, vista, goduta un momento, qui, così lontano, su questi greppi di Monte Calvo.

Passavo attraverso quelle vepraie lassù, per quel sentieruolo dove non passò forse mai persona buona ad altro che a patire, sudare e pregare. E mi saltò fuori come di sottoterra un ufficiale tutto sanguinante in faccia e lacero la camicia, con un mozzicone di sciabola in mano. Mi chiamò: O tu, dove vai? — Alla mia compagnia sopra Valle. — E da dove vieni? — Dal quartier generale. — E Bixio? — Trionfa! — Con queste e poche altre parole, mi parve di parlare con uno delle mie parti. — E tu, chi sei? domandai già pieno di gioia per quell’incontro con un mio compatriota, in camicia rossa: — Io sono Sclavo di Lesegno. — Ed io il tale. — E allora ci abbracciammo, ci baciammo. Non ho mai compreso il paese natio come in quel momento. Le nostre Bormide, il nostro Tanaro, le nostre belle montagne, quei borghi, quelle terricciole, dove c’è della gente così modesta, buona, contenta di poco, e semplice! Poi mi narrò come si trovasse là, così solo e maltrattato. Poche ore prima, in uno degli ultimi assalti, rimasto in mano dei Bavaresi, questi se lo trascinavano via caricandolo di oltraggi; ma gli era riuscito di liberarsi, e se ne tornava a quel modo per imbattersi in me suo paesano. Eppure forse non gli passò per la mente che io potrò dir le sue lodi, nelle nostre vallate.



Verso sera.

Si principia ad aver delle notizie, ma vaghe. Non si ode più il cannone. A Santa Maria, a Sant’Angelo, a San Leucio, su tutta la linea, vittoria, dopo dieci ore di battaglia. Qua, a sinistra, tra quelle gole di Castel Morrone, il maggior Bronzetti, con un mezzo battaglione, tenne la stretta contro i borbonici, sei volte più numerosi dei suoi. Morì, morirono, ma il nemico non potè passare. — Ora come si devono sentire uomini quelli che hanno fatto tanto, e si mettono a giacere per un po’ di riposo! Ma chi sa dove sono andate l’anime dei nostri morti? Come si farebbe a credere che esse non siano più, più, assolutamente più? Vero è che sul campo la morte non par nemmeno morte! — Qui è proprio un trapasso.



Sopra Valle. 2 ottobre. Mattino.

«Ma finita la battaglia, allora avresti veduto quanta audacia e quanta forza d’animo...». A chi faremo l’onore delle parole di Sallustio? Ci sono dei Bavaresi saliti a morire fin sulla vetta di Monte Caro, in mezzo ai nostri; vi sono dei garibaldini che rovinarono, inseguendo a farsi ammazzare, fin quasi laggiù alle case di Valle. Questi morti bavaresi che giacciono nelle loro divise grigie, sono ancora pieni di ferocia nelle faccie mute. Omaccioni quadrati, non più giovanissimi, alcuni con delle grinze. Le loro fiaschette, chi le tocca, sono ancora mezze d’acquavite. Dovevano aver mangiato e bevuto bene, poche ore prima di venir alla battaglia, contro i nostri quasi digiuni. Lassù, proprio sul cocuzzolo di Monte Caro, un d’essi trovò un piccolo recinto, fatto d’un muricciuolo a secco, forse per gioco, da pastorelli. Egli vi si mise dentro e non ci fu più verso a scacciarlo, neppur quando, fuggiti i suoi, rimase solo. Lo dovettero finire come una belva in rabbia, perchè di là dentro avventava baionettate tremende. Nel suo libretto si trovò che egli si chiamava Stolz, di non so qual paesello della Baviera. Chi sa? Egli si sarà creduto di salvare, su quel cocuzzolo eccelso, il trono della bella Sofia, figlia dei suoi Re, venuta dal suo paese a regnar qui nella dolce terra d’Italia. Tranquillo com’uno che ha compito tutti i suoi doveri, ora giace sulla parte del cuore e par che dorma, o guati di sottecchi e ascolti. A vederlo c’è una processione. Ebbene, è ancora una gran fortuna finir così, piuttosto che di vecchiaia in un letto, forse sulla paglia, dopo aver fatto patir chi sa quanti! E piace vedere che tutti lo guardano con rispetto, dolendosi soltanto di tanto valore sprecato.

Ma stanotte, in sentinella a quattro passi dal morto, un siciliano di Bivona, quasi fanciullo ancora, nobile di non so che grado, chiamava ogni tanto: Caporale! faceva una voce che pareva gli uscisse dal recesso di tutti i dolori. E il caporale correva. Cos’era? Nulla. Ma un’ultima volta il caporale comprese, perchè il giovinetto tremava e guardava quel morto là a quattro passi. — «Ah! Hai paura di lui?» — «Caporale, sì!».

Fantasia!

* * *


Ieri visitai ad uno ad uno i piccolissimi altipiani che si digradano giù pel monte, dove un centinaio e mezzo d’uomini del Boldrini contesero il passo ai due battaglioni di Bavaresi che assalivano da Valle. E li trattennero tanto che poterono arrivare, ma un pugno, quei di Menotti. Non bastavano. Boldrini era ferito, feriti e morti molti ufficiali; dunque si doveva perdere una posizione così forte? Avanti, Menotti, avanti Taddei! Colonnello Dezza, guai se il nemico spunta quest’ala. Si caccia tra Villa Gualtieri e Caserta, in un’ora è nel piano, e getta per tutta la Terra di Lavoro il grido della riscossa borbonica, alle spalle dei nostri che combattono sul Volturno, e in faccia a Napoli che da lungi aspetta... Chi sa? Oggi può rimorir l’Italia!

Che gloria di picciotti, in quel momento! Due mesi fa erano riottosi a imbarcarsi pel continente: pareva che non avessero idea d’altra Italia, fuori del triangolo della loro isola: ma marciando per la Calabria trovarono i loro cuori, qui si son fatti ammirare. Caricarono come veterani!

Giù sugli altipiani, tra i pochi alberi tristi che non possono sbozzacchire in queste sassaie, quante camicie rosse che non si mossero più! Ne contai una ventina qua e là, qualcuno si riconosceva ai tratti mezzo moreschi, per volontario del Vallo di Mazzara, dove Bixio passò e raccolse gente. Ma vi sono delle testine bionde di settentrionali che paiono di fanciulle. Mi fermai vicino a un morto che avrà avuto sedici anni, e parlando per lui e per me, gli dissi delle cose che se le sapessi scrivere sarebbero un capolavoro. Dalla bisaccia gli usciva un pezzo di biscotto.

Odo dire che i perduti furono molti, e che gli ufficiali, tra feriti e morti, passarono la ventina, solo qui, su così poco spazio, e con sì pochi soldati. O allora a Villa Gualtieri, al Ponte, al Molino, e via poi sulla lunghissima linea, sino all’ultima sinistra nostra, fronte di tante miglia, curva strana così che Maddaloni è l’estrema destra e insieme stava alle spalle di quei che combattevano sul Volturno? — Quando se ne saprà il numero vero sarà un pianto.



2 ottobre verso le 11 antim.

Gran caccia da Re, veduta da questo cocuzzolo di Monte Caro! Un nugolo di borbonici, forse quelli che ieri dovettero passare sul petto di Bronzetti, si vanno aggirando di qua e di là, di su di giù, per quelle alture di Caserta Vecchia, e pare che non sappiano dove andare a dar del capo. Ma da tutte le parti spunta il rosso dei nostri e fa cerchio. Quelli si raccolgono, forse vogliono piantarsi e difendersi tra quelle rovine che danno al paesaggio quel tono lamentoso di grandezza morta e di desiderio. Cosa valgono quelle schioppettate? Tra momenti ci arriva anche Bixio. Se ne vede di qui la fila lunga su pel monte, e la testa tocca già l’altipiano. Partendo di qui disse ai suoi: Non mangerete finchè coloro là non saran presi. — Pare che i borbonici si siano accorti di lui: c’è un poco di scompiglio... un loro cavallo parte; corre, torna; ora hanno la via rotta anche alle spalle. Si movono, vanno verso Sant’Angelo: retrocedono... ora discendono verso Caserta nuova; no, rimontano... Bandiera bianca! Che senso quest’urlo che riempie tutta l’aria colà! Pare un fremito della terra, tutto si muove... i nostri corrono da tutte le parti... Un gran silenzio...

Si sono arresi!



3 ottobre.

Aspetta e aspetta, i vinti di ieri l’altro non son più tornati. Così avessimo avuto della cavalleria da lanciar sulle lor code, che si poteva farlo senza crudeltà. Erano tutti stranieri del soldo. Ma quei di ieri presi a Caserta Vecchia erano italiani, proprio della colonna che s’azzuffò con Bronzetti a Castelmorrone e non potè passare. Guai se riusciva!



4 ottobre.

Ieri Telesforo che vive divorando tutto con l’anima, forse perchè sente d’aver la morte dentro, venne da Santa Maria a trovarmi qui e mi disse: — Vieni? — Dove? — A veder cosa c’è in co del ponte presso a Benevento. — Andiamo pure.

Era quasi notte. Discesi da Monte Caro, passammo per quella bicocca di Valle, dieci casacce che parevano vecchie cenciose. Ma ieri l’altro, mentre i borbonici venivano alla battaglia, le donne di quelle case urlavano dalle finestre come Furie: Viva lo Re, e morte.... si sa, a noi. Dice che si udivano sin da mezzo il monte, e che le loro grida facevano più senso che l’avanzarsi dei battaglioni.

Via per la strada grande andammo, andammo, andammo. Ma insomma dov’è questo ponte? Sempre un po’ fanciulli, si crede che tutto sia lì a due passi; ma Benevento era molto lontano. Non incontrammo anima viva; solo a tratti, nei campi lungo la via, si vedevano dei morti, forse soldati feriti ieri l’altro, poi spirati tra via e gettati dai carri.

Il ponte non si trovava. — «Pure andando ancora, più qua, più là si dovrebbe udir l’acqua... Vorrei vederla passare, al lume delle stelle, sentir il ponte sotto i nostri piedi, lasciar cadere una pietra dalla spalletta di esso, e immaginarmi d’essere un soldato angioino, e che là sotto giacesse Manfredi. Per me l’antico, quel che non è più è tutto. Quello che vive è nulla. Io stesso mi sento nulla; e se Garibaldi non fosse un’antichità non lo avrei seguito». — Così diceva Telesforo e m’attristava.

In quel momento udimmo un trotto di cavalli che venivano dal Volturno. Ci siamo! Saranno scopritori borbonici, discendiamo nei campi. Passarono veloci tre cavalieri, e allora venne anche a me il soffio dell’antichità. Mi corsero per la mente quelli mandati da Carlo d’Angiò, sulle peste di Manfredi, creduto fuggitivo dalla battaglia: ma i vivi erano delle nostre Guide, gioventù ardita, fin temeraria. Andarono parlando allegramente lombardo. E noi, tornati sulla strada, tirammo avanti ancora un bel tratto fantasticando. — «Manfredi? Carlo d’Angiò? — seguitava Telesforo. — Il Re d’ora sì, è un Re da fuga! Ieri l’altro Francesco era in mezzo al suoi trentamila soldati: poteva mettersi alla testa di un migliaio di cavalli, tentar un punto della nostra linea, rompere, passare, galoppare a Napoli, trionfarvi! O così, o rimaner ammazzato, passato fuor fuori da uno dei più valorosi nostri, per esempio da Nullo. Non seppe fare nè l’una nè l’altra cosa, e così è finito. Quanto a Carlo d’Angiò, ora viene Vittorio Emanuele. Seicento anni tra loro: e invece d’un Papa che dica: Va, pigliati il Regno; v’è Garibaldi che dice: Venite! Vorrei vederli quando s’incontreranno Dittatore e Re».

Tornammo ragionando come due frati; ma ogni tanto Telesforo tossiva e diceva d’aver freddo. Con quel suo mantelluccio si stringeva le spalle, e se ne teneva i lembi nelle mani sul petto. Quando ci trovammo tra le nostre sentinelle pareva già l’alba. Dei focherelli morivano su pei greppi di Monte Caro e della Villa Gualtieri; le camicie rosse nel grigio delle sassaie, nel verde ferrigno degli olivi mettevano un rilievo, una vita, quasi dei sentimenti. Sul ponte del Vanvitelli passavano delle file rosse, quete quete allora, andando forse a cambiar le guardie; ma lassù a un certo momento della battaglia s’erano incontrati i bavaresi e i nostri e da quell’altezza n’eran caduti. Dio! fa raccapriccio dirlo. E pensare che ieri l’altro, a quell’ora, il mio caro Traverso si svegliava baldo, e baldi come lui si svegliavano l’altro Traverso e lo Stella, tutti e tre di Marsala, e che prima del mezzodì eran morti e nell’eternità, già antichi come i più antichi defunti!



Caserta, 7 ottobre 1860.

Dissi all’amico Sclavo: tu, quello che vedesti ai Ponti della Valle, me l’hai da scrivere qui, tra le mie note. Egli prese il taccuino e scrisse.

«Garibaldi, tre o quattro giorni prima del fatto d’armi, era venuto a trovar Bixio e gli aveva detto: Mi fido a voi; queste sono le nostre Termopili.

«Tale fu la consegna: tutti sapevamo che là si doveva stare o morire. Aspettavamo.

«Il mattino del 13 d’ottobre, eccoti la divisione von Meckel, otto o nove mila uomini, avanzarsi da Ducenta, mirando al passo dei Ponti della Valle per Maddaloni. La testa della colonna era formata da uno squadrone di dragoni con elmo e rivolte rosse; seguivano due cannoni e un battaglione di cacciatori. Giunta a Valle quella testa di colonna spiegò i cacciatori sulla sua destra, e questi cominciarono a tentar l’altura dov’ero con la mia compagnia. Tiravano da settecento metri, lentamente, con quelle loro buone carabine, alle quali noi non potevamo rispondere. Intanto il grosso della colonna continuava a marciare accennando ai Ponti, centro della nostra linea.

«Mandai subito certo Calogero messinese, che avevo meco per guida, avvisando con un biglietto il maggior Boldrini che eravamo assaliti. Ebbi in risposta che badassi bene a non prendere lucciole per lanterne. E male ce ne incolse, perchè quel battaglione di cacciatori già invadeva il bosco a sinistra e cominciava ad avvolgerci incalzando con fuoco ben nutrito.

«Allora il maggiore Boldrini volò a noi con due compagnie, e senz’altro dove vide spuntar le canne dei fucili, tra gli alberi fitti, là si slanciò, gridando: Alla baionetta, Viva l’Italia!

«Non aveva ancor detto che già una palla entrata nel petto gli usciva per la scapola destra. Cercai di sorreggerlo e di tirarlo via, giacchè il nemico irrompeva dal bosco e dovevamo ritirarci, ma egli non volle, mi respinse. — Lasciatemi, che ormai sono un uomo inutile! — Disse, cosi, e dove cadde rimase. Noi indietreggiammo sopraffatti, e poi tornammo rinforzati da una cinquantina di bersaglieri Menotti. Guardai; il povero maggior Boldrini non v’era più. Seppi poi che i Bavaresi lo avevano trascinato testa e piedi giù per i dirupi, sino a Valle, dove lo abbandonarono, e fu poi raccolto morente dai nostri, dopo la vittoria.

«Caddero in quel nostro ritorno molti dei nostri, morti e feriti, tra gli altri Evangelisti e Carbone, genovesi dei vostri di Marsala. Ma non era ancor nulla, eravamo appena al principio. Sai come il tempo vola. Continuavano gli assalti. Verso le undici, o poco dopo, ecco i Bavaresi sulla posizione di Menotti. Cominciavano ad avvolgere il poggio della Siepe, contrafforte di Monte Caro. Quivi li ricevevano a schioppettate e a baionettate, e li rintuzzavano le compagnie di Bedeschini e di Meneghetti, dirette da Dezza e da Menotti e da altri ufficiali che in quel momento facevano da capi e da soldati.

«Intanto altri Bavaresi apparivano sulla vetta del monte Calvo e vi si piantavano, e si vedeva che volevano postarvi due cannoni da montagna, per coprir di granate e di mitraglia noi più bassi e da quella posizione spingere forse qualche colonna alle spalle di Bixio. Sarebbe bastata ben poca gente a tagliargli le comunicazioni col quartier generale di Caserta, e a portar l’incendio borbonico nella Terra di Lavoro. Era un momento angoscioso. Tutti, anche i meno esperti, indovinavano il gran pericolo.

«Ma ecco spuntare lassù un battaglione: Son nostri? — son nostri! — Improvviso, dritto, marcia verso il cocuzzolo di monte Calvo. Maraviglioso! Il Comandante si vedeva dinanzi a tutti, col berretto in cima alla spada, e pareva di sentirlo gridare; gli altri correvano dietro a lui, per quell’erta, a gran passi, serrati.

«Era Taddei!

«Quel fare, quell’affronto, impone ai Bavaresi che oscillano un momento, ma si difendono, resistono, uccidono: poi si rompono, abbandonano la posizione, i morti, i feriti e fuggono in rotta.

«Noi, combattendo giù, vedevamo e ammiravamo quei vincitori lassù, e guardavamo pure l’attacco che in quel momento faceva la grossa, serrata colonna borbonica del centro, ai Ponti della Valle, dov’era Bixio coi picciotti. Era una cosa da far tremare. Se rompono, dicevamo noi, se passano sul corpo di Bixio, quelli stasera entrano in Napoli, e ricomincia l’orgia del 1799. Li vedevamo a mezza falda tra il piano e i muriccioli a secco della via trasversale che si allinea con l’acquedotto; e dietro quei muriccioli rosseggiavano i nostri quatti quatti, senza far fuoco, incantati. Noi pativamo, fremevamo; udii sin bestemmiare: Cosa fanno? Ma quando i borbonici arrivarono quasi al ciglio di quei muriccioli, allora quelle camicie rosse scoppiarono, 49 e su quelle teste di colonna si rovesciò un torrente, un uragano... urla feroci, baionettate. Si gelava, si infuocava il sangue a vedere. — I borbonici non ebbero agio nè spazio di spiegarsi, e si volsero in fuga una sezione sull’altra, via, via, rovinando, e tutta la colonna scompigliata fuggiva alla meglio verso Valle.

«Di dove eravamo noi si dominava lo spettacolo, e si capiva che l’anima di tutta quella massa eroica di picciotti era l’anima di Bixio. Dunque Bixio e Taddei, eroi!

«La sera, ne contammo di morti! Ma le più gravi perdite le sofferse il mio battaglione. Morì Innocenzo Stella, colpito nella testa da una palla, furono feriti Herter, anch’egli, come Stella, vostro di Marsala, e Rambosio e Rugerone. Povero Rugerone! Colpito nel ventre da una scheggia di granata che gli uscì per la schiena, lo trovarono la sera in un burrone, lo trasportarono a Villa Gualtieri, dolorò diciotto ore, e alla fine la morte lo liberò. Antonio Traverso, della mia compagnia, andò a morire, non si sa come, nel boschetto, presso il battaglione Menotti, dove io lo trovai l’indomani mattina, trapassato il petto da una palla, con un fazzoletto bianco alla bocca, tutto insanguinato. Delle tre compagnie Boldrini, soltanto una ventina d’uomini col tenente Baroni di Lovere, ferito nel capo, si unirono alla sera a Menotti, e servirono a riformare il battaglione disfatto».

Ecco quel che l’amico scrisse.



Caserta, 8 ottobre.

I nomi non li scriverei neanche se li sapessi. E non ne domando. Li ricorderanno purtroppo quelli che videro, e per tutta la vita li udiranno nell’anima, come furono detti dalla voce tremenda del Dittatore.

Nel primo cortile a sinistra di chi entra nel palazzo reale, i battaglioni di Taddei, Piva, Spinazzi, Menotti, Boldrini col resto della Divisione Bixio, aspettavano Garibaldi, che voleva salutarli per la loro vittoria di Maddaloni. Quattro schiere, davano le fronti ciascuna a un lato del cortile.

— Microscopica Divisione, fronte indietro! — gridò Bixio ai battaglioni, e non è mica uomo da aver detto per celia. Quei battaglioni si chiamavano Divisione prima del combattimento, così, forse per far la voce grossa, ma non era neppur una brigata: ora si potrebbero dir compagnie.

Entrava allora Garibaldi. Teneva in mano il cappello all’ungherese, e appena fu in mezzo al quadrato, parlò:

— Eroi della diciottesima Divisione, in nome dell’Italia io vi ringrazio!

Poche altre cose, orazion piccola, come sa far lui, poi subito i nomi di quelli che si segnalarono nel combattimento. Pareva che là dentro l’aria lampeggiasse di gloria. Ma poi il volto di Garibaldi si oscurò, e la sua voce divenne fiotto di tempesta.

— Ora che ho ricompensato i valorosi, punirò i vili!

Fu un fremito. Tre ufficiali, chiamati a nome in mezzo a quel quadrato, uscirono dalle file, trovarono la forza di far quei pochi passi senza cader fulminati; e là, sotto gli occhi di Lui, furono spogliati delle loro insegne da un Aiutante maggiore. E non morirono! Finito quello strazio, il Generale, continuando come uno che dà un addio a gente morta, disse:

— Andate, inginocchiatevi davanti al vostro Comandante, pregando di darvi uno schioppo, e al primo incontro morite!



Nel convento di Santa Lucia. 9 d’ottobre.

A Napoli? C’è troppa gente che briga. Non andare a farti levar la poesia; sta qui, filibustiere; per noi son buone queste celle di frati; cosa vuoi di più?

Io do molto retta al capitano Piccinini, sebbene abbia soltanto otto o nove anni più di me: anzi gli sto sotto come se fosse il gran Nicolò in persona. Ieri l’altro lo trovai sotto

quell’ulivo, allegro e raggiante tanto, che mi parve d’indovinare la visione che aveva dinanzi agli occhi. Egli leggeva una lettera a mezza voce, e appena mi vide mi venne incontro dicendo: — Le mie montagne ridono, mio padre le riempie della sua gioia. Sa che suo figliuolo Daniele è capitano!

E allora la voce gli si fece soavissima, e negli occhi lucenti gli si disfecero due lacrime. Poi mi abbracciò. E contro quel petto mi sentii come un’ombra. Che respiro largo e che colpi di cuore! Per essere puri e prodi come lui, bisognerebbe avere quel petto. E poi la sua modestia! Che seccature, per lui, certe cose! Ieri, a Caserta, era da Garibaldi, mentre alcuni ufficiali della marineria americana entravano a visitare il Washington d’Italia. — Ecco il modello de’ miei ufficiali: disse il Generale mostrando il Piccinini a quei marinai. — Non si darebbe la vita per una mezza parola di queste, detta da Lui? Eppure il Piccinini quasi quasi usciva mortificato. Ma già; egli non sa d’essere quello che tra tutti somiglia di più a Garibaldi. Semplice come Lui, bello, buono e fiero come Lui: saprebbe anch’egli vivere nel deserto, crearsi un mondo, e dimenticare questo degli uomini. Mi pare già di vederlo. Quando tutto sarà finito, in quattro o cinque passi, egli tornerà alle sue Alpi, nella solitudine della sua Pradalunga. E se gli diranno: Ebbene? Egli risponderà come se venisse da far una passeggiata. Ma a suo padre, oh! a suo padre narrerà tutto.



13 d’ottobre.

Nullo, Zasio, Mario, Caldesi, con una diecina di Guide comandate dal nostro Candiani, ieri partirono alla testa d’un battaglione, per luoghi lontani, che son di là dal Volturno, chi sa quanto, dov’è il Sannio, il tremendo Sannio. Nullo il braccio, Zasio la bellezza, Mario il pensiero, Caldesi la bontà. C’è tutto. Ma cosa vanno a fare? Chi dice che a incontrar Vittorio Emanuele, chi che a sedar una rivolta. A me par gente che va nel buio.



14 d’ottobre.

Ora sono proprio contento. Ho veduto l’uomo che per la semplice vita è forse ancor più intero di Garibaldi. Faccia quasi giovanile a settant’anni, persona quadrata che nè fatiche, nè stenti, nè rovine d’ogni sorta non poterono fiaccare: berretto, soprabito, calzoni, tutto nero e assai vecchio, nulla di soldatesco. Ecco il general Avezzana. Tale fu forse il Vicario di Wakefield. È di quella tribù d’uomini che vanno avanti, con lo sguardo sempre fisso in certi punti lontani, che il mondo non vedrà mai. Eppure per essi quell’ideale lassù lassù, è realtà di vita interiore. Quanto all’esteriore e presente, sono come il Figlio dell’uomo che non sapeva dove posar il capo per dormire. Da mangiare n’avranno domani anch’essi, poichè n’hanno gli uccelli dell’aria. Per oggi basta fare il bene. E così ogni giorno. Sui laghi di Galilea, quando vi fiorivano le parabole di Gesù, gli uomini dovevano essere tutti come Avezzana. Vederlo con qual noncuranza cinge quella spada d’onore che gli fu data, chi sa per qual gloria delle tante sue d’America! Dicono che arrivò appunto di là, in tempo per correre a Caserta, incontrar Garibaldi nel momento più vivo della battaglia sul Volturno, salutarlo e entrar a combattere. Aver cercato continenti e mari, andando randagi, dalla giovinezza alla vecchiezza; aver amato, creduto, giurato di far l’Italia prima di morire; essersi raggiunti in un giorno di battaglia come quella del Volturno, l’uno già ministro della guerra in Roma, l’altro allora sotto di lui e ora Dittatore qui; cosa mi parlano della vecchia Cavalleria? Questa è storia romana, ma di quella antica, antica...



15 d’ottobre.

Stamattina s’ebbe un gran fatto. Per la prima volta, i soldati di Vittorio Emanuele combatterono davvero a canto dei Volontari di Garibaldi. Dico davvero, perchè già il due d’ottobre quel battaglione della brigata Re che avevamo lasciato nella piazza del palazzo reale il giorno avanti, fu adoperato con pochi bersaglieri a far prigioniera quella tal Colonna borbonica di Caserta Vecchia. Ma quello fu un fatto senza poesia. Invece, stamattina, i borbonici uscirono da Capua baldanzosi, marciando verso Sant’Angelo, dove trovarono i bersaglieri e la fanteria regolare che li soffiarono via come pagliuzze. Gareggiarono con essi i volontari del colonnello Corte, a chi facesse meglio; così la voglia d’uscir di Capua i borbonici potranno averla; ma l’ardimento forse mai più.



20 d’ottobre.

Pettorano, Carpinone, Isernia, meritereste che su voi non venisse più nè pioggia nè rugiada, fin che durerà la memoria dei nostri, ingannati e messi in caccia e uccisi pel vostri campi e pei vostri boschi!

Tornano gli avanzi della colonna di Nullo; non si regge ai loro racconti; non sanno dire che morti, morti, morti! Par loro d’avere ancora intorno l’orgia di villani, di soldati, di frati che uccidevano al grido di Viva Francesco secondo e Viva Maria.

Povero Bettoni! La sua Soresina non lo vedrà più. Se ne veniva indietro ferito su d’una carrozza; cavalcavano a’ suoi lati Lavagnolo e Moro, pensando di poterlo porre in salvo a Boiano, e tornar poi a spron battuto dove Nullo combatteva, e i nostri morivano qua, là, a gruppi, da soli, sbigottiti dalle grida selvaggie. Poveri cavalieri! Il giorno appresso il tenente Candiani li trovò morti sulla via. Ah! quel Sannio, quel Sannio! Mi sento passar sul viso un soffio gelato come quel giorno che la spedizione partì: sin d’allora mi suonò nella memoria il nome delle Forche Caudine.



25 d’ottobre.

Sopra queste contrade deve essere passato non so che spirito. Gli abitanti ingrandiscono o impiccoliscono le cose per vezzo di dire. Il Volturnus celer è ancora sonante come nei versi di Lucano, una maestà d’acque verdi, che s’incalzano clamorose. Eppure a un guado di esso fu dato il nome di Scafa di Formicola. Quando vi passammo si rise del nomicino strano; sebbene si mettesse il piede sul ponte di barche che il Dittatore fe’ gettare dal colonnello Bordone in quel luogo; e sentirsi oscillar sotto, crescere, scemare quelle tavole mal connesse, desse sgomento. Eravamo noi di Eber, quei di Bixio quei di Medici, la brigata Milano; e vengono pure gli Inglesi della legione, gente bella, vestita come noi; camicia rossa, divise verdi ma di panno finissimo, cinture lucide come se tornassero dall’India.

Il giorno è nefasto.

Cadde il cavallo del generale Bixio, e l’eroe, rotta la testa e una gamba, si lasciò trasportare a Napoli, guardandoci con invidia. Non è che un uomo, ma senza lui, par che manchi qualcosa nell’aria.

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Ci siamo accampati sull’orlo d’un bosco in cui potrebbe cavalcare Angelica fuggente; eppure lo chiamano Caianello, come se fosse un cesto di granetto fatto nascere per ornare il Presepio.

Intanto, che ci siamo venuti a fare? Là c’è Capua. i Calabresi che abbiamo trovato qui, ci dicono che i borbonici fanno delle apparizioni in quei fondi laggiù. A destra, lontano, abbiamo Gaeta. Quelli devono essere i monti di cui mi parlava il vecchio Colombo, quando raccontava d’essere stato nell’ottocentocinque, all’assedio fatto da Massena. E mentre io penso a lui che fu pure soldato della legione di Garibaldi in America, egli parla forse di questi luoghi con mio padre, che glie ne domanderà chi sa con qual cuore.

Oh! io vorrei esser quel falco, gettarmi da un capo all’altro del cielo, mandando strida per l’aria che imbruna! Ora a quella campana...! Di dove suona? «Era già l’ora che volge il desio...».

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Chi dice che siam qui per dare l’ultima battaglia, e che mentre combatteremo contro i cinquantamila borbonici che ancor tengono per Francesco secondo, arriveranno i soldati di Vittorio Emanuele con lui in persona, discendendo dall’Abruzzo per la via di Venafro. Chi ribatte che da Venafro potrebbero venire delle buone anfore di vino, di quello antico che piaceva a Orazi, ma che battaglie di campo, dopo quella del primo d’ottobre, non se ne possono più avere. Allora si marcierà per incontrare il Re!