Da Quarto al Volturno/Da Quarto a Marsala

Da Quarto a Marsala

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Alla vigilia della «grande impresa» Da Marsala a Calatafimi


In mare. Dal piroscafo il Lombardo. 6 maggio mattino.

Navigheremo di conserva, ma intanto quelli che montarono sul Piemonte furono più fortunati. Hanno Garibaldi. I due legni si chiamano Piemonte e Lombardo; e con questi nomi di due provincie libere, navighiamo a portare la libertà alle provincie schiave.

Noi del Lombardo siamo un bel numero. Se ce ne sono tanti sul Piemonte, arriveremo al migliaio. Chi potesse vedere nel cuore di tutti, ciò che sa ognuno della nostra impresa e della Sicilia! A nominarla, sento un mondo nell’antichità. Quei Siracusani che, solo a sentirli cantare i cori greci, mandarono liberi i prigionieri di Nicia, mi parvero sempre una delle più grandi gentilezze che siano state sulla terra. Quel che oggi sia l’isola non lo so. La vedo laggiù in una profondità misteriosa e sola. E Trapani?

Mi vibrano bene nella mente, in questi momenti, le parole di quel volontario che fu in Crimea. «Appoggiammo a Trapani, raccolta laggiù su d’una punta squallida, città colma di mestizia fin sopra i tetti. Venivano, sulle barche, dei poveri straccioni a venderci frutta, girando stupefatti attorno alla nostra nave. — Che cosa siete? ci chiedevano.

«Piemontesi.

«E dove andate?

«In Crimea, alla guerra.

«In Crimea, alla guerra!» ripetevano chinando il capo, e se ne andavano pieni di compassione.

Vedremo Palermo? Vedremo la piazza dove fu fatto l’Auto da fè di fra Romualdo e di suor Gertrude? Il Padre Canata ce lo lesse nel Colletta in iscuola; e leggendo pareva che schiaffeggiasse la plebe e i grandi, che banchettarono cogli occhi sul rogo.

Ricordo più dolce, mio padre narrava che l’anno della fame, 1811, essendo egli fanciullo, la gente si nutriva di certe mandorle grosse come un pollice, portate di lontano... di lontano... dalla Sicilia. — E che cosa è la Sicilia? — domandavamo noi fanciulli. E lui: — Una terra che brucia in mezzo al mare.

Nell’anno 1857, l’anno d’Orsini, d’Agesilao, di Pisacane, su per le colonne di via Po in Torino, lessi scritto col carbone: «Sicilia è insorta, all’armi, fratelli». Chi sa da qual mano furono scritte quelle parole? E se le scrisse un esule come sarà felice se per avventura è con noi.

* * *


Genova nelle ore supreme fu ammirabile. Nessun chiasso: silenzio, raccoglimento e consenso. Alla Porta Pila, v’erano delle donne del popolo che, a vederci passare, piangevano. Di là a Quarto, di tanto in tanto, un po’ di folla muta. A pie della collina d’Albaro alzai gli occhi, per vedere ancora una volta la Villa, dove Byron stette gli ultimi giorni, prima di partire per la Grecia: e il grido di Aroldo a Roma mi risonò nelle viscere. Se vivesse, sarebbe là sul Piemonte, a fianco di Garibaldi inspiratore.

— Questo villaggio è Quarto? — Sì. — Dov’è la villa Spinola? — Più avanti.

Tirai avanti. Ecco la villa.

Biancheggiava una casina di là da un gran cancello, in un bosco oscuro, nella cui profondità, pei viali, si movevano uomini affaccendati. Dinanzi, sullo stradale che ha il mare lì sotto, v’era gran gente e un bisbiglio e un caldo che infocava il sangue. La folla oscillava: Eccolo! No, non ancora! Invece di Garibaldi usciva dal cancello qualcuno che scendeva al mare, o spariva per la via che mena a Genova. Verso le dieci la folla fece largo più agitata, tacquero tutti; era Lui!

Attraversò la strada e per un vano del muricciolo rimpetto al cancello della villa, seguito da pochi, discese franco giù per gli scogli. Allora cominciarono i commiati. Ed io che non aveva lì nessuno, mi sentii negli occhi le lagrime. Avviandomi per discendere, mi abbattei in Dapino, mio condiscepolo di sei anni or sono. Aveva la carabina sulla spalla. Fui lì per abbracciarlo; ma gli vidi a fianco suo padre e un suo fratello, e mi cadde l’animo. Temei d’assistere ad una scena dolorosa, perchè mi pareva che quel padre, che io so tanto amoroso, fosse venuto per trattenere il figliuolo; e due passi più sotto v’erano le barche, e una turba silenziosa come di ombre sfilava giù in quel fondo. Invece ecco il padre e il fratello abbracciare l’amico mio, e... mi si fa un nodo alla gola.

Qui accanto dicono d’un altro che non conosco. Sono Veneti, giovani belli e di maniere signorili.

— Sapete che la madre di Luzzatto venne a cercarlo?

— Da Udine?

— O da Milano, non so. Corse di qua, di là, da Genova alla Foce, dalla Foce a Quarto, chiedendo, pregando e tanto fece che lo trovò.

— E lui?

— E lui la supplicò di non dirgli di tornare indietro; perchè sarebbe partito lo stesso, col rimorso d’averla disobbedita.

— E la mamma?

— Se n’andò sola.

* * *


Non si vede più terra.

La barca sulla quale ieri sera mi toccò montare, dondolava stracarica. I barcaiuoli per farci stare che non si capovolgesse, ci pregavano di guardare, verso Genova, certe luci verdi e rosse che splendevano nella notte. Come fossimo bambini! Verso le undici da una barca già in alto, udimmo una voce limpida e bella chiamare: «La Masa!». E un’altra voce rispose: «Generale!». Poi non s’udì più nulla.

Intanto le ore passavano; eravamo cullati dall’onda e mi addormentai. All’alba fui destato, e vidi due navi maestose, lì ferme dinanzi a noi. Tutte le barche furono spinte verso quelle. Mi volsi addietro. Genova e la riviera apparivano laggiù incerte, in un velo vaporoso: ma là oltre, i miei monti esultavano alti e puri, dominando la scena!

Una brezzolina increspava le acque; sulle navi si faceva un gran vociare; era una tempesta di chiamate, di apostrofi e anche di sagrati, che lasciavano il segno nell’aria come saette. Fu una mezz’ora di gran furia a chi facesse più presto a imbarcarsi; e anch’io potei finalmente agguantare una gòmena e salire. Ho sempre negli occhi un giovane, che in quel momento vidi convulso dibattersi in fondo ad una delle barche, tenuto a stento da tre compagni. Che fosse pentito o il mal di mare l’avesse ridotto in quello stato?

* * *


Si odono tutti i dialetti dell’alta Italia, però i Genovesi e i Lombardi devono essere i più. All’aspetto, ai modi e anche ai discorsi la maggior parte sono gente colta. Vi sono alcuni che indossano divise da soldato: in generale veggo faccie fresche, capelli biondi o neri, gioventù e vigore. Teste grigie ve ne sono parecchie; ne vidi anche cinque o sei affatto canute; ho notato sin da stamane qualche mutilato. Certo sono vecchi patriotti, stati a tutti i moti da trent’anni in qua.

— Anche tu sei qui? esclamava uno abbracciando un amico: non eri a Parigi?

— Arrivai ieri sera.

— A tempo per venir con noi?

— E avreste voluto fare senza di me?

Mi parve una vantazione che stesse male: ma l’aria del giovanotto elegante era tanto semplice e sicura! Non domando mai d’uno chi sia, poi me ne pento. Fino ad ora non conosco che Airenta, dei nuovi. Egli, mentre scrivo, dorme lungo disteso, colla testa appoggiata alla sua sacca, vicino ai miei piedi. È un giovane d’oro. Ci conoscemmo ieri, ci trovammo qui, ci siamo promessi di star sempre insieme. I suoi maestri del seminario arcivescovile di Genova, quando sapranno il passo che ha fatto!

Che? Un uomo in mare?

* * *


Fu un quarto d’ora d’angoscia. Indietro alla macchina! urlava il capitano, e il legno si fermò sbuffando. Ma l’uomo caduto in mare era già lontano; appariva, spariva e lottava. Fu presto calata una lancia: la spingemmo cogli occhi, coi gesti, coll’anima, tutti. Il caduto fu raggiunto, agguantato, salvato. Dicono che sia un genovese.

* * *


Mi si era fitto in mente che questo capitano del Lombardo fosse un Francese. L’aria, gli atti, il tono suo di comandare, lo mostrano uomo che in sè ne ha per dieci. A capo scoperto, scamiciato, iracondo, sta sul castello come schiacciasse un nemico. L’occhio fulmina per tutto. Si vede che sa far di tutto da sè. Forse in mezzo all’oceano, abbandonato su questa nave, lui solo, basterebbe a cavarsela. Il suo profilo taglia come una sciabolata; se aggrotta le ciglia, ognuno cerca di farsi piccino; visto di fronte non si regge al suo sguardo. Eppure, a tratti, gli si esprime in faccia una grande bontà. Che capriccio fu quello di chiamarlo Nino? — Bixio! Ecco il nome che gli sta! Almeno rende qualcosa come un guizzo di folgore.

Si fa notte: il Piemonte tira innanzi più veloce di noi. A quest’ora in casa mia si accende il lume, torna mio padre da fuori, la cena fuma sulla mensa; ma la famiglia tarda a sedersi... qualcuno manca.

In mare, 7 maggio,

Fu fatto fare silenzio. Da poppa a prora tacemmo tutti, e la voce potente d’uno che leggeva un foglio suonò alta come una tromba. L’ordine del giorno ci ribattezza Cacciatori delle Alpi, con certe espressioni che vanno dritte al cuore. Non ambizioni, non cupidigie; la grande patria sovra ogni cosa, spirito di sagrificio e buona volontà.

Conosco un altro ordine del giorno, che fu letto non so bene se nella ritirata da Roma nel 1849, o l’anno scorso ai volontari, prima che passassero il Ticino. Si sente sempre lo stesso spirito. Anche in quello, il Generale diceva di offrire non gradi nè onori, ma fatiche, pericoli, battaglie e poi... per tenda il cielo, per letto la terra, per testimonio Iddio.

Talamone, 7 maggio.

Vedevamo lontano un villaggio, una torre svelta, sottile, lanciata al cielo; una bandiera su quella agitata dal vento. Bandiera italiana, villaggio toscano. Era questo di Talamone, sulle coste maremmane. Quando fummo vicini a terra, una barca venne a gran forza di remi verso di noi, portando il Comandante di questo castelluccio. Il valentuomo era mezzo sepolto sotto due spalline enormi, e aveva in capo una lanterna tutta galloni.

Che paese di povera gente! Carbonai e pescatori. La nostra discesa gli ha rallegrati.

— Come si chiama quel monte là in faccia?

— Monte Argentaro.

— E quelle case bianche, mezzo tuffate in mare?

— Porto San Stefano.

— Con una veduta come questa sempre dinanzi agli ocche, dovete fare una bella vita!

— Sì se si mangiasse cogli occhi. Ma... Basta... finchè si campa!

Cosi mi diceva un giovane carbonaio, mentre seguitava a discorrere, per farmi dire a sua volta chi siamo, e dove andiamo; io pendeva, proprio pendeva, dalle sue labbra, bevendo il dolce della sua lingua e pensando al mio dialetto aspro.

* * *


Lo rividi disceso a terra. Lento e sorridente se ne veniva su per la salita, vestito da generale dell’esercito piemontese. I lunghi capelli e la barba intera combinavano male con quei panni. Il capitano Montanari, che pare suo grande amico, gli veniva a fianco celiando, e gli diceva: «Così vestito mi sembrate un leone in gabbia». Il Generale sorrideva.

* * *


Son voluto entrare in chiesa. Una piccola chiesa disadorna e tranquilla, fatta proprio per pregarvi e null’altro. Mi sono seduto tra le panche, per respirare un po’ di quell’aria fresca che era là dentro, e invece mi si riempì l’animo di malinconia. Uscito, ho subito scritto a casa mia, confessando d’esser qui, e dicendo con chi e dove vado.

* * *


Mi sono tuffato in mare con una voluttà indicibile. Le acque erano tiepide, per tutta la riva una festa di nuotatori, sui poggi, a brigate, si vedevano i nostri godere il fresco dell’erba. Lungo la strada che mena ad Orbetello un gran viavai.

Ma che cosa facciamo qui? Che cosa si aspetta? Stanotte dormiremo a terra, e i nostri legni staranno all’àncora. Dicono che furono menati via dal porto di Genova per sorpresa. Che colpo, se venisse una nave da guerra a ripigliarceli! Il meglio sarebbe tirar via. Ma forse il Generale attende notizie, o altra gente, o armi. Appunto, sino ad ora non abbiamo armi. Soltanto alcuni se ne vanno attorno, con certe carabine che si tengono care come spose. Le hanno sempre in ispalla. Sono genovesi, tutti tiratori da lunga mano, preparati a questi tempi con fede ed amore. Quell’uomo dai capelli grigi, non vecchio ancora ma neanche più giovane, è un professore di lettere, amico di Mazzini, uscito di carcere l’anno scorso. V’era stato chiuso pei fatti di Genova del 1857. Si chiama Savi. Ho inteso dire che nel 1856, quando fu formata la Società Nazionale, e Garibaldi vi si iscrisse uno dei primi, il Savi l’abbia rimproverato d’aver accettato l’iniziativa monarchica, lui capo militare del partito repubblicano uscito da Roma. Ma ora per l’Italia è venuto anche lui. Se ne sta in disparte modesto e taciturno; ma si vede che è amato e cercato. Chi non sa chi sia, gli passa vicino rispettoso e lo saluta.

* * *


Ci siamo provati in quattro a mettere insieme un po’ di erudizione. Uno disse che i Galli Gesati, armati di spiedi, e incamminati alla volta di Roma, devono essere stati più qua e più là a campo, nella pianura verso Orbetello, quando furono colti e distrutti dai Romani, sbarcati qui tornando dalla Sardegna. E qui Mario approdò furtivo, reduce dall’esilio d’Africa, coll’anima traboccante degli odi, nati nella palude di Minturno e inaspriti dagli ossequi concessi a Silla. Qui, sul finire del secolo scorso, le schiere napoletane del conte di Damas videro per la prima volta le insegne dei repubblicani di Francia. E i posteri aggiungeranno che qui discese Garibaldi coi suoi, navigando verso Sicilia.

Talamone, 8 maggio.

Le compagnie sono formate, otto in tutto. io co’ miei amici siamo scritti alla sesta. La comanda Giacinto Carini, siciliano, che mi pare di trentacinque anni. Dicono che nel quarantotto fu colonnello di cavalleria; che stesse coll’armi alla mano sino all’ultima caduta della rivoluzione; e che da quei tempi visse in Francia, sperando e scrivendo. Siamo lieti d’aver per capo un siciliano, che ha fama di prode: eppoi è un così bel tipo di soldato! Affabile, gentile, parla e innamora. E siciliani sono anche gli altri ufficiali della compagnia, salvo un modenese, che deve saper bene il mestiere, ed essere anch’egli uomo ardito e di franco coraggio.

Bixio, La Masa, Anfossi, Cairoli, ed altri bei nomi della nostra storia, comandano ognuno una compagnia: tutti gli ufficiali hanno qualche bella pagina di valore: parecchi sono ancora di quei di America, ne ho visti tre che hanno un braccio solo. Primo aiutante del Generale è il colonnello Türr ungherese, e Sirtori è il capo dello Stato Maggiore. Abbiamo con noi il figlio di Daniele Manin, e ho inteso parlare d’un poeta gentile che canterà le nostre battaglie. Si chiama Ippolito Nievo.

Tutti i Genovesi che hanno carabina, forse quaranta, formano un corpo di Carabinieri. Il loro capitano Antonio Mosto chi lo volesse dipingere, è una bella testa di filosofo antico. Di modi e di fisionomia austero, pare uno che abbia fatto penitenza sino ad oggi, per affrettare la resurrezione d’Italia. È conosciuto per coraggiosissimo; e infatti come potrebbe non esserlo, se quei giovani lo tengono per primo?

* * *


Ho riveduto quei due signori che hanno viaggiato con me da Parma a Genova. Sono qui anche loro; soldati nella prima compagnia. Il più giovane, piemontese, si chiama Giovanni Pittaluga. È un fuoco. A Piacenza, per aver veduto alcuni soldati francesi andare a zonzo vicino alla stazione, si tirò dentro gridando se quelli stranieri non se ne andranno mai più. E il più vecchio, che si chiama Spangaro ed è veneziano, e deve essere un uomo di conto, a vedere com’è rispettato qui, disse con molto senno, che avremo grazia se ci riuscirà di vederli andarsene colle buone. L’altro fremeva. Ora avranno agio di continuare la loro disputa sull’efficacia dei modi spicci che il giovane vorrebbe adoperati, a farla finita coi nemici d’Italia. Nella sua fisonomia vi è del Saint—Just. Guai a quel povero prete o frate che gli venisse a cascare fra le mani.

* * *


Il povero Sartori era seduto sul ciglio di quello scoglio, col mare là sotto a picco. Si querelava tra sè, ma udì il mio passo e si tacque. Gli chiesi che cosa avesse. Mi rispose che era stato lì lì per buttarsi da quell’altezza, offeso nel vivo da un capitano che gli impose di levarsi di capo il berretto da ufficiale, portato nell’esercito dell’Emilia. Deve essere stato un battibecco fiero. Sartori obbedì, ma ha giurato di far parlare di sè.

* * *


Allegro che scoppiava nei panni, montato a bisdosso su d’un asinello, uno dei nostri cavalcava su per l’erta, tra le risa de’ suoi amici. La povera bestia cadde, e il giovane andò giù ruzzoloni, rimanendo malconcio. Fu messo a letto nell’osteria, e vi rimarrà chi sa quanto. Poveretto, quando noi ripartiremo!

* * *


Una mano dei nostri si staccheranno tra poco da noi. Passeranno il confine romano condotti da Zambianchi. Mi duole pei tre medici di Parma destinati a seguirlo. Diverse venture, comunque la meta sia una. Noi non ci siamo detti addio.

E mi hanno detto che sono partiti, o stanno per partire, non so quanti, che non vogliono più seguire il Generale, perchè al grido di guerra ha mescolato il nome di Vittorio Emamiele. Se ne parla, se ne giudica, ma non se ne sente dir male.

9 maggio. Dal Lombardo in faccia a San Stefano.

Ieri sera c’imbarcammo che il mare pareva volersi mettere in burrasca. Gli abitanti di Talamone ci salutarono dalla riva, accompagnandoci con auguri pietosi.

Sono venuti a bordo del Lombardo tre bersaglieri fuggiti da Orbetello. Uno ve n’era già sin da Genova, Pilade Tagliapietre, trevisano. Se al Lamarmora, che creò questa sorte di soldati, e li condusse da Goito in Crimea, invincibili sempre, avessero predetto che un giorno quattro giovani vestiti de’ suoi panni, guarderebbero dalla tolda di un bastimento alla Sicilia in rivolta, chi sa che rigonfiamento di cuore n’avrebbe avuto, e che sorta di esclamazioni avrebbe tartagliato. Oh la vecchia Sicilia di Vittorio Amedeo!

Ci deve essere gran fretta di partire, perchè Bixio grida ai barcaiuoli che vanno e vengono portando acqua: «Venti franchi ogni barile, se me li portate prima delle undici!». I barcaiuoli fanno forza di braccia e le barche volano.

Intanto che si aspetta l’acqua, fanno la distribuzione delle armi. Ne ho avuta una anch’io, uno schioppo rugginoso che, Dio mio! E m’hanno dato un cinturino che pare d’un birro, una giberna, una baionetta e venti cartucce. Ma non si diceva a Genova che avremmo avuto delle carabine nuovissime? C’è di peggio. Il colonnello Türr fu ieri ad Orbetello, e tornò con tre cannoni e una colubrina lunga come la fame; roba che deve essere dei tempi quando quel lembo di terra là si chiamava lo Stato dei Presidii. Come faremo, tanto male armati laggiù?

L’acqua è arrivata, si salpa l’àncora. Santo Stefano, addio. Girato quel promontorio, saremo di nuovo nel grande mare, e che Dio ci aiuti.

9 maggio. Sera.

Non una vela sull’orizzonte. Oltrepassata l’isoletta del Giglio, cominciò una delizia di venticello che ristorava le vene. Il cielo è purissimo. Neppur più uno di quei tanti smerghi che ci seguivano, librandosi alti, precipitando fulminei a tuffarsi, quasi per farci festa. Vedemmo molti delfini balzare allegri sull’acqua e tenerci dietro un pezzo.

Fra poco sarà notte. Una voce armoniosa e robusta canta da poppa una canzone, che udiranno i nostri compagni del Piemonte. È il volo dell’anima alla donna del cuore. Adesso la canzone si muta in un coro di voci poderose... «Si vola d’un salto nel mondo di là!». Oh se fossimo presi in mare!

10 maggio.

Dall’alba fino ad ora fu un vero splendore. Si navigò che pareva di andare al trionfo tranquilli, colla pace del mare e col cielo che pareva nostro. Ma venne il momento dell’angoscia. Uno dei nostri si è gettato in mare. Si dice che sia lo stesso dell’altra volta. Dunque allora non è caduto per disgrazia? Quando il legno si fermò, vedevamo lontana la testa del naufrago, e misuravamo spasimando la corsa della barca che volava a salvarlo. E vi riuscirono. Riportato a bordo, Bixio lo rimproverò aspramente, poi si commosse e lo fece mettere in una cabina, dove è custodito. Gli hanno levato di dosso i panni fracidi, l’hanno vestito d’una tunica da ufficiale, e ora giace là dentro, fulminando cogli occhi attorno come un pazzo furioso.

* * *


Il Piemonte ci precede di molte miglia. Quella nave corre superba, come avesse coscienza della fortuna e dell’uomo che porta. Si vede come un punto nero laggiù; anzi non è più che il suo fumo, lasciato addietro come la coda d’una cometa. Se si abbattesse nella crociera napoletana! Ormai siamo nelle acque del nemico. Gli ordini sono più severi. Alcuni hanno indossato camicie rosse. Bixio grida, li chiama mussulmani, vuole che stiano rannicchiati. Nessuna vela sull’orizzonte. Sempre noi soli, fin dove la vista può giungere.

* * *


Il caporale Plona si lasciò sfuggire non so che brutte parole, e Bixio giù! gli scaraventò un piatto in faccia. Ne venne un po’ di subbuglio. Come un razzo Bixio fu sul castello gridando: «Tutti a poppa, tutti a poppa!». E tutti ad affollarsi a poppa rivolti a lui, ritto lassù che pareva lì per annientarci. E parlò:

«Io sono giovane, ho trentasette anni ed ho fatto il giro del mondo. Sono stato naufrago e prigioniero, ma sono qui, e qui comando io! Qui io sono tutto, lo Czar, il Sultano, il Papa, sono Nino Bixio! Dovete obbedirmi tutti; guai chi osasse una alzata di spalla, e, guai chi pensasse di ammutinarsi! Uscirei con il mio uniforme, colla mia sciabola, con le mie decorazioni e vi ucciderei tutti! Il Generale mi ha lasciato, comandandomi di sbarcarvi in Sicilia. Vi sbarcherò. Là mi impiccherete al primo albero che troveremo; ma — e misurò collo sguardo lento la calca, — ma in Sicilia, ve lo giuro, vi sbarcheremo!».

Viva Nino Bixio! viva, viva, viva! E mille braccia si alzarono a lui, che stette lassù fiero un poco; ma poi impallidì, gli balenarono gli occhi e ci volse le spalle. Dall’alto dell’alberatura i marinai applaudivano. Allora di mezzo a noi si udì la voce quasi fioca d’uno, che ritto su d’una botte, coi capelli e la barba di un biondo scialbo, con una faccia fine e soave, non più giovane nè gagliardo, arringava, annaspando nell’aria colle braccia, parlando di Garibaldi e di Bixio con grandi lodi. Stiamo a vedere, pensai, che Bixio gli scarica addosso una pistolettata. Mi volsi, proprio temendo, ma Bixio non era più sul castello. L’oratore tirò innanzi un altro poco, poi dovè discendere senza concluder nulla. Niuno badava a lui, perchè le parole di Bixio avevano fatto sugli animi come il vento sulle acque. Tutti erano agitatissimi, ognuno avrebbe data per Bixio la vita. Ho chiesto il nome di quell’oratore che ha viso dolce di Galileo, e mi hanno detto che è La Masa.



Di sul Lombardo, 11 maggio. Mattino.

Ieri, dopo il tramonto, i marinai delle antenne vedevano ancora come un’ombra del Piemonte. A prora, un giovane che pare nato alle grandi avventure, accendeva fiocchi di stoppa incatramata, e sempre per un verso li buttava in mare. Che fossero segnali? Il bagliore di quelle fiamme rossicce, dava a tratti uno strano risalto alla faccia d’adolescente di quel giovane, e la sua fronte pareva fuggisse sotto i ricci biondi. Io guardava le sue mani ben fatte, il suo petto ampio, il suo collo robusto e bello, cinto di un fazzoletto di seta ricadente giù per le spalle; e pensava ai mari d’oriente e al Corsaro di Byron.

Mi rannicchiai in un angolo, con un visibilio nel capo, e mi addormentai come un morto.

— Su! su! — mi disse Airenta, scuotendomi forte, non so a che ora.

Balzai. Tutti quelli che erano sul ponte stavano ginocchioni, curvi, sporgendo le faccie a sinistra. Non si udiva che, un sussurro; le baionette luccicavano inastate.

— Ma che c’è?

E Airenta a me: — Una nave viene a furia verso di noi.

— Borbonica?

— Ha già suonato la campana, e Bixio ha comandato di non rispondere.

La nave veniva dritta sul nostro fianco, e il rumore delle sue ruote era concitato e rabbioso. Mi pare che il suo camino gettasse fiamme. Bixio piantato sul castello la investiva cogli occhi. Certo si preparava a qualche tragedia; magari a far saltare in aria sè, noi e la nave che ci era ormai quasi addosso. Non ho potuto capir bene quel che seguì, per un po’ di confusione che mi nacque vicino: solo intesi Bixio gridare: «Generale!». E poi fu una grande allegria.

Quella nave era il Piemonte. Il Generale che ci aveva preceduti, scoperta la crociera borbonica, tornò indietro in cerca di noi; ci trovò, si parlarono con Bixio, e ci riponemmo in via, mutando rotta.

Credo che ora siamo più vicini all’Africa che alla Sicilia,

* * *


Si torna a navigare verso Sicilia.

A poppa, i Lombardi cantavano le canzoni dei loro laghi. Non sono meste come quelle dei miei monti, non rendono le pene delle generazioni nate a patire all’ombra dei castelli, che ora, rovine senza gloria, coronano i poggi sopra i villaggi delle mie vallate; ma qualcosa di patetico vi è anche in esse, e toccano il cuore profondamente.

Ho qui vicino un Ungherese, che veggo da ieri girare in mezzo a noi. Non sa dire una parola. Mi guarda con quei suoi occhi piccini, aggrottati, verdi. Ha i capelli a lucignoli sulla fronte stretta, e il naso da Unno. Cuoce meditabondo e cupo, sdraiato a questo sole; e forse sta pensando alla sua patria, mentre viene a morir per la mia.

* * *


Gran bella veduta d’isolette! Sembrano emerse ora dal mare. C’è del verde di tutti i toni; c’è della roccia splendente, c’è un’aria azzurra che avvolge tutto; e le isole hanno una zona d’argento al piedi.

Sento che in quelle isole vi sono prigioni orribili. Il Re di Napoli vi tiene chiusi i prigionieri di Stato, e le famiglie che ve ne hanno qualcuno, dicono: «Meglio i morti!».

* * *


La Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nell’azzurro tra mare e cielo, ma era l’isola santa! Abbiamo a sinistra le Egadi, lontano in faccia il monte Erice che ha il culmine nelle nubi. Un siciliano che era meco sulla tolda, mi narrava le avventure di Erice figlio di Venere, ucciso da Ercole su quelle vette. Erano ameni gli antichi, ma quant’è pure ameno l’amico mio, che trova ora tempo di parlare di mitologia! Ei mi disse che su quel monte c’è un villaggio che si chiama San Giuliano, dove nascono le più belle donne della Sicilia.

* * *


Come si conoscono gli esuli siciliani! Eccoli là a prora tutti affollati. In questo momento non vivono che cogli occhi. Saranno una ventina, di tutte le età. Miracolo se il colonnello Carini sbarcherà vivo, se non gli si romperà il cuore dalla allegrezza.

* * *


Il dottor Marchetti che ride sempre quando mi vede scrivere, non sa che ora scrivo del suo figliuolo. Compagno d’esilio, l’ha voluto seco sin qui. Il giovinetto può avere dodici anni; eppure è di piglio sì ardito! Fortunato lui, che ha un mattino così splendido nella sua vita! Se la morte non lo coglierà, sarà un uomo levatosi per tempo nella sua giornata. Che c’è? Tutti guardano da poppa...

* * *


Due navi corrono a vista dietro di noi!

Si è messo un po’ di vento in poppa. Tutte le vele sono spiegate, i marinai lavorano che sembrano uccelli. Bixio comanda, ubbidito a puntino. Ha gridato che chi gli sbaglia una manovra, lo farà impiccare all’albero di maestra! Voliamo.

* * *


Un piccolo legno veniva da terra. Bandiera inglese. Bixio prese un foglio vi scrisse sopra qualcosa, fece fendere un pane e nel fesso mise il foglio. Poi quando il legno passò quasi rasente a noi, gettò il pane che cadde in mare. «Allora — gridò facendo tromba colle mani, — dite a Genova che il generale Garibaldi è sbarcato a Marsala, oggi a un’ora pomeridiana!».

Sul piccolo legno fu un levar di mani, un battere di applausi, uno sventolare di fazzoletti, evviva, viva, viva!

* * *


Eccola lì Marsala, le sue mura, le sue case bianche, il verde de’ suoi giardini, il bel declivio che ha innanzi. Nel porto poco naviglio; una nave da guerra sta alla bocca e si è tutta pavesata.

— Pronti, figliuoli — grida Bixio, tutto per noi; e se avesse la forza ci lancerebbe in un colpo alla riva. Ma siamo certi di sbarcare, sebbene le due navi ci inseguano sempre. Hanno guadagnato un bel tratto. Vengono sbuffando.