Da Quarto al Volturno/Da Calatafimi a Palermo

Da Calatafimi a Palermo

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Da Marsala a Calatafimi La battaglia di Palermo


poi, tra per quella vista e per il sole che si alzò a schiacciarci, si tacque e si tirò innanzi come ombre. Verso le dieci, ci abbattemmo in certe belle carrozze, mandate ad incontrarci come gran signori. Alcamo era vicina. Nelle carrozze v’erano gentiluomini lindi e lucenti, che fecero le accoglienze al Generale; mentre, allo sbocco dei sentieri, si affollavano dai campi molte donne campagnuole, confidenti e senza paura di noi. Alcune si segnavano devotamente; una ne vidi con due bambini sulle braccia inginocchiarsi quando il Generale passò; e uno dei nostri ricordò le Trasteverine d’undici anni or sono, che lo chiamavano il Nazzareno.

Entrammo in Alcamo alle undici. È bella questa città, sebbene mesta; e all’ombra delle sue vie par di sentirsi investiti da un’aria moresca. Le palme inspiratrici si spandono dalle mura dei suoi giardini; ogni casa pare un monastero; un paio d’occhi balenano dagli alti balconi; ti fermi, guardi, la visione e sparita.

Prima che noi giungessimo, si diceva che i regi erano sbarcati numerosi e furibondi a Castellamare, ma che subito erano tornati a imbarcarsi. Non si parla più di questa mossa, ma si vedono laggiù in alto due navi. Potrebbero essere da guerra.

* * *


Fummo in cinque da un signore che ci volle a forza in casa sua, e vi desinammo. Che gentilezza d’uomo in quest’isola solitaria: ma che ingenua ignoranza delle cose d’Italia! Egli non ci tenne nascoste le sue figliuole, che ci guardavano ansiose e ci parlavano come a conoscenti antichi.

— Di dove siete? chiedeva il loro babbo a Delucchi.

— Genovese.

— E voi? volgendosi a Castellani.

— Da Milano.

— Ed io da Como, — rispondeva senza aspettare d’essere interrogato Rienti, che ha la testa come uno di quegli angeloni ricciuti e paffuti, che si veggono scolpiti, coll’ali aperte, ai corni degli altari.

— Che bei paesi devono essere i vostri! Ma perchè siete vestiti così da paesani? Via, dite la verità, siete soldati piemontesi. No? E allora come avete fatto a vincere tanti Napoletani? Passarono di qui che era una pietà a vederli. Non arriveranno a Palermo la metà.

Poi il discorso cadde sulla guerra dell’anno scorso. Quel signore pareva nato ieri. Credeva appena che Vittorio Emanuele fosse davvero al mondo. Intanto s’era bevuto, e qualcuno menzionò Ciullo d’Alcamo, e la dolce canzone, e si parlò, anche di Bari, di Puglia, e della sfida di Barletta. L’ospite trasecolava a sentirci parlare di tante cose: non ci voleva più lasciar uscire; e quando potemmo andarcene senza disgustarlo, le sue figliuole ci porsero la mano. Baciammo rispettosi e timidi, e ce ne venimmo via con un po’ di scompiglio nel cuore.

* * *


Il tuono brontolava cupo di là dai monti; tutti si affollavano giù al mare, credendo che fosse il rombo del cannone. «Palermo è insorta, corriamo a Palermo!». Ma poi sovra i monti si levarono certi nuvoloni scuri, un temporale che svanì.

* * *


Si diceva misteriosamente, dall’uno all’altro, che il Generale ha perduto la speranza di riuscire contro i trentamila soldati che il Borbone ha nell’isola; che la nostra colonna sarà disciolta; che ognuno sarà lasciato libero di cavarsi come potrà da questo passo. L’annunzio fu un lutto. Ma era una falsa voce, o forse un gioco che ci viene dal nemico.

* * *


Quel frate che ci segue sin da Salemi, vuole spandere un’aura di religiosità sopra di noi. Lo vidi poco fa partirsi per tornare a Calatafimi. — «Colonnello Catini, disse passando al mio Comandante, domani dirò messa sovra un avello tricolorato! Dopo tornerò con voi».

* * *


Alcuni che rimasero addietro, per ferite leggere toccate a Calatafimi, ci raggiunsero qui. Narrano le sofferenze dei nostri compagni ricoverati a Vita. Non si sa come, le piaghe ingangreniscono; i medici si struggono intorno ai sofferenti, ma la morte li toglie loro di mano. Francesco Montanari da Mirandola, quell’amico del Generale che celiava con lui a Talamone, è morto dei primi.

E se è vero, capisco le parole che disse il frate partendo per Calatafimi, fa un’ora. Mi fu detto che i nostri morti giacciono ancora insepolti sui colli del Pianto Romano!

18 maggio. Tra Partinico e Burgeto.

Era meglio rompersi il petto, ma varcare la montagna, scansare Partinico.

Si saliva l’erta su cui sorge il villaggio, e il po’ di vento che rinfrescava l’aria ci portava già a ondate un fetore insopportabile. Appena in cima, ci affacciammo alla vista della città, arsa gran parte e fumante ancora dalle rovine. La colonna da noi battuta a Calatafimi s’azzuffò cogli insorti di Partinico, gente eroica davvero. Incendiato il villaggio, i borbonici fecero strage di donne e di inermi di ogni età. Cadaveri di soldati e di paesani, cavalli e cani morti e squarciati fra quelli.



19 maggio. Passo di Renna.

Ieri Burgeto mi parve un agguato. Dalle case bieche, mezzo nascoste tra gli olivi giganti, i paesani ci guardavano muti, come una processione di spettri. Ho notato una cosa. Se un popolo ci accoglie con gioia, l’altro che troviamo subito dopo ci sta contegnoso e freddo.

Passammo.

Per una via scavata nella montagna arida, traversammo una gola, dove ci fu sopra il vento freddo del crepuscolo, a minacciarci una brutta nottata. Sul tardi riposammo su questa montagna. Un vero anfiteatro. Quando si giunse eravamo stanchi, stanchi assai. Da Alcamo a questo, che si chiama Passo di Renna, corrono molte miglia. Ma noi le abbiamo percorse senza contarle, anzi si cantò sino a Partinico. Là cessarono i canti e l’allegrezza.

Non ho più dormito come stanotte, da quando lasciai le panche della scuola. La testa sulla sacca, la sacca sovra una pietra, il corpo supino lungo il margine della via. Ma stamane che gioia! Alla punta del giorno, la banda di non so che villaggio vicino venne a svegliarci, suonando un’aria dei Vespri siciliani. Io balzai, corsi sulla rupe più alta, questa dove scrivo, e il mio sguardo si perdè nella Conca d’oro. Palermo! Era laggiù incerta tra la nebbia e il mare. Si vedevano le navi lungo la rada, tante come se vi si fossero date convegno tutte le marinerie d’Europa, per vederci il giorno in cui piomberemo improvvisi sulla città. O cacciatori dell’Alpi benedetti!

Tutti corrono ad una grande cisterna là in fondo, e si lavano i panni e le persone. Come una scena della Bibbia, nelle valli della Giudea.

* * *


Dimenticavo che ieri sera verso le dieci, mentre ci eravamo appena accampati e accendevamo i fuochi, alcuni signori palermitani, venuti traverso a chi sa quanti pericoli, capitarono quassù. Io li vidi, quando si incontrarono col colonnello Carini. Egli che torna in patria, coll’armi in pugno, dopo dieci anni d’esiglio, e quei signori amici suoi d’antico, si abbracciarono d’affetto, dicendosi cogli occhi e coi singhiozzi un mondo di cose. Poi intesi da loro che in Palermo tutto è pronto che appena saremo alle porte, la cittadinanza irromperà dalle case, a sopraffare i ventimila soldati che tengono la città. E narrarono ancora che la polizia vuol dar a credere al popolo che noi siamo saccheggiatori, l’ira di Dio, come si dice qui. Parlavano dei birri. Ah! i birri di Palermo debbono essere una gran laidezza. A sentire quei signori, i birri si vantano che uno di questi giorni dovranno far un eccidio di patriotti; e le trecce delle dame palermitane, dicono di volerle a far cuscini per le loro mogli.

Dei soldati si sa che portarono da Calatafimi un’impressione profonda. Ne sono ancora sbalorditi, ma si tengono compatti e fedeli al Re. Di noi, del continente, di quel che fuori dell’isola si sa sulle operazioni nostre, sulla nostra vittoria, nulla.

Prima di partirsi da noi, quei signori ci vollero baciare, e ci diedero convegno a Palermo, nelle loro case. Benedini dottore tirò fuori il taccuino, e alla luce del fuoco ne volle scrivere gli indirizzi.

— «Che fate? — esclamò uno di loro afferrandogli la mano, — quelle cose lì si tengono a memoria!».

Previdenti i Siciliani, ed esperti nelle cospirazioni.

Nessuno di noi avrebbe pensato al pericolo in cui uno può essere posto, per un indirizzo trovato indosso ad un altro. Terremo a memoria quello di quei signori e li cercheremo; purchè nel ritorno non siano caduti in mano dei regi.

* * *


Il tenente colonnello Tuköry cavalca su e giù per la strada, esercitando un morello, che non tocca la terra da tanto che è vispo. Giovanissimo per il suo grado, quest’ufficiale mi parve l’immagine viva dell’Ungheria, sorella nostra nella servitù. La sua faccia, d’un pallido scuro, è fina di lineamenti e illuminata da un par d’occhi fulminei e mesti. Egli era a quelle battaglie di dieci anni or sono, i cui nomi strani ponevano a me fanciullo uno sgomento indicibile in cuore. Vide i reggimenti italiani al servizio dell’Austria dare il colpo di grazia alla patria sua. Ma l’amore di quella generosa nazione per noi sopravvisse. Soltanto non sappiamo quanto la nostra guerra fortunata dell’anno scorso, le sia stata funesta. Essa ha qui due rappresentanti degni, Tuköry e Türr, oltre a due gregari; quel selvaggio che vidi a bordo e il sergente Goldberg della mia compagnia, soldato vecchio, taciturno, ombroso, ma cuore ardito e saldo. Lo vedemmo a Calatafimi!

* * *


Ho saputo di Tuköry che fu aiutante del generale Bem, che è un vero ingegno militare e che ha menato vita d’esule a Costantinopoli, dal quarantanove in qua, onoranda come quella di tutti i nostri fuorusciti del ventuno, primavera sacra d’Italia.

* * *


Tra poco saremo alla pioggia. «Fortunato chi potrà avere un cantuccio laggiù, nel Ministero della guerra!», disse Giusti, un astigiano sempre gaio d’umore, come gli corresse pel sangue il vino de’ suoi colli. Il Ministero della guerra poi, è una carrozza mezzo sconquassata, che ci viene dietro menando l’Intendenza, le carte e il tesoro militare, a quel che intesi un trentamila franchi. Ma in quella carrozza ve n’hanno due dei tesori; il cuore di Acerbi e l’intelletto di Ippolito Nievo. Nievo è un poeta veneto, che a ventott’anni ha scritto romanzi, ballate, tragedie. Sarà il poeta soldato della nostra impresa. Lo vidi rannicchiato in fondo alla carrozza, profilo tagliente, occhio soave, gli sfolgora l’ingegno in fronte: di persona dev’essere prestante. Un bel soldato.

* * *


E là cinque grandi botti di vino, e sigari a ceste, e un monte di ferraioli, mandati da non so che Municipio, per coprirci e scaldarci. Carità!



20 maggio. Passo di Renna.

Cadde acqua tutta la notte. Raccolti attorno a un gran fuoco, ci riparavamo alla meglio, ascoltando i racconti dei Siciliani, su questo luogo di mala fama. Un ammazzatoio. Chi arriva ad uno degli imbocchi del passo di Renna, prima di avventurarvisi si segni e pensi mesto a casa sua. La testa d’un masnadiero potrebbe apparire tra qualcuna di queste rocce irte, e tra le foglie dei fichi d’India balenare spianata una carabina. Sovente i malfattori fanno brigata, si piantano qui; e allora chi capita si raccomandi a Dio. Quelli sono giorni di grasso, l’oro non basta, vogliono il sangue.

Il colonnello Carini che parla con tanto garbo, narrava anch’egli le storie dei masnadieri cavallereschi, che tennero passo in questa Conca. Io mi sforzava per tenere gli occhi aperti, sebbene non potessi reggere dal gran sonno, ma i più si addormentarono. Quando se ne avvide, Carini si tirò il mantello sul capo e sorridendo disse: «Come Mazzeppa, nell’ultimo verso del poema di Byron».

* * *


Odo dire che su d’un certo monte, di cui non mi riesce. scrivere il nome, si adunano a migliaia i Siciliani sotto il La Masa. Fosse vero! Perchè sino ad ora siam pochi, e ancora mancano i buoni che abbiam perduti a Calatafimi.



21 maggio. Sopra il villaggio di Pioppo,

Grande allegrezza ieri sera verso il tramonto!

Ci fecero levare il campo all’improvviso, e si susurrò che si andava a Palermo. Discendendo per la via che serpeggia, con isvolte strette, sin laggiù dove comincia la Conca d’oro, femmo la più gaia camminata che sia mai stata. Doveva venire una notte così piena d’avventure! A un tratto ci fermammo. — Che c’è? — Nulla. Si ha a dormire qui. — Come si chiamano queste quattro casupole? — Pioppo. — E seguitando per questa via, dove si va? — Prima a Monreale, poi a Palermo. — Tanto valeva restare al Passo di Renna — mugolò Gaffini, che trova sempre a ridire su tutto. Ma entrò anche lui colla compagnia sotto quel gran portico, dove fummo chiusi come una greggia. Ci coricammo e zitti.

Prima dell’alba, eravamo già su, colle armi in ispalla.

Un’alba così bella, che uno, avrebbe voluto disfarsi per andar confuso in quei colori di cielo e in quelle fragranze.

Alla nostra sinistra, avanti, verso Monreale, sui colli di San Martino, si udiva una moschetteria fitta, crescere, avvicinarsi; poi vedemmo il fumo, e i nostri combattere indietreggiando pei greppi. I borbonici usciti da Monreale gli avevano assaliti, e tentavano di girare la nostra sinistra, spingerci per i monti al Passo di Renna.

Riuscendo ci avrebbero schiacciati.

— Che oggi si debba avere la peggio? — dicevamo noi.

Passarono alcune Guide di galoppo, tornando di verso Monreale. — Che c’è di brutto? — Nulla. —

Passò il Generale collo Stato Maggiore di mezzo trotto; e la moschetteria lassù continuava. Quelli che si ritiravano pel monte, lenti, ostinati, erano i Carabinieri genovesi. Ma più in là, anche oltre il colle, dove essi facevano quella bella resistenza, si combatteva. Chi era là? Qualche nostra compagnia staccata? O qualche squadra d’insorti? Non si sapeva nulla.

Intanto il sole era già alto e cocente, e noi un po’ avanti, un po’ indietro, sostando, movendo, collo spettacolo negli occhi di una fila di muli tardi che portavano le barelle per i feriti, durammo un’ora in quel passo, finchè tornammo qui allo sbocco del Passo di Renna, senza aver avuto molestia. Schioppettate non se ne sentono più. Due dei nostri cannoni, piantati là sul ciglio, guardano Pioppo e il campo che i regi hanno messo laggiù negli orti, numerosi e ordinati.

Di qui veggo Palermo e la mole immensa, verde, su Monte Pellegrino. Quelle linee bianche, sfumate su per quei dossi, devono essere muriccioli di riparo a qualche via che mena sul culmine. Vi è una pace in tutto quel che appare laggiù, un silenzio così profondo in tutta quella vita, che si indovina a guardare. Eppure siamo aspettati.

* * *


Eccolo tornato il frate che partiva da Alcamo, per andare a dir messa sul campo di Calatafimi. Cavalca una vecchia giumenta, sicuro in sella, come uno che sotto la tonaca, vestisse da soldato: è lieto, è giovane, si chiama fra Pantaleo da Castelvetrano. Anche un frate non è di troppo tra noi; dà risalto al nostro piccolo campo. Salvator Rosa avrebbe pagati un occhio que’ sette, che combatterono a Calatafimi. Forse, buttata la tonaca, sono ancor qui.

* * *


Dianzi, mentre me ne andava giù, cantando un’arietta da cacciatori, a portare un ordine del mio capitano, incontrai un picciotto armato, che mi fermò gridando: — Qui si canta e lassù si muore! — E mi narrò, che nel combattimento di poche ore prima, era morto Rosolino Pilo lassù; e mi additava i colli sopra Monreale. Morto d’una palla nel capo, mentre scriveva due righe per Garibaldi. Quel povero picciotto piangeva, narrandomi il fatto; e come capi alla parlata che io non sono siciliano, mi chiese mille perdoni per avermi fermato. Mi pregò di alcune cartucce, ma io, delle undici che mi rimangono non ne volli donare, e lo lasciai la incerto e mortificato.



21 maggio. Parco.

Mentre i miei panni stanno asciugando al fuoco, scrivo colla testa intronata dalla gran fatica di questa notte. La padrona di casa, buona vecchierella, che ci accolse compassionandoci con atti e voci da madre, cuoce un po’ di maccheroni per noi, sfiniti dalla fame.

Ieri, sino a sera, un tempo di Dio, bello e tranquillo: ma quando ripigliammo le armi, il cielo parve corrucciarsi. Il sole era tramontato. Si partì. — Almeno questa volta si andrà davvero a Palermo! — No, si va a San Giuseppe. — E dov’è San Giuseppe? — Qui a destra, oltre i monti parecchie miglia.

Fatti pochi passi per la strada militare, si arrivò ad una casetta solitaria, scura, mezzo ruinata, casa da ladri. Là ci si faceva uscir dalla strada, a misura che si arrivava, e infilavamo un sentiero angusto e sassoso. Dinanzi alla casetta, due uomini si sbracciavano a cavar pani da grossi cestoni, e ne davano tre a ciascuno di noi che passava. Era come a ricevere tre punte nel cuore. Dunque dovremo camminare i monti deserti per tre giorni? E questi pani come portarli? Inastammo le baionette, e gli infilzammo l’uno sull’altro. Lo schioppo, così equilibrato, rompeva le spalle.

In quel momento, mi toccò il dolore di vedere Delucchi da Genova seduto su d’una pietra, abbracciandosi le ginocchia, tormentato da un malore che gli toglieva le forze. «Torna indietro ai nostri carri, gli dissi, in qualche luogo ti meneranno. Che vuoi fare qui? Noi non ti si può portare: fra mezz’ora saranno passati tutti, verrà la notte e rimarrai solo». Lo aiutai a levarsi, e lento s’avviò verso la coda della colonna, guardando noi che pareva gli portassimo via il cuore. A pensare che potrebbe essere caduto in mano ai regi!.. Ma spero che avrà raggiunto i carri e che sarà in salvo.

Colla prima oscurità, cominciò la pioggia a darci nel viso i suoi goccioloni grossi e impetuosi: parevano chicchi di grandine che ci si spezzasse sulle guancie. Il vento era freddo; dinanzi a noi, la terra e l’aria furono presto come a entrare in gola a un lupo. Tuttavia il tenente Rovighi camminava a cavallo da disperato. Ma un tratto una schioppettata, scaricatasi per disgrazia a uno della mia compagnia, lo fece rotolare a terra. La toccò appena come un gatto, e si rizzò, balzando su senza dire una parola. Era illeso. Ma la sua povera bestia aveva una gamba spezzata. Passammo, lasciando Rovighi a dolersi sull’animale che strepitava nell’oscurità.

Ci avanzammo alla meglio, tastando la terra cogli schioppi, come una processione di ciechi. Il buio non poteva più crescere; il sentiero veniva mancando; camminavamo da due ore, non si era fatto un miglio: e non uno che potesse dire di non aver ruzzolato in quel macereto.

— Animo! Issa! Da bravi!

Così sentimmo susurrare, arrivando a un punto, dove un viluppo d’uomini si affaccendava con corde e stanghe. Volevano tirar su da un pantano quella colubrinaccia sciagurata che portammo da Orbetello. «O lasciatela a giacere lì per sempre, che tanto, se capita di scaricarla, scoppia e ci ammazza mezzi!». Così stava per gridare in un impeto di buon umore, ma la parola mi rientrò. In quel gruppo v’era il Generale, vi era Orsini, vi era Castiglia, occupati a far portare a dorso d’uomini tutta la nostra artiglieria. Udii il Generale incaricare Castiglia di provvedere al trasporto di quella roba, a qualunque maniera; poi il gruppo si diradò, e tornammo a camminare per quelle tenebre.

Volgendoci a guardare addietro, vedevamo i fuochi del campo di Renna, vivi come se ancora vi fossimo stati noi a goderli: sulla nostra sinistra, giù nella profondità, splendevano altri fuochi allineati, il campo nemico presso Pioppo: dinanzi a noi, lontano, lontano, un gran disco di luce immobile, come un occhio sovrannaturale che ci guardasse, splendeva, forse acceso a posta, per dare la direzione alla nostra marcia.

E la pioggia non cessava. Eravamo fracidi fino alla pelle: e il vento colle sue buffe portava dalla testa della colonna un nitrito, che pareva uno scherno. Verso mezzanotte si udì un colpo d’arma da fuoco, che scosse tutti sino all’ultimo della fila. «Ah! almeno sarà finita!» sclamò qualcuno, immaginando che la vanguardia si fosse imbattuta nei nemici. Sarebbe stata una sventura, in quel buio, così malconci. Ma va, va, tira innanzi, non si udì più nulla, si cadeva, si tornava ritti, e nessuno si lagnava. Che cosa era stato quel colpo? Trovammo un cavallo disteso morto sul margine del sentiero, e si disse che era di Bixio: il quale irato, perchè coi nitriti poteva scoprirci al nemico, gli aveva scaricata nel cranio la sua pistola. Byron, sempre Byron! Lara l’avrebbe fatto anche lui.

Verso l’alba passammo vicino a quel disco di luce, che era la bocca di una fornace. Dinanzi a quella bocca, una figura alta e nera stava a guardarci. Forse era un inconscio attizzatore; ma mi piace di immaginarmi che fosse uno messo a posta, a tenerci viva quella fiamma, come la colonna di fuoco agli Ebrei del deserto.

Alla prima luce la pioggia cessò. E vedevamo Palermo lì innanzi, e Monreale appena lontano quanto è larga la Conca d’oro. Guardandoci tra noi avevamo facce di spettri: i panni laceri e fangosi: molti erano quasi a piedi nudi. Stanchi, sfiniti, se ci fosse capitata addosso una compagnia ci avrebbe disfatti.

Discendemmo a questo piccolo villaggio che si chiama Parco.

I Carabinieri genovesi instancabili, si sacrificano e vegliano fuori negli orti, perchè noi si riposi tranquilli. Per la piazza ampia, pare un incendio o un inferno. Tutti asciugano i loro panni stando mezzo nudi. Non una finestra aperta.

Non si sa dove sia il Generale, ma Egli veglia per tutti.



22 maggio. Ancora a Parco.

Mi son fatto un amico. Ha ventisette anni, ne mostra quaranta: è monaco e si chiama padre Carmelo. Sedevamo a mezza costa del colle, che figura il Calvario colle tre croci, sopra questo borgo, presso il cimitero. Avevamo in faccia Monreale, sdraiata in quella sua lussuria di giardini; l’ora era mesta, e parlavamo della rivoluzione. L’anima di padre Carmelo strideva.

Vorrebbe essere uno di noi, per lanciarsi nell’avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo trattiene dal farlo.

— Venite con noi, vi vorranno tutti bene.

— Non posso.

— Forse perchè siete frate? Ce n’abbiamo già uno. Eppoi altri monaci hanno combattuto in nostra compagnia, senza paura del sangue.

— Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l’Italia.

— Certo; per farne un grande e solo popolo.

— Un solo territorio...! In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre; ed io non so che vogliate farlo felice.

— Felice! Il popolo avrà libertà e scuole.

— E nient’altro! — interruppe il frate: — perchè la libertà non è pane, e la scuola nemmeno. Queste cose basteranno forse per voi Piemontesi: per noi qui no.

— Dunque che ci vorrebbe per voi?

— Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa.

— Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre dovunque sono case e campagne!

— Anche contro di noi; anzi prima che contro d’ogni altro! Ma col Vangelo in mano e colla croce. Allora verrei. Così è troppo poco. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei a quest’ora, quasi ancora con voi soli.

— Ma le squadre?

— E chi vi dice che non aspettino qualche cosa di più?

Non seppi più che rispondere e mi alzai. Egli mi abbracciò, mi volle baciare, e tenendomi strette le mani, mi disse che non ridessi, che mi raccomandava a Dio, e che domani mattina dirà la messa per me. Mi sentiva una gran passione nel cuore, e avrei voluto restare ancora con lui. Ma egli si mosse, salì il colle, si volse ancora a guardarmi di lassù, poi disparve.

* * *


È sera, e ancora non pare che il nemico sappia che sia stato di noi. Deve esservi gran confusione nel campo borbonico. Ci hanno perduti di vista, e nessuno dice loro dove siamo. Gloria a questo popolo; non ha dato ai nemici una spia!



23 maggio. Sopra Parco. Dopo mezzodì.

Alla fine l’han saputo dove eravamo, e nella notte i borbonici si sono avvicinati. All’alba, in fretta in furia, fummo messi in movimento e salimmo quassù. Un buon braccio potrebbe scagliare una pietra di qui sui tetti di Parco. Abbiamo sotto di noi il Calvario e il cimitero a mezza costa; veggo le pietre sulle quali sedemmo ieri, con frate Carmelo. Quel monaco mi ha lasciato un non so che turbamento; vorrei rivederlo.

Staremo a campo qui, tutto il giorno, e forse anche domani. Che cosa si attende? Che significa questo aggirarsi intorno a Palermo, come farfalle al lume?

Maestose le rupi che abbiamo a ridosso e a destra. Indescrivibile la vista di faccia. Chi nasce qui non si lagni d’essere povero al mondo, che anche con una manata d’erba è un bel vivere, se si hanno occhi per vedere e cuore per sentire.

* * *


È giunto un giovane gentiluomo Palermitano, che all’aspetto crederei fratello del colonnello Carini. Alto, biondo, robusto come lui. Si chiama Narciso Cozzo. Venne ben armato e ci seguirà, mettendosi nella mia compagnia. Anch’egli parla della città impaziente, è pronta ad insorgere. Se la gioventù di Palermo è del suo sentire, non v’ha dubbio che non ci attenda il trionfo.

* * *


Coi cannocchiali si scoprono grossi drappelli di soldati, accampati sotto le mura di Palermo. A vederli muoversi in quel silenzio laggiù, uno dice: «Ma non verranno essi un dì o l’altro ad assalirci?».

* * *


Una colonna di regi si avanza cauta, per la pianura, sino alle falde del monte che abbiamo a destra, diviso da noi solo dal letto asciutto d’un torrentello gramo. Dalla altissima vetta della montagna si udì uno straziante grido d’allarmi, e un gran fumo montò nero dal culmine nell’aria pura e calda del tramonto. Noi pigliammo le armi. Ed ecco laggiù, laggiù, dove la pianura finisce, cominciarono le schioppettate.

Una squadra d’insorti, appiattati tra le rocce, faceva testa ai regi, che tentavano guadagnare la falda del monte. Garibaldi stette un po’ a guardare, poi fece discendere Bixio colla sua compagnia fino al cimitero lì sotto a noi; e comandò a Carini di occupare la vetta di questo colle, che, disse, sarebbe luogo di grande combattimento. Noi eravamo pronti; la scaramuccia laggiù si faceva via via più viva; sulla rupe lassù quel fumo si alzava ancora, ma sottile e bianco.

Le schioppettate a un tratto si diradarono, e la colonna che voleva forzare quella squadra di insorti indietreggiò per i campi; poi disparve nel fitto di aranci e di olivi che si stende fino a Palermo.

* * *


Si fa notte. Sovra ogni vetta di questo immenso semicerchio, si accendono fuochi fino a Monte Pellegrino; tanti, che pare la notte di San Giovanni. E Palermo li vede, e forse spera che questa sia l’ultima notte della sua servitù.



24 maggio. Piana dei Greci.

Sulla porta d’un convento, come un mendico! La città sembra desolata dalla pestilenza. Qualche cencioso gironza per le vie e chiede l’elemosina a noi. Il nostro campo è là fuori, ma oggi non allegro come gli altri giorni.

Stamane mi destai che tutti si alzavano, e in quella luce crepuscolare, pareva la risurrezione dei morti.

In fondo all’orizzonte quietava il mare plumbeo. Palermo accennava appena d’essere, contro la massa scura di Monte Pellegrino; e in faccia a noi una nebbiolina bianca da Palermo al Pioppo. Quando spuntò il sole alle nostre spalle, rovesciando lunghe per il pendio del monte l’ombre dei nostri corpi, tutto parve provasse un fremito, e ci abbracciavamo tra noi.

La nebbia sfumò. Allora si vide uscire da Monreale una colonna di soldati; avanzare densa e sicura per la via che mena a Pioppo; occuparla tutta quanta è lunga. E non finiva mai, sebbene la testa fosse già entrata nei boschi, per venire a Parco.

A questa volta verranno davvero! si diceva; e intanto i nostri del genio cominciarono a lavorare frettolosi, per costruire una batteria. Le compagnie furono schierate sulla strada.

Si aspettava in silenzio, e pareva di sentire il passo di quella schiera infinita, lontana.

La moschetteria cominciò laggiù sotto Parco. Sostennero il primo urto i Carabinieri genovesi: ma mentre tutto pareva preparato per tener fermo là dove eravamo, passò il Generale collo Stato Maggiore, colle Guide, di galoppo, un turbine, e noi subito dietro di loro a passo di corsa.

Si camminava così a rotta un tratto, poi si rallentava un poco, poi si ripigliava. Vidi molti per l’affanno buttarsi a terra disperati, altri piangevano dal dolore: qualcuno narrava che i borbonici, incendiato Parco, e rotti i Carabinieri genovesi, ci venivano alle spalle furiosi colla cavalleria, e che presto ci sarebbero stati addosso. S’aggiungeva che il nerbo di quella colonna sono Bavaresi, mercenari briachi, che vogliono farla finita. La ritirata era un lutto, e quasi pareva una fuga.

La strada che da Parco conduce qui alla Piana dei Greci, serpeggia lungo tratto in mezzo a montagne scoscese. Divorammo quel tratto sin dove, cessando di salire, la strada porta piana a scoprire questa città in seno alla valle. Trafelati, sfiniti dal digiuno, arsi dal sole, riposammo cogli occhi in questo fondo; ma a un punto stavano tre Guide a cavallo, piantate in mezzo alla via, e arrivando là ci fecero pigliare a destra il monte grigio, squallido, a petto. Altre Guide appostate su per i greppi, gridavano, per animarci, che il Generale era in pericolo: e noi a salire, a salire verso la vetta, donde s’udiva una tromba suonare la diana con angoscia.

Arrivammo a cinque, a dieci, come si poteva: il Generale era lassù da un pezzo. In faccia, su d’un altro monte, quello che sovrasta il nostro campo di ieri, i cacciatori napoletani schierati sparavano contro di noi, e i loro proiettili ci fischiavano sopra come serpenti. Alcuni Carabinieri genovesi rispondevano a quel fuoco; noi, coi nostri schioppi inutili, stavamo a guardare.

Durò quel gioco di schioppettate forse un’ora; poi i cacciatori napoletani cominciarono a ritirarsi, e sparirono di là dalla cresta della montagna.

Allora ci ritirammo noi pure, per la stessa via fatta a salire, augurando a monte Campanaro che possa sprofondare tanto giù nell’abisso, quanto sorge alto e sfacciato nell’aria.

Si dice che il generale nemico avesse ideato di varcare i due monti, sperando di far a tempo, occupare Piana dei Greci prima che noi vi arrivassimo, e di qui ributtarci, perseguitandoci fino a Palermo. Ma Garibaldi lo prevenne con miracolosa prontezza. Ora si pensa che smessa l’idea, ci verrà dietro, per la strada militare, percorsa da noi quasi fuggendo.

Ho inteso che alcuni dei nostri rimasero prigionieri al Parco, e che uno d’essi è Carlo Mosto, fratello del Comandante dei Carabinieri. Pare che sia anche ferito, e si teme che tutti saranno fucilati!



Marinco, 25 maggio.

I frati della Piana dei Greci furono cortesi. Ci diedero pane, cacio, vino e sigari, ne avessimo voluto. E ci fecero visitare il convento, e le sale dove i loro morti se ne stanno addossati alle pareti, come gente che dorma, o preghi sprofondata nel pensieri dell’altra vita. Da quei luoghi lugubri udimmo suonare a raccolta, e volando fummo al campo. Le compagnie erano già in fila, e l’artiglieria si era mossa la prima. «Arrivano i regi, saranno diecimila!». Così si diceva dall’uno all’altro, e si capiva che la nostra ritirata era decisa di nuovo. Dove si finirà?

— Ma... forse a Corleone dove ci porterà la strada percorsa dall’artiglieria. — Con questi discorsi ci ponemmo in marcia che il sole andava sotto.

Era già quasi notte, quando, abbandonata la strada militare, ci posero per sentieri angusti, in mezzo, a un bosco, zitti, umiliati, pieni di malinconia. Verso le dieci fummo fermati, e ci si comandò di coricarsi ognuno dove si trovava; vietato il fumare, il parlare, il muoversi. Mi coricai accanto ad Airenta, guardando un gran fuoco che brillava lontano nei monti; e quella vista mi ridestò la memoria dei fuochi, che s’accendono nelle mie valli, la vigilia delle sagre. Provai una passione dolcissima, e in essa mi addormentai.

Quando mi destai era l’alba. Le compagnie si ordinavano silenziose. Seppi che nella notte i regi che c’inseguono, passarono poco discosti, per la strada militare, e che le nostre sentinelle gli hanno veduti. Vanno innanzi sicuri e fidenti di raggiungerci, e ci hanno alle spalle. Ora si comincia a capire la nostra ritirata di ieri e l’allegrezza rinasce.

* * *


Mezzo nudo e mezzo coperto di pelli come un selvaggio, smunto, colla fame nelle guance e colla passione negli occhi, il povero giovinetto ci moriva addosso di voglia stando a guardarci schierati fuori del sobborgo.

— Come ti chiami?

— Ciccio.

— Che cosa fai qui?

— Sono venuto con voi dalla Piana dei Greci.

— E dove vai?

— Con voi.

— Così scalzo e malandato?

Si mise a sedere e non rispose. Gli trovammo da coprirsi e da calzarsi, e così rifatto lo pigliammo con noi. Allora, allegro che parve un altro, avrebbe voluto uno schioppo; dopo mezz’ora conosceva già tutta la compagnia e ci chiamava a nome.

— T’insegneremo a leggere e a scrivere.

— Oh!... signorino, non ne sono degno.



25 maggio. Sui monti di Gibilrossa.

Questo nome di Gibilrossa mi si accozza alla mente con quello di Gelboe mi fa parere tragico tutto quanto veggo d’intorno. Vorrei avere una Bibbia, per leggere quel canto dove è pregato, che mai più rugiada bagni i colli di Gelboe maledetti.

Malinconie fuori di luogo, perchè le nostre venture volgono a bene, e queste alture dovremmo benedirle. Tuttavia sarà prudenza non istarvi a lungo. Ci finiremmo tutti o disseccati dal sole, o pazzi. Pare d’avere in capo una cuffia di fuoco.

Dov’è andato il venticello fresco di ieri sera? Partimmo da Marineo all’improvviso che erano le sei. Sulla montagna suonavano le voci dei pastori, che raccoglievano le capre.

Eravamo fuori del borgo ad aspettare di essere messi in marcia. Passò il Generale a cavallo, e il capitano Ciaccio comandò di presentare le armi. Il Generale fece un atto di stizza, come a far capire che non era tempo di cerimonie.

Pigliammo la via che scende da Marineo nella valle profonda. Si camminava lenti e quetamente; alcuni gruppi cantavano a mezza voce. Solo un Friulano, confuso nella settima compagnia, cantava alto con una voce d’argento, quattro versi d’un’aria affettuosa e dolente, che andavano al cuore.

La rosade da la sere
Bagna el flor del sentiment,
La rosade da mattine
Bagna el flor del pentiment.

Uscii dalle file e mi avanzai fino a quel cantore, immaginandomi che dovesse essere un Osterman da Gemona, amico mio dell’anno scorso. Invece era uno studente di matematica, che si chiama Bertossi da Pordenone.

— Bertossi! Era a San Martino in un reggimento piemontese?

— Sì, — mi rispose il compagno che interrogai.

— Allora deve essere quello, che pel suo valore fu fatto ufficiale, sul campo di battaglia?

— È quello, ma non lo dire; perchè se lo sapesse se ne avrebbe a male.

— Perchè?

— Perchè è fatto cosi!

Guardai quel giovane che ha vent’anni, e, alla barba nera e piena, pare di trenta. Stentava a credere che con quella fisionomia severa fosse stato lui a cantare, ma i versi del canto non erano indegni di lui.

Che tesori di giovani in quella settima compagnia!

A un tratto, mentre era già buio da un pezzo, la colonna si fermò. Eravamo nel punto più basso della valle; si bisbigliò che la vanguardia aveva incontrato il nemico; ma per fortuna non era vero, che se mai eravamo schiacciati. Ripresa la via, uscimmo presto dalle sinuosità paurose di quel terreno, e innanzi a noi, in alto, vedemmo una miriade di luci. Era Missilmeri illuminato, a quell’ora, per farci festa. A mezzanotte vi entrammo. Non vi era casa che non avesse un lume ad ogni finestra, ma gente per le vie poca. Si seppe di La Masa e delle squadre da lui raccolte quassù numerose, e ci parve di poter riposare tranquilli.

All’alba ci raccogliemmo, e ci fu detto che entro un’ora si sarebbe pigliata la montagna, per venire qui a campo.

Entrai in un bugigattolo per bere una tazza di caffè e vi trovai Bixio d’un umore sì nero, a vederlo, che me ne tornai indietro. E andai sulla piazza, dov’era un acquaiolo che andava dondolando la sua botticella come una campana, e vendeva bevande ai nostri che gli affollavano il banco. Egli guardava quei che bevevano con certi occhi, con certo riso, che mi pareva volesse avvelenare i bicchieri. M’allontanai anche di là, e incontrai il giovanetto, che conducemmo con noi da Marineo, trionfante con una scodella di latte per me. Mi porse quel latte, colle mani che gli tremavano dal piacere di avermelo trovato.

Uno squillo di tromba fece saltar fuori da ogni banda i nostri, dispersi per le case; ci mettemmo in marcia e si venne qui. Si vede a destra un formicolio di gente: sono le squadre di La Masa. A dar un’occhiata intorno, scopriamo tutti i luoghi visitati dacchè partimmo dal Passo di Renna, un giro che par nulla e che ci è costato tanta fatica. Marineo è la, e la sua rupe, a vederla di qui, pare più minacciosa che da vicino. Se si staccasse dal monte rotolerebbe giù sul borgo, sventrandolo come un mostro.

* * *


Alfine sappiamo che il mondo esiste ancora! Eravamo nel Limbo da quindici giorni e un po’ di notizie ci parvero luce.

Dunque il Governo di Napoli ci ha battezzati Filibustieri; le sue Gazzette hanno scritto che fummo battuti a Calatafimi; che uno dei nostri capi è stato ucciso; che siamo dispersi e inseguiti, affinchè non ci possiamo buttare alle strade ad assassinare.

Queste notizie ce le hanno portate alcuni ufficiali delle navi americane e inglesi ancorate nel porto di Palermo. Un atto di amicizia che ci ha fatto gran bene. Hanno parlato col Generale, poi si sono messi a girare pel campo. Che strette di mano franche e fraterne!

Uno di loro, giovanissimo, con un par d’occhi d’azzurro marino e due mani rosee di fanciulla, schizzò alla lesta tre o quattro figure dei nostri e quella del colonnello Carini. Aveva già nell’album un capo—squadra di Partinico, che io conobbi e che mi parve un modello da farne uno Spartaco. Gli altri si mescolarono a noi raccogliendo e dando notizie. E si mostravano lieti d’averci trovati gente civile e colta.

Gli abbiamo caricati di lettere, di foglietti strappati qua e là e scritti a matita; saluti, gridi d’affetto, che essi faranno capitare alle nostre famiglie, col primo legno che salperà da Palermo. Si trattennero un’ora. Dissero che la città è una caserma, ma ci hanno fatto sperare nella buona riuscita. Si sa che hanno portato al Generale la pianta di Palermo, co’ segni dove sono barricate o posti di regi. Ora che se ne sono andati, il Generale sta a consiglio coi Comandanti delle compagnie.

* * *


Non più a Castrogiovanni, per attendere rinforzi dal continente: pochi o assai, fra mezz’ora si partirà per Palermo. Bixio lo ha detto: «O a Palermo o all’inferno!».

Il colonnello Carini ha parlato alla compagnia. Ha detto che domani l’alba sarà gloriosa, ma ci raccomandò di non romperci se saremo caricati dalla cavalleria. Intanto tutte le altre compagnie erano raccolte a circolo, intorno ai loro capitani. Si sciolsero rallegrandosi con alte grida.

Di qui al campo delle squadre, che è più innanzi, un andirivieni di cavalieri continuo. Si dice che i siciliani hanno chiesto d’essere fatti marciare i primi.