Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti/Corto viaggio sentimentale/II

Milano - Verona

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Corto viaggio sentimentale - I Corto viaggio sentimentale - III


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II

MILANO - VERONA


Ora bisognava tentare di procurarsi un posto. Intanto non era facile al vecchio signore di moversi in quel corridoio mentre il treno filava a tutta velocità, sobbalzava e percorreva certe curve in modo da far sentire al corpo un’irresistibile attrazione ora da una parte ora dall’altra. Deciso il signor Aghios si diresse al prossimo compartimento domandando scusa a destra e sinistra. E subito ebbe la prima avventura amorosa. Una graziosa giovinetta si fece in disparte, fin dove la parete lo permetteva, per fargli posto e il signor Aghios la guardò con un sorriso che volle paterno, pensando però che non sarebbe stato male se lo scompiglio in quel breve spazio l’avesse gettato su lei. Ma il movimento del treno, quasi a farlo apposta, lo inchiodò sulla parete di faccia. Continuò a sorridere alla signorina che lo guardava ansiosa con grandi occhi azzurri temendo di vedersi capitare addosso il grosso uomo malsicuro. Egli dovette procedere e allontanarsi sorridendo alle cieche forze fisiche che s’erano messe al servizio della morale. Altre volte altrettanto ciecamente avevano promosso il piacere degli uomini, come in quell’antica storiella dei due amanti chiusi da una valanga in una grotta provvista di alimenti. La sorpresa in primavera di trovare in quella [p. 33 modifica]grotta tre anziché due esseri viventi. Impossibile! Le cose per maturarsi hanno bisogno di nove mesi.

Arrivò al compartimento cui aveva mirato, ma i posti vi erano occupati ad esuberanza. Anzi, da una parte, sedevano addirittura in cinque. Fra quei cinque una donna, elegante ma non bella, con uno di quei cappelli che coprono la fronte e anche una parte degli occhi. Essa s’era un po’ stesa: Le sue gambe calzate di seta, i piedini piccolissimi in scarpine nere di lacca. Il signor Aghios, che per sfuggire alla ressa del corridoio s’era messo in mezzo allo scompartimento arrivando a tenersi alla stanga di ferro che sosteneva la rete dei bagagli, non fissò troppo la signora, perché dovette provvedere a tenersi in piedi. Ma il suo disturbo non gl’impedí di pensare che quei cappelli che coprivano la testa, la fronte e gli occhi delle donne erano seccanti. La moda era fatta dalla maggioranza e perciò bisognava ritenere che la massima parte delle donne avesse le gambe fatte bene e male la testa. Poi il movimento del treno lo fece volgere alla signora e s’accorse ch’essa aveva accondisceso al suo desiderio non manifestato e che s’era levata il cappello che le giaceva ora in grembo. No! La sua faccia non era bella, ma doveva esserlo stata. Una faccia ch’era stata alterata e consumata dalla vita, ridotta a linee rigide, prodotte da un duro scalpello, che la rendevano lunga. I capelli bruni, ricci ad arte, le coprivano gli orecchi. Ma il piedino era grazioso, piú piccolo della piccola scarpina di lacca.

Un giovinetto (il quinto su quel sedile) si alzò e offerse il suo posto al vecchio. «Grazie! Grazie! Ma perché?» disse il signor Aghios. «Posso rimanere qui.»

«Io vado in corridoio» disse il giovinetto. Non ebbe un sorriso di benevolenza pel vecchio cui usava tanta cortesia. E uscí pestando il piede alla signora che non l’aveva ritirato in tempo.

Il signor Aghios s’assise sul breve spazio che gli era stato lasciato libero accanto alla finestra. Peccato che il giovinetto (lungo, bruno, rude) non aveva accompagnato il suo dono di una parola gentile. Sarebbe stato tale un bell’esordio al viag[p. 34 modifica]gio! Tuttavia non bisognava lagnarsi, perché il viaggio in piedi non sarebbe stato adatto alle sue vecchie membra.

Per non disturbare il vicino ch’egli non aveva neppure veduto, il signor Aghios restò per qualche tempo nella stessa posizione in cui sul suo posto era caduto, la faccia verso la finestra.

Dapprima pensò alla vita in quella vettura e a quel giovinetto burbero benefico. Ecco! In certe posizioni è difficile di conservare la benevolenza. Persino ora che stava tanto meglio egli sentiva una certa antipatia per il suo vicino che lo costringeva d’aderire alla finestra. Era proprio un momento in cui si sente che l’uomo con la sua pancia, le larghe spalle e i duri gomiti è una bestia odiosa per il prossimo. È una crudele lotta quella per lo spazio. L’Aghios non volle perdere la sua gioia e relegò la sua benevolenza in un sogno perché non tutta andasse distrutta. Il treno futuro, che avrebbe trasportata un’umanità piú evoluta, sarebbe stato allungabile come sarebbe stato di bisogno e senza per questo aver bisogno di arrestarlo. Ogni vagone avrebbe comportato delle enormi possibilità. Si tocca un bottone ed i posti si moltiplicano. E cosí le Ferrovie dello Stato creerebbero dei cavalieri, anziché come ora dei villani e non ci sarebbe stato bisogno di accettare sorridendo un posto offerto villanamente.

Col naso sui vetri il signor Aghios non poté finalmente fare a meno di vedere la campagna enorme che correva via. Il raccolto era finito. I covoni di fieno s’ergevano colossali, la provvista per tutto l’anno per gli animali della cucina tanto semplice. I campi erano oziosi in aspettativa di essere incaricati del nuovo lavoro. E il signor Aghios pensò ch’egli arrivava proprio in tempo coi suoi augurii per procurare un buon raccolto. Ora cominciava a decidersi la sorte dell’anno prossimo. Occorreva subito una lunga pioggia, che poi cessi, dopo di aver ammorbidita la terra e resa disposta al lavoro. Doveva essere preparata a puntino: Né troppo dura, né troppo tenera. E gli augurii del signor Aghios piovevano abbondanti, mentre correva accanto a quei campi a sessanta chilometri all’ora e una volta con grande sforzo si volse non per [p. 35 modifica]vedere il piedino di quella signora che ancora doveva trovarsi per aria, ma per inviare gli augurii anche dall’altra parte della ferrovia: “Producete, producete in grande abbondanza, perché chi vi lavora abbia il suo premio”. Esitò poi. Ricordò la faccia triste di quel contadino che l’anno precedente gli aveva detto: «Abbiamo il vino triste quest’anno, perché ve n’è di troppo». Ma che importa? Augurare bisogna a questo mondo. Nessuno può togliere all’uomo tale diritto il cui esercizio allarga polmoni e cuore. È vero che l’augurio finisce col ricordare l’ironia di chi, allontanandosi da un tavolo di gioco, augura la buona fortuna a tutti coloro che vi restano assisi, solo che a questo mondo l’evidenza non è tale e si può sempre credere che un grande sforzo della terra benefica debba produrre del bene.

Si raddrizzò e vide il piedino per aria. Essa era la terza persona seduta dalla sua parte e direttamente non poteva scorgerne la faccia, ma s’accorse che ora poteva scorgerla riflessa in modo curioso da una lastra che copriva la fotografia. Come era bella! Completato o sminuito il deperimento suo dai riflessi del tramonto o fors’anche da qualche linea della fotografia che la lastra copriva, quella faccia era tutta pensiero e bellezza. Ricordava qualche ritratto celebre, ma il signor Aghios, che ne aveva visti tanti, non sapeva precisare quale. Era in fondo solo un ritratto e neppure molto somigliante, ma il signor Aghios era felice di viaggiare con esso.

Nel breve tempo dacché aveva abbandonato la moglie, questo era il secondo suo desiderio, cioè il secondo tradimento e anche il secondo peccato. Ogni ammirazione per una donna è un desiderio. Le si attribuisce intelligenza o dolore per rendere piú saporite quelle labbra che si vorrebbero baciare. Il peccato non gli pesava troppo. Quando si sta per arrivare ai sessant’anni — almeno il signor Aghios aveva per conto proprio tale esperienza e nella sua solitudine amava di generalizzare — si sa che il proprio organismo non è fatto per le grandi resistenze. Lo stesso fatto che anche se il peccato fosse dichiarato lecito, si peccherebbe ora meno sovente che in epoche anteriori, prova che tutto dipendeva da quello che si [p. 36 modifica]può e si deve. E il signor Aghios assurse anzi ad un pensiero altamente filosofico: Se il signor Iddio ci avesse fatti proprio allo scopo di vederci agire proprio come lui vuole, non ci sarebbe stato scopo alla creazione. Egli ci fece, eppoi stette a guardarci con curiosità e mai con ira. Perciò il signor Aghios desiderava le donne degli altri, senza averne rimorso.

Si vantava invece che, ad onta di tale desiderio, egli mai aveva tradito la moglie. Com’era stato bravo, essendo fatto cosí, di non averla effettivamente tradita. In questo momento in cui dalla famiglia si divideva con qualche rancore, ammetteva anche d’essere stato sciocco. Ma però la donna — il signor Aghios lo sapeva — non è mai a buon mercato. Vuole i denari, il cuore, la vita. Invece non costava nulla di guardarla e desiderarla e questo, certamente, era troppo a buon mercato. Perché la donna, quand’è bella, dà subito molto e in primo luogo il sentimento dell’umanità allo straniero e a tutti. Altro che il saluto scimmiesco fra sconosciuti! Bisogna trovarsi per vari mesi isolato in un paese ove si parla una lingua incomprensibile, evitati dal prossimo solo perché non vi conosce e vi sospetta perciò capace di furti e omicidii, e scoprire ad un tratto l’intimo vostro nesso con tutti costoro, la vostra appartenenza a quel paese, il vostro innato diritto di cittadinanza nello stesso alla vista di un occhio luminoso, di un piedino nervoso, di una capigliatura dal colore e dall’assetto sorprendente. Piú giovine allora, la prima sua occhiata era stata un vero proprio inizio di una relazione sociale. Un inizio entusiastico: Era come se fosse entrato nella casa di un intimissimo amico, addobbata per farvi onore, con tanto di benvenuto stampato sulla porta. Con quell’occhiata il signor Aghios diceva: “Ti conosco perché sei bella”. E l’inglesina rispondeva in lingua intelligibilissima, cioè con un’occhiata: “Come sei amabile tu cui piaccio tanto. Piú amabile di colui cui diedi tutto e che non sa piú che farsene.” Dopo un discorso simile il signor Aghios non aveva piú bisogno dell’assenzio, perché gli pareva di trovarsi nella patria ideale dove tutti s’intendono e s’amano.

Era anzi comodo che l’inglesina non sapesse altro linguag[p. 37 modifica]gio. Secondo il signor Aghios di allora, quand’era piú giovine e perciò piú virtuoso, questa era una grande comodità. Perché se alle occhiate fosse seguita la parola, si sarebbe corso il pericolo di trovarsi trasportato di colpo da quella patria ideale al bosco piú pericoloso.

Egli credeva cosí di essere rimasto sempre un monogamo virtuoso che poteva sopportare lo sguardo sincero della moglie. Essa non c’entrava nel suo mondo ideale. Il reale era tutto suo. Tutto era nettamente diviso, perché nei suoi sogni essa non entrò giammai e adesso, in viaggio, meno che mai, perché il signor Aghios volava come se il treno si fosse mutato in un aeroplano. Una sola volta a lei pensò: “Poverina! Speriamo che a quest’ora neppure lei a me pensi”.

Oltre alla donna c’erano in quel compartimento sette uomini e finora il signor Aghios non li aveva visti. Del suo vicino dovette accorgersi. Era un giovanotto pallido che si sarebbe potuto credere uscisse da una malattia, perché tradiva la sofferenza mentre il suo organismo aveva le linee di quello di un uomo forte, agile, sano. Lo spazio non gli bastava. Stendeva ora una gamba, ora l’altra sotto il sedile occupato da un grosso signore che gli stava di faccia e che guardava traverso gli occhiali con una calma serena, deciso a non fermare quelle gambe finché non l’avessero urtato. Avanzavano come se volessero finire su lui in un calcio, eppoi passavano nello spazio fra le sue due grosse gambe senza neppure sfiorarle. E il grosso uomo (il signor Aghios lo guardò ora soltanto) aveva degli occhiali dalle lenti di uno spessore sorprendente. La luce vi si frangeva e mandava sulle sue palpebre una macchia azzurra luminosa che dava alla sua faccia l’aspetto del Mefistofele del teatro lirico. E fra quell’uomo tranquillo che aspettava il calcio per protestare e l’altro, inquieto e sofferente, le simpatie del signor Aghios andarono intere al malato. Il movimento è il sollievo del corpo dolorante; si sposta come se al dolore volesse fuggire. Ora il giovinotto cercò di muoversi in altra direzione, forse perché da quella parte sentiva la minaccia di quei grossi occhiali e del loro riverbero. Guardò dietro di sé il soffice cuscino su cui [p. 38 modifica]avrebbe voluto poggiare la testa, ma cui non poteva giungere proprio causa le grosse spalle del signor Aghios. E il signor Aghios intese quel desiderio come se gli fosse stato detto e si strinse e volse in modo che quel capo stanco potesse arrivare al cuscino. Poi: «Guardi, guardi» disse con slancio, «mi metterò cosí!». Si gettò con la faccia verso la finestra e mise anche il petto parallelo alla stessa. L’altro, pronto, dopo di aver mormorato un fervido grazie, lasciò cadere la testa sul cuscino. Poco dopo la rimise sulle mani, le braccia poggiate sulle ginocchia. Ma il signor Aghios, col naso sulla lastra, non lo vedeva piú, perché ogni suo atto gentile rendeva piú vivo il suo pensiero sul lieto viaggio, come se la locomotiva si fosse messa a correre piú dolce e piú forte.

Ma pure questo pensiero non era abbastanza libero, perché egli continuava a discutere la propria libertà di amare le donne degli altri. Con chi? Non con la moglie, che nei suoi sogni mai apriva bocca, ma con quell’essere non precisabile, ma che pur deve esserci in qualche luogo, nell’etere forse che si suppone sia dappertutto, che sovraintende alla legge morale.

Oggidí era acquisito dalla scienza che le giovani e belle donne erano piú necessarie ai vecchi che ai giovani. Naturalmente, oltre che la sorpassata legge morale, perché a questa necessità sia corrisposto, c’era l’ostacolo che anche alle giovani e belle donne era concessa la libertà di disporre di sé. Forse contro ogni giustizia, perché per la loro giovinezza e per la loro bellezza esse alla libertà non sono preparate. Oggetti troppo preziosi, venivano distribuiti anche piú ingiustamente dell’oro stesso. Si conquistavano anche con un paio di mustacchi bene impomatati. Ai vecchi non si concedevano che in casi rarissimi: Gerontomania. Ma se si confermava quello che Woronoff e Stirnach asserivano? Meglio di loro, sarebbe servita a ridestare nei vecchi organismi la memoria, l’attività, la vita, una bellissima fanciulla o, piú precisamente, una bellissima fanciulla alla settimana. Già i vecchi ebrei pensavano cosí e per tenere in vita re Davide, gli offersero una bella fanciulla. Ma egli non volle toccarla e dovette miseramente perire. [p. 39 modifica]

Volle essere giusto e non appena pensò alla giustizia, il suo pensiero corse alla propria moglie. Anch’essa con la faccia tuttora fresca, l’aspetto incantevole come sulla banchina a Milano con quel nastro rosso che si moveva alla brezza vespertina, poteva dare a qualcun altro (non a lui) un po’ di vita e riceverne. Invece essa invecchiava peggio di lui, perché essa poi mancava del suo libero pensiero. Poverina! Non era però suo l’ufficio di darle tale pensiero. In passato egli invece aveva fatto del suo meglio per toglierglielo. Anzi, appena sposati, la sua morale era stata dura e imperiosa. Che rimorso! Non bisogna mai sgridare nessuno, perché poi ci si pente. L’altro resiste ed è male. Cede o si foggia secondo il nostro imperioso volere ed è peggio ancora. Ma se invece in lei tale pensiero fosse ora altrettanto libero che da lui? Poteva essere che, come essa non l’indovinava in lui, cosí lui non lo scoprisse da lei. Sarebbe forse anche lui apparso a lei miserevolmente credulo e perciò gelido, inerte? Se egli avesse potuto istruire suo figlio ossia se suo figlio da lui avesse accettato qualche istruzione, egli, al momento in cui avesse preso moglie, gli avrebbe raccomandato: “Non istruire troppo tua moglie e non foggiarla a modo tuo, perché può avvenire ti riesca”.

Suo figlio l’avrebbe guardato con quel suo aspetto glaciale che poteva anche manifestare un rispetto e avrebbe pensato: “Presuntuosi questi vecchi. Credono tutti fatti come loro e a tutti raccomandano i purganti che fanno per loro”. Aveva già detto cosí una volta ed il male era che allora aveva avuto ragione. Allora e poi mai piú, ma il vecchio aveva ragione di credere che la frase venisse ripetuta molto di spesso.

Ricadeva nel rancore! Non apparteneva a quel treno1 ed egli respinse i fantasmi della moglie e del figlio. Egli voleva fare la vita sua, cioè il suo viaggio.

Il treno si fermò ad una stazione non importante, di cui l’edificio doveva trovarsi dall’altra parte. Dalla parte sua, nell’erba, c’era una quantità di polli che continuavano a razzolare senza quasi accorgersi del treno che in questo momento [p. 40 modifica]s’era fermato accanto alla loro casa. “Come sono saggi costoro!” pensò il signor Aghios. “Questo treno a ore fisse appartiene alla loro vita. Penseranno sia sempre lo stesso.” Poi ricordò che neppure fra uomini ci si intendeva, se non ci si spiegava, com’era da lui e sua moglie, con quel pensiero libero e superbo, ma segreto che com’era da lui poteva essere anche da lei e, con grande piacere, si dedicò a studiare quello che i polli potevano pensare della loro relazione con l’uomo. Gli pareva che uno dei polli dall’erba gli gridasse: “Guai a noi se l’uomo non ci fosse”. E il pollo doveva essere certo della benevolenza del padrone, che gli procurava il buon becchime, che, quando ne era sgozzato, se ne andava da questo mondo con la convinzione che l’uomo suo amico doveva essere ammattito.

Ora s’accorse di stare piú comodo. In quella piccola stazione il loro compartimento s’era addirittura vuotato e non vi restavano che in quattro. V’era sempre ancora il forte giovanotto pallido, che aveva approfittato di conciarsi nel cantuccio piú lontano dal signor Aghios e sdraiarvisi allungando le gambe. Di faccia a costui c’era un signore che s’era procurato un giornale in cui ficcava il naso in modo che il signor Aghios non poteva vederlo in faccia. Proprio di fronte al signor Aghios era rimasto anche il grosso signore dagli occhiali di tante diottrie.

Mancava l’unica signora che c’era stata. Anch’essa era scesa a popolare la piccola stazione. Senza quel piedino che s’era tenuto alto in quell’adunanza, i quattro uomini rimasti avevano perduto ogni contatto fra di loro. Erano divenuti dei veri stranieri scialbi e muti.

Il signor Aghios per un istante guardò il suo vis-à-vis. Scoperse poi che anche dietro di costui c’era una lastra che copriva una fotografia e nella quale egli scorgeva la propria testa, chiara come in uno specchio. Si analizzò accuratamente. Irrimediabilmente vecchio con quella fronte troppo alta ed i mustacchi non curati, un po’ troppo gonfi. I mustacchi erano la prerogativa degli animali che s’annidano nei buchi (cosí aveva detto quella canaglia di suo figlio); devono servire ad [p. 41 modifica]avvisarli quando il buco si restringe e arrestarli dal pericolo di strangolarsi. “Ho io l’aspetto di bestia?” si domandò il signor Aghios esaminando le proprie fattezze. E lui e la sua immagine si guardarono sospettosi. Questi, sí, ch’erano rapporti semplici! Era l’unico caso in cui guardando una fisonomia si sa con piena certezza quello ch’essa esprima. Eppure quella fisonomia conservava il suo aspetto di bestia mustacciata, avvilita allo scorgersi meno bella, mentre era vero che il signor Aghios si sentiva gonfiare il petto dalla superbia di aver scoperto in quel momento quale fosse l’unico rapporto intimo in tutta la grande vasta natura. Solamente dubitava! Anche quello mancava? E corrugò tutta la propria faccia: Un gesto di disprezzo alla propria fisonomia che gli fu prontamente restituito.

Il signore grosso lo guardava, anche lui diffidente, con gli occhi ingranditi dalla lente. «Io credo» disse levando il fazzoletto di tasca «d’essermi imbrattata la faccia con l’inchiostro della macchina da scrivere.» E arrossí. Doveva essere un timido.

«Oh! no!» esclamò confuso il vecchio, che guardò la macchia bluastra dagli occhiali sotto gli occhi del suo interlocutore. «Io guardavo me stesso in quella lastra. Ho uno strano aspetto io, in viaggio.» E guardando meglio le guancie accuratamente rasate del grosso uomo, offuscate dal pelo denso della barba, aggiunse mentendo: «Non v’è traccia di macchie sulla sua faccia».

Mentiva. Bastava indirizzarsi fra uomini una sola parola per correre il rischio di dover dire una menzogna. Si era nella verità fra sconosciuti soltanto. La macchia bluastra, non raggiungibile dal fazzoletto, perché vagante secondo le rifrazioni della luce, c’era su quella faccia, ma non bisognava parlarne. Perciò anche in viaggio si perdeva la propria libertà. Come di tutte le cose, anche del viaggio la parte piú bella era l’inizio. Partendo si correva via immediatamente liberi dal groviglio di affari e affarucci che gremivano la vita. Per un istante si respirava liberi. Non si serviva da puntello a nessuno e nessuno piú vi puntellava. Ma però con la prima [p. 42 modifica]parola gentile non meritata (la macchia su quella faccia c’era!) avveniva la ricostruzione del puntello che impacciava i movimenti. Si dava e si domandava l’appoggio. “Nessuno mi dirà ch’io abbia parlato cosí per far piacere a quel coso grosso. Parlai cosí perché sto meglio se dico cose gentili”.

Il coso grosso disse anche lui una cosa gentile: «Io non so perché ella dica di avere un aspetto strano. Non vedo in verità. Davvero non vedo!». Scandiva con pedanteria le sillabe. Era un altro puntello che si cacciava sotto la spalla del signor Aghios. Però aveva sofferto quando la buona creanza l’aveva obbligato di costruire lui l’appoggio all’altro dicendo una menzogna. Ora invece si sentiva sollevato dalla gentilezza che riceveva. Rientrava con un sospiro di sollievo nel consorzio umano, non accorgendosi che anche quel puntello poggiava su una menzogna di cui non sentiva dolore, non avendo potuto inventarla lui. Eppure avrebbe dovuto ricordare che poco prima la propria faccia gli era apparsa strana, anzi, bestiale, con quei mustacchi grossi.

Ringraziò e avrebbe volentieri attaccato conversazione con chi gli aveva regalato un complimento. Ma non trovò l’argomento. Le prime parole che avevano scambiate vertevano su una parte del loro corpo. Continuando cosí si correva il rischio di somigliare ai cani.

Il signor Aghios guardò con desiderio verso il corridoio ch’era tuttavia affollato e ove si fumava, ciarlava e rideva. Avrebbe scommesso che la sua bella fanciulla dagli occhi azzurri c’era sempre ancora; altrimenti non ci sarebbe stata tanta gioia e gli uomini sarebbero venuti a sedere nel compartimento semivuoto. Per poltroneria, malgrado il desiderio, non si mosse. Nel momento di stornare l’occhio dalla porta s’avvide che un’animata conversazione s’era sviluppata nell’altro canto della vettura. Uno dei giovini, quello ammalato, si teneva penosamente teso verso il suo interlocutore per arrivare a sentirlo e aveva nella sua faccia emaciata tutta l’espressione di persona che viene costretta ad una fatica spiacevole.

L’altro invece doveva gustare molto l’occasione di tenere [p. 43 modifica]una predica. Era un ragazzo circa dell’età del figlio del signor Aghios. Era biondo come lui e con lui aveva un’altra somiglianza che stupí il signor Aghios. Parlava proprio di una cosa di cui il signor Aghios aveva recentemente sentito parlare dal figlio suo. Anche in viaggio si poteva scontrarsi nelle cose note che ingombravano la casa, perché la moda funestava nello stesso tempo le case e i treni. Lo studente parlava dell’origine delle malattie nervose e della cura delle stesse mediante la psicanalisi. Il signor Aghios sentí solo queste parole: «La malattia ha la sua prima origine in una ferita morale ricevuta nella prima infanzia e di cui, per non soffrirne, si soppresse il ricordo. Per avere tale importanza, tale ferita deve essere stata inferta proprio nella prima infanzia».

Tutto questo il signor Aghios già sapeva. E quando il figliuolo suo gliel’aveva detta con aria dottorale, come se fosse stata scoperta da lui, il signor Aghios aveva mitemente consentito. Anche lui vedeva che la ferita fatta in un organismo nel suo sviluppo si moltiplicava con lo sviluppo. Poi l’ignoranza del bambino, dava all’offesa una importanza enorme. Ora, invece, nella libertà del viaggio il signor Aghios si ribellò. Come si poteva asserire una cosa simile? Ogni ferita doleva ed ogni ferita — se ne aveva il tempo — incancreniva e si dilatava. Non soffriva lui, a quasi sessant’anni, di ogni offesa altrui e di ogni proprio dubbio? La carne, composta di tanta parte di liquido, era sempre poco resistente e l’ignoranza poi ci accompagnava fino all’ultimo alito, grande abbastanza per indurci a concedere importanza a tutte le cose che non ne hanno veruna e farcele sentire pesanti, affannose, origine di malessere e malattia. Certo, il tempo ci voleva e il piú lungo tempo è quello che trascorre dall’infanzia alla morte. Perciò si potrebbe dire che le avventure dell’infanzia sono le piú lunghe e solo perciò le cattive avventure le piú pericolose. S’avverano piccole nei piccini e s’evolvono a grandi per affliggere gli adulti.

E il giovanotto continuava a dire: «Una seconda avventura può aggiungersi piú tardi ad inacerbire la prima, ma mai può assurgere ad un’importanza per sé». [p. 44 modifica]

Qui, ad onta della sua lontananza dal predicatore, la quale avrebbe dovuto impedirgli d’intervenire anche per il rumore assordante del treno, il signor Aghios s’apprestò ad urlare la sua protesta. Aveva taciuto col figliolo suo, ma qui non c’era ragione di tacere. Ci si trovava nella grande libertà del viaggio.

Ma in quel momento il giovanotto sofferente, che aveva provato delle difficoltà per stare a sentire, si lasciò ricadere sul cuscino dietro di sé, allontanandosi da chi gli parlava e disse: «Ne parlerò col medico condotto». Era stanco e si coperse gli occhi. La posizione faticosa gli aveva dato il sentimento del mal di mare.

Il predicatore apparve per un momento stupito e offeso. E il signor Aghios dovette trattenersi per non ridere. Parlare di cose simili col medico condotto? Certo il predicatore non era medico, ma non era neppure medico condotto e credeva perciò di avere un maggiore diritto di parlare di scienza.

Poco dopo il giovanotto si levò, prese a mano la sua valigetta e uscí sul corridoio per essere pronto ad abbandonare il treno alla prima fermata. Alla fermata il signor Aghios lo seguí per guardare due cose. Prima di tutto volle vedere se il giovanotto veramente scendesse o se avesse voluto abbandonare un luogo ove era stato posposto ad un medico condotto. Scendeva realmente in una stazioncella piccola e il signor Aghios lo seguí con l’occhio come si moveva lento e sicuro e spariva nella casuccia, la porta del piccolo luogo per la quale entrava cosí la grande scienza della psicanalisi. Poi il signor Aghios guardò nel corridoio sperando di rivedere la giovinetta dagli occhi azzurri ch’egli era stato in procinto di abbracciare. Non c’era. Che cosa facevano dunque tutti quegli uomini in piedi? Essendo uscito sul corridoio il signor Aghios volle darsi un contegno e accese una sigaretta in mezzo a quegli uomini che, in piedi, aspettavano di arrivare alla meta. Egli non ambiva di parlare con loro, perché sul corridoio si sentiva come sulla via. Non era nella propria società, cioè nel proprio compartimento. Guardò fuori della finestra e cominciò a contare i pali del [p. 45 modifica]telegrafo come andavano via. Poi, per lungo tempo, non li contò piú e fu consapevole di essere rimasto nel piú assoluto riposo di pensiero a guardare senza vedere. I pali e la campagna o una parte di vita fuggono senz’essere visti o sentiti. Quando ritornò in sé, dubitò che una cosa simile possa esistere, ma non ricordò che ci fosse stato, in quello spazio di tempo, il menomo movimento della memoria o del pensiero. E forse, a riprova del riposo assoluto avuto, ridestandosi il signor Aghios giunse al suo mondo con un giudizio sintetico: “Io sono un vecchio che non amerebbe nessuno e da nessuno sarebbe amato se non ci fossi io stesso che amo e da cui sono amato”. Bisognava rischiarare il mondo a cui egli ritornava. Sorrise, perché non ci fu amarezza. Le cose erano cosí e ne risultava una situazione comoda come la sua età esigeva. Poi la sua asserzione andava attenuata: Non si poteva dire ch’egli amasse qualcuno, ma egli amava intensamente tutta la vita, gli uomini le bestie e le piante, tutta roba anonima e perciò tanto amabile. Anzi, se fra gli uomini non ci fossero state anche le belle donne, egli avrebbe potuto aspettare la morte con la serenità di un santo. E finita la sigaretta, ritornò al suo posto con la coscienza di aver chiuso un viaggio lontano, inserito nel corto viaggio che s’era appena iniziato. Era stanco di quel viaggio e s’assise con un respiro di soddisfazione.

Il suo vis-à-vis intendeva certamente d’annodare discorso, perché teneva in mano un mezzo toscano e gliel’accennò guardandolo supplice coi grandi occhi rischiarati dagli occhiali: «Lei è uscito sul corridoio per fumare, ma visto che il signore già me lo permise, avrebbe niente in contrario di lasciarmi al mio posto a fumare questo mezzo toscano?».

Grande cosa il fumo! Specialmente in un compartimento per non fumatori. Ecco che la vita sociale per esso s’iniziava anche fra sconosciuti, come dai cani, sebbene meno entusiasticamente.

Con eguale gentilezza il signor Aghios consentí e volle essere piú gentile ancora, aggiungendo alla gentile parola un atto gentile. Per quanto non ne avesse voglia, avendo fumato [p. 46 modifica]giusto allora, trasse di tasca un’altra sigaretta e disse sorridendo: «Del mio permesso profitterò anch’io». Poi, però, non trovava gli zolfanelli. Doveva rovistare tre tasche del soprabito, tre della giubba (non quattro perché quella interna di petto il signor Aghios trovò tanto gonfia che subito ricordò che v’erano i denari), due del panciotto e due dei calzoni. Intanto il grosso signore fu anche una volta molto gentile e gli porse uno zolfanello acceso.

Addirittura commosso, il signor Aghios ringraziò. L’altro gli sorrise, ma nulla rispose essendo occupatissimo col suo toscano che doveva essere un poco umido.

Poi, però, la conversazione si ravvivò perché il signor Aghios, avendo ricordato che sua moglie sempre diceva che le donne ne avevano troppo poche di tasche e gli uomini di troppe, si mise a ridere ad alta voce e dovette dare una spiegazione della sua ilarità.

Il grosso suo compagno di viaggio rise, ma piuttosto per compiacenza che per proprio bisogno. Poi protestò. Non vedeva la giustezza dell’osservazione: «Io so sempre tutto quello che ho in ogni singola tasca. Vuole il mio biglietto? Eccolo! Il mio specchietto? Gli occhiali per leggere?». Anche quelli erano grossissimi. Aveva grande ordine, forse necessario con quegli occhi difettosi. Aveva un mondo di cose quel signore, come un armadio ambulante e tutte al loro posto. L’idea era buona di tenere tanto ordine nelle tasche ed il signor Aghios si propose di adottarla. Anzi avrebbe messo in una delle tasche un bel registro contenente la pianta delle tasche con l’enumerazione degli oggetti contenutivi. E pensò con buon umore e senza risentimento, che il suo nuovo amico non aveva fatto vedere il portafogli. Anche lui non aveva toccato quella tasca. È un bel sentimento quello di sentirsi furbi.

Poi, per rassicurare anche meglio quel signore ch’egli non aveva riso di lui, il signor Aghios escogitò una gentilezza da usargli. Ricordò ch’era il vanto di tutti i fumatori di toscani di saper sopportare tanto veleno. In verità egli non sentiva tanta ammirazione, perché sapeva che il fumo del to[p. 47 modifica]scano non si usava lasciar andare ai bronchi e polmoni, ma si espelleva subito, non appena avutone in bocca il sapore. Ma valeva bene la pena di dire una bugia per garantire intorno a sé tutta la necessaria gentilezza. E disse: «Come fa lei a sopportare tutto quel veleno?».

Curioso! L’altro non sentí tali parole quali un complimento. «Non credo di avvelenarmi piú di lei con le sue Macedonia. Lei ne gettò via una or ora e ne ha già accesa un’altra. Questo è il terzo mezzo toscano che fumo oggi e fino a questa sera, dopo il pasto, non fumo altro. So come vada con le Macedonia. Scommetto che lei ne fuma una quarantina al giorno!».

Non era vero. Questa ch’egli aveva in bocca, il signor Aghios l’aveva accesa proprio a scopo sociale, altrimenti egli avrebbe saputo restarne senza per lungo tempo. Ma la gentilezza! Mentí una seconda volta assentendo, ma ne fu subito consapevole.

Strano! Con gli sconosciuti si mentiva disordinatamente, senza un vero scopo. Con lo sconosciuto non c’era mai un vero accordo. Anche con chi intimamente si conosceva c’era spesso la stonatura, ma non cosí. Cosí era un gridío discorde, come nelle orchestre quando ogni singolo suonatore tocca lo strumento per provarlo, sentirlo e regolarlo. La menzogna con coloro che ci conoscevano s’adattava a tutte le circostanze per essere piú credibile. Nel treno che correva era suggerita dal capriccio, mancava dello sforzo consapevole ch’era un fine lavoro mentale. Il signor Aghios si toccò la bocca per frenarla e toglierle quella libertà. Egli voleva traversare il mondo serio, serio, non falsificandolo con parole che somigliavano ai sassi che il monello gettava per il solo bisogno di moversi, senza preoccuparsi dove andava a finire, magari nell’occhio del prossimo. Era dunque piú difficile di saper muoversi con dignità fra sconosciuti e a lui era toccato di sbagliare perché poco uso alla libertà, come quei cani di catena che appena liberi guastano il giardino.

Ma c’era dell’imbarazzo nel suo animo e il signor Aghios, per moversi e svincolarsi, aperse il finestrino e comperò un [p. 48 modifica]arancio. Una lira! Egli non aveva fame, perché aveva mangiato poco prima di lasciare Milano. Ma non era male di avere un arancio in tasca per l’eventualità di essere colto dalla sete. Una lira, una lira intera!

Il fumatore di toscani era sempre occupato a tirare e sotto ai grossi occhiali gli occhi loscavano per veder meglio il sigaro. Tuttavia doveva aver seguita la transazione fatta dal signor Aghios perché mormorò: «Un arancio una lira. Almeno con questo prezzo non c’è da perdere tempo. Si dà la lira e non c’è resto».

«Né arresto del treno» disse il signor Aghios, pensando subito che con gli sconosciuti si dicevano piú parole inutili che con gli amici. Allora si avrebbe dovuto tacere?

Non aveva scrupoli l’altro, perché si mise a parlare abbondantemente dei prezzi bassi di cui si aveva goduto nella sua infanzia. Accarezzava quei prezzi bassi come se fossero stati suoi cari congiunti decessi. E, ad onta degli scrupoli ch’egli aveva interi, anche il signor Aghios parlò di sue lontane rimembranze. Dopo le prime parole si trovò trasportato in tutt’altra epoca, quasi dimenticando che s’era mosso per riscontrare dei prezzi.

Una luminosa mattina di agosto sulla bella strada che va da Tricesimo alla Carnia. Lui e un suo amico, un pittore, in una carretta tirata da un cavallo, che ha il vizio ad ogni tratto di rallentare il passo per sentire meglio quello che si dice nel veicolo cui è legato. Non vi sono frustate, perché nella vasta verde campagna friulana, tra quelle colline che si sporgono cariche di alberi, nella quiete della mattina soleggiata, l’ira stonerebbe. I due giovini, nella loro gioia, sono buoni e amano il cavallino che insieme alla carretta, per una giornata intera costa due lire.

«Non è molto, ma neppure tanto poco», disse dottoralmente l’altro. «Anche oggidí in Brianza, ma d’inverno...»

Il signor Aghios subí tranquillamente l’interruzione. Egli era ora col pensiero tutto in un piccolo luogo della Carnia, Torlano, ai piedi della Carnia, un luogo che a lui, che allora era capitato per la prima volta in una parte nuova del Friu[p. 49 modifica]li, sembrava non friulano e neppure italiano. I tetti delle case erti, vicini alla perpendicolare, sembravano fatti per coprire delle case nordiche. Il signor Aghios non ricordava dettagli, ma ricordava tutto l’insieme nitido sorridente, con tanto colore italiano sulle linee quasi gotiche. Accanto a lui, il pittore guardava con gli occhi semichiusi e ambedue associavano la loro ammirazione, la società piú intima umana. C’era anche un ruscello, imponente per certi strati azzurri nell’acqua qua e là profondissima e per la foga dell’acqua, viva per la sua recente caduta di montagna. E di tutto questo il signor Aghios tacque, perché non era cosa che appartenesse al signore dai grossi occhiali.

Ma gli raccontò che in quella perla del Friuli lui e il suo amico andarono a rassodare il loro entusiasmo ad una merenda. Fu una merenda a periodi. Dapprima un latte squisito, tinto da un po’ di caffè e pane casalingo ancora caldo e un burro autentico, un po’ ingenuo e aspro. L’appetito aumentò e, vennero due uova al tegame. Poi un po’ di salame tenerello, perché anch’esso nato appena e non ancora cristallizzatosi nel nuovo assetto. E giovine anche il formaggio che seguí, e il vecchio signor Aghios sapeva che il formaggio vetusto è buono, ma che il giovanissimo ha pure i suoi pregi. La merenda fu chiusa da una bottiglia di vino di Torlano. Oh! il vino di Torlano! Giallo e luminoso di luce propria e vivo come l’acqua di Torlano, scesa allora allora dalla montagna. E il vecchio s’incantò a ricordare quella roba giovine e quel vino vecchio (aveva tre anni, di quegli anni lunghi della montagna) e la propria fresca gioventú resa geniale dal grande pittore triestino, sparito tanto presto e che guardando il ponte di Torlano sapeva come Manet l’avrebbe ritratto. Ma a Torlano, dove la montagna incombeva, il ponte non avrebbe potuto restare solo e giganteggiare. Tutto era sparito. Era impossibile che Torlano esistesse ancora, quand’era morto il pittore che l’aveva baciato, e lui era là molto simile a quanto era stato, ma non piú simile di una fotografia ad una cosa viva. Ed ora, che guardava indietro, era immobile come una fotografia. Pare che ricordare non sia una [p. 50 modifica]vera azione. Il ricordo lo si subisce immobile. Chi ricorda e chi è ricordato s’immobilizzano.

Il suo compagno lo richiamò al movimento del treno. «E il conto fu piccolo?» E infatti il vecchio sentí, ritornando in sé, la spinta del treno che lo fece piegare per innanzi.

Aghios sorrise. «Non basta ancora. Anche il cavallo ebbe la sua merenda: Granturco, perché non c’era avena. In un cortile vasto (lo spazio a Torlano non manca) fu lavata accuratamente la carretta ch’era sudicia, perché, essendo stata guidata dal pittore, aveva finito talvolta fuori della strada carrozzabile.»

«Ebbene!» disse il grosso uomo. «Io scommetto d’indovinare a quanto ammontò il conto. Due lire o, tutt’al piú, due lire e cinquanta.»

«Ella sbaglia di una lira intera» disse il signor Aghios.

L’altro fece atto di non credere. Parve anche fosse in procinto di protestare. Poi s’accontentò di far conti e mormorò: «Due tazze di latte, pane à volonté... quattro uova al tegame... due formaggi. Una lira e cinquanta a me pare poco».

Al signor Aghios, che pur tanto amava la sincerità, la protesta dell’altro parve scortese e anche imprudente. Che cosa poteva lui saperne dei prezzi di Torlano nel milleottocento e novantatré?

E brevemente aggiunse: «Io fui tanto stupito di tale conto, che proposi al pittore di dare una lira intera di mancia, nel quale caso la merenda avrebbe costato proprio quello ch’ella dice. Ma il pittore m’ingiunse di dare solo venti centesimi di mancia, perché pretese che altrimenti il mondo si guastava. Io feci come egli disse. Cosí truffai Torlano e, tuttavia, come si vide, il mondo si guastò».

Meno male che il suo interlocutore a quest’osservazione dell’Aghios vivamente assentí ed anche rise, perché una constatazione molto giusta fa sempre da ridere. Volle però aggiungere la sua pezzetta e disse: «Chissà se anche Torlano è tanto guasta?».

«Io spero di no» disse l’Aghios fervidamente. E non pensò ai prezzi, ma a quell’acqua bene incanalata che cantava la [p. 51 modifica]sua mite canzone a quel ponte e a quelle case grandi abitate da gente semplice, ma nutrita di buone cose.

I due s’erano ormai fatti abbastanza intimi e si presentarono. «Ragioniere Ernesto Borlini.»

Il Borlini si stupí nel sentire il nome dell’Aghios. «Greco?»

«D’origine, ma lontana.» Era da lungo tempo che l’Aghios non pensava al suo nome greco perché chi lo conosceva accettava quel nome come se fosse stato italiano. Certo nella sua vita, causa quel nome, spesso egli aveva rovistato nel proprio animo curioso di scoprirvi qualche cosa del piú geniale dei popoli. Tante volte aveva analizzato qualche propria parola per vedere se poteva considerarla arrivata da paesi lontani e tante volte aveva accarezzato una propria idea come sorprendente, nata in un cervello atteggiato altrimenti dai cervelli dei suoi vicini. Adesso pensò: “Se l’origine valesse qualche cosa, io, dunque, mi troverei in viaggio tutto l’anno”. Ma molta sua superbia era sparita dacché egli aveva accanto il figliuolo che ne sapeva piú di lui.

Rapido il pensiero del vecchio si ripiegò su se stesso. Subito egli dovette ridere. Somigliava egli a Dante o a Omero? In complesso non c’era niente da perdere scegliendo una nazione o l’altra. Umiliato dal proprio riso, passò a considerare le tabelle statistiche. Delitti passionali e fazioni da una parte e dall’altra. Nulla da guadagnare mettendosi di qua o di lí. Eppoi quanti italiani non erano greci senza saperlo? No! No! Anche lui, per trovarsi in viaggio, doveva pagare il biglietto ferroviario.

«Ho piacere ch’ella non sia greco!» disse il Borlini. «Io, i greci, non li posso soffrire.»

L’Aghios ebbe una smorfia d’imbarazzo. Che cosa poteva dire a quel grosso uomo che in quel momento gli aveva serrata la mano e che subito gli dichiarava che metà del suo organismo gli era odiosa? Il signor Aghios si rassegnò a pensare: “Se tu odii i greci io me ne infischio. Di te non so che il nome, Borlini, e m’è odioso perché lo porti tu”. E tacque. Non occorreva abbandonare la propria famiglia per litigare.

I due cominciavano a conoscersi ed era una intimità. Im[p. 52 modifica]provvisamente il signor Aghios fu nettato dal suo disgusto da un suono strano, nuovo, che interrompeva le tre, quattro o piú note prodotte dal procedere del treno. Il giovinotto, nel cantuccio, ch’era rimasto immoto con una mano sugli occhi, emise un vero gemito. Il gemito è veramente un suono d’intimità. Tutta una via cambia d’aspetto se un suono simile vi è emesso in modo da esser sentito. L’indifferente viandante s’arresta e pensa: “Oh! poverino! Guarda quello che gli accade e può domani accadere a me che ogni giorno passo per questa stessa via”.

L’Aghios e il Borlini, stupiti, guardarono il gemente. Troppo a lungo tacquero e ciò rese accorto il giovanotto che lo si osservava. Levò la mano dagli occhi e guardò i due compagni di viaggio. Lo guardavano, il Borlini proprio chino per innanzi per accostarglisi meglio.

«Sta forse male?» domandò l’Aghios, subito fraterno.

«Perché?» domandò il giovanotto stupito. Aveva dei begli occhi bruni sotto una chioma quasi bionda.

«Scusi tanto!» disse l’Aghios. «Ha sognato forse e ha emesso un gemito.»

«Può essere» rispose il giovine. «Ciò mi avviene talvolta. Mi scusino. Io non sono malato. Pensavo a certa mia sventura e perciò gemetti. Mi compatiscano.» Chiuse gli occhi e si riadagiò nel suo cantuccio. Poco dopo trasse a sé la tenda e se ne coperse il capo. Voleva una grande oscurità quel disgraziato, perché nella vettura la luce era scarsissima. S’era già al crepuscolo, eppoi il cielo s’era coperto.

Il signor Aghios continuò a guardarlo. Oh! quanto avrebbe desiderato di poter lenire il primo dolore in cui s’imbatteva in quel suo viaggio. Un gemito, poi, è il suono piú familiare che un uomo possa indirizzare ad un altro. Lo s’intende subito. È piú intelligibile di una parola, perché sfuggito all’organismo che lo formò e non lo volle come tutte le sue funzioni. Cosí il polmone respira e il cuore batte. E il suono va direttamente al cuore degli altri che sanno anch’essi formarlo e perciò l’intendono.

Invece il Borlini guardava il dormente con quei suoi [p. 53 modifica]occhi rotondi sotto agli occhiali, con piena, grande diffidenza. Quando avvenne la solita rivoluzione all’arrivo a Verona e la gente di tutto il vagone si mosse, uscendo a prendere aria sulla banchina della fosca stazione o per restare nella piú luminosa delle città, il giovanotto si destò, si levò e uscí sul corridoio a guatare la penombra, la fronte poggiata sul vetro della finestra.

Il Borlini si chinò all’Aghios: «Chi geme in pubblico, si prepara a domandare dei denari in prestito».

Era una gentilezza e l’Aghios sorrise per ringraziare, ma non sentí gratitudine. Se si doveva guardare con diffidenza un uomo che gemeva, allora si faceva meglio di restare celato fra le proprie pareti e non moversi. Sentire un gemito e diffidare? Solo diffidare? Era proprio come chi si mette a correre sentendo chiamare aiuto, perché il grido è in sé un avvertimento di pericolo.

Il giovanotto ritornò al suo posto e si sdraiò nel suo cantuccio proprio nella posizione di prima. Intanto il signor Aghios intese ch’egli non poteva soccorrerlo neppure con una parola. La buona educazione imponeva cosí. Quando si sorprende un gemito si deve fingere di non averlo sentito. Non per niente si era un gentiluomo. Tutto doveva continuare come se il gemito non fosse stato emesso. «Non devi intrudere» ammoní se stesso il signor Aghios.

Note

  1. Nel ms. «Non apparteneva in quel treno...»