Commemorazione senatore Tommaso Tittoni

Senato del Regno d'Italia

1931 Commemorazione senatore Tommaso Tittoni Intestazione 1 dicembre 2015 25% Da definire

Atti Parlamentari - Commemorazione

Federico Federzoni, Presidente

Fra le molte luttuose perdite che hanno colpito il Senato durante l'ultima interruzione dei nostri lavori, particolarmente dolorosa per l'Assemblea e per ciascuno di noi è stata la scomparsa di Tommaso Tittoni. In quest’Aula, ove si svolse tanta e così cospicua parte della sua attività parlamentare, e nella quale, senatore, ministro, presidente, egli ebbe a pronunziare tanti memorabili discorsi, resterà perenne e venerato, col ricordo di lui, l'esempio della sua saggezza, del suo amore al bene pubblico, del suo patriottismo.

Nessuno più felicemente di Tommaso Tittoni visse e, se posso dire, incarnò la transizione da un tempo a un altro tempo della politica italiana. Discepolo di Quintino Sella e di Marco Minghetti, aveva derivato dal primo la predilezione dei problemi concreti e il disdegno di ogni concessione alla retorica, dal secondo l'aspirazione agli orizzonti vasti della vita nazionale e internazionale e il gusto della cultura umanistica, inesauribile tesoro di sapienza e di virtù animatrici. Benché sceso sul terreno dell'azione in mezzo a una generazione dominata da avverse correnti, egli era rimasto fedele alle idee fondamentali di quei maestri. Anzi, in un momento di massima confusione di partiti e programmi, aveva saputo restituire efficacia e prestigio alla tradizione della vecchia Destra, dimostrando di esserne l'estremo diretto erede. Quel sereno equilibrio del suo temperamento tipicamente romano, composto e quasi stilizzato dall'educazione inglese, non lo aveva distolto dall'affrontare con fervido vigore la lotta per la difesa di principi allora apertamente conculcati in Parlamento e non di rado praticamente compromessi dalla stessa opera dei Governi: la sovranità dello Stato, l'osservanza rigorosa della legge, il rispetto della coscienza religiosa del popolo italiano, la tutela delle iniziative economiche, la giustizia fiscale, il criterio di responsabilità nelle relazioni con gli altri Paesi, la protezione e lo sviluppo degli interessi esteriori della nazione. In qualche ora tempestosa dei contrasti parlamentari sul principio del secolo, il nome di Tommaso Tittoni era apparso segnacolo in vessillo di quella frazione del liberalismo che aveva ancora il coraggio di affermarsi conservatrice; e perciò era stato oggetto di odi veementi, dai quali aveva ritratto soltanto maggiore autorità. Ma egli poteva ben dirsi un conservatore illuminato il quale, possedendo sopra tutto il senso della continuità storica, era adatto a intendere e accettare la novità di aneliti e impulsi che mirassero, non già a fare del mito del progresso democratico il fulcro di un indefinito avvenire, bensì a condurre stabilmente la patria allo spirito della sua storia.

Voi ricordate, onorevoli colleghi, le fasi principali dell'attività di Tommaso Tittoni, talune delle quali corrispondono a periodi importanti della politica italiana e della vita di questa medesima Assemblea. Deputato di Roma e poi di Civitavecchia dal 1886 al 1897, successivamente prefetto del Regno per oltre cinque anni, nominato senatore il 25 novembre 1902, egli doveva lasciare la prefettura di Napoli per il Ministero degli affari esteri, al fianco dell'onorevole Giolitti, il 3 novembre 1903, rientrando così nella politica militante per assumervi inaspettatamente una posizione di primo piano. Inaspettatamente, ho detto, per i molti che ancora non avevano potuto misurare il valore e la preparazione del giovane uomo di Stato. La sua nomina a ministro era stata aspramente censurata dalla stampa dell'opposizione, per manifesta suggestione di coloro che egli come prefetto aveva combattuti e che ragionevolmente segnalavano quale temibile influenza Tommaso Tittoni avrebbe esercitata sul gabinetto in pro dei principi d'ordine contro le tendenze ultrademocratiche fino allora prevalenti. Egli stesso ha piacevolmente raccontato come dal presidente del Consiglio fosse stato invitato ad abbandonare il portafogli di ministro prima di presentarsi al Parlamento, a meno che non avesse avuto piena certezza di sapersi difendere a dovere. Senonché Tommaso Tittoni era sicuro di sé e, alla Camera, sostenne fermamente l'attacco di numerosi e forti avversari. Egli dovette quell'iniziale difficile vittoria al senso di sincerità e di responsabilità che traspariva dalla sua parola. In quel tempo di complessa e rapida elaborazione di nuovi orientamenti europei, la situazione internazionale dell'Italia imponeva esigenze tanto più pesanti quanto più contraddittorie. La politica estera di Tommaso Tittoni, svoltasi per sei anni col breve distacco dell'ambasciata a Londra, ebbe una linea coerente, chiara, organica, non indegna di una nazione che già si accingeva oscuramente a conquistare vero rango di potenza. Ciò non evitò, naturalmente, a Tommaso Tittoni di incorrere in errori, che la passione polemica ingigantì e il calcolo partigiano si industriò di sfruttare a danno di un uomo il quale aveva avuto sopra tutto il torto di porsi contro corrente nella politica interna. Una volta l'opposizione non ebbe bisogno di prender pretesto dalle vicende diplomatiche per attaccarlo; e ciò fu nel marzo 1905, allorché egli reggeva interinalmente la presidenza del Consiglio e il Ministero dell'interno. La tracotante aggressione settaria fu da lui fronteggiata con un'energia dialettica ammirabile. A proposito della minaccia dello sciopero ferroviario, che era in quell'epoca, come rimase poi per lunghi anni, l'incubo cronico della vita nazionale, egli uscì in alcune proposizioni semplici che allora sembrarono molto ardite e che erano destinate ad attendere quasi un ventennio per essere applicate seriamente. Così: "Lo Stato - egli disse - deve avere la sua base nell'opinione pubblica, ma è lo Stato che deve agire"; e ancora: "L'esecuzione rigorosa della legge non è una provocazione, ma è il fondamento della libertà in qualsiasi Stato civile". Parimenti limpido e diritto si manifestò in quella circostanza l'atteggiamento di lui per giustificare un avvenimento che doveva apparire poi, quale realmente era stato, una tappa notevole nell'evoluzione delle forze politiche italiane: ossia la partecipazione dei cattolici alle elezioni generali del 1904. Erano spunti nuovi, presagi vaghi di un diverso clima storico che si andava formando, indizi primordiali del superamento spirituale e politico che la guerra vittoriosa avrebbe maturato e la rivoluzione fascista consapevolmente compiuto, e che Tommaso Tittoni doveva vedere e assecondare nella sua alacre vecchiezza. Non mi diffonderò a rammentare gli eminenti servigi da lui resi nei sei anni della sua permanenza a Parigi quale ascoltato e attivissimo ambasciatore d'Italia, perché mi tarda rievocare la fase della sua carriera politica che è maggiormente presente al vostro spirito e al mio, ossia la decennale opera da lui data alla presidenza di questa Assemblea. In altra sede ho già illustrato tale opera, ma non temo di ripetermi ricordando che Tommaso Tittoni fu il propulsore e il custode della particolare delicatissima funzione del Senato nella tempestosa situazione scaturita dalla guerra. Dinnanzi al vacillare dei principi fondamentali dell'ordine nazionale e sociale, il Senato doveva ritrovare nella propria essenza storica, fatta di autorità e di fedeltà, il vigore per rimanere un baluardo incrollabile di resistenza a oltranza contro tutti gli assalti. In primo luogo, doveva difendere sé medesimo dal pericolo della soppressione; e la migliore, anzi l'unica valida difesa, per esso, consisteva nel dimostrare una sua rifiorente vitalità in mezzo al crollo di tanti valori tradizionali. Così, per i tre anni che durò la crisi rivoluzionaria, dalle catastrofiche elezioni del 1919 alla Marcia su Roma, il Senato - sotto la guida savia e sicura di Tommaso Tittoni - emerse su la dilagante anarchia come la cittadella dell'onore e della fede, che non avrebbe mai ammainato la bandiera. Le discussioni ammonitrici di questa Assemblea, i suoi costanti, caldi appelli per il rinvigorimento dello Stato e per la restaurazione della pubblica finanza documentano quale generosa tutela abbiano trovato qui, in quel tempo d'angoscia, i supremi interessi della nazione. Salito nel 1921 per la seconda volta a questo seggio presidenziale, Tommaso Tittoni poteva constatare il moltiplicato prestigio del Senato e ne traeva argomento a indicare i problemi incalzanti che urgeva fossero prontamente risoluti per salvare il paese. Ripudiava egli la gretta doppiezza con cui si soleva allora, da uomini illusi di poter aspettare passivi e imparziali l'epilogo del dramma, dividere in parti eguali il biasimo fra le violenze dei parricidi e quelle dei difensori della patria; e rilevava sdegnosamente, il vecchio statista, come le violenze medesime fossero cominciate" quando in alcune provincie all'autorità dello Stato si era sostituita, per grande jattura dell'onore nazionale, la tirannia rossa germogliata come una messe malefica dalla sacra terra d'Italia".

Era ormai la vigilia cruenta e impaziente della Rivoluzione fascista. Il liberalismo, in cui Tommaso Tittoni aveva creduto e per il quale aveva combattuto fedelmente, era tramontato per sempre con l'esaurimento del proprio compito storico. Si sentiva l'aura annunziatrice di un'età nuova, che il Senato aveva invocata e meritata. E così il Condottiero delle Camicie Nere, presentandosi dal banco del Governo il 16 novembre 1922, ebbe ragione di rivolgere all'Assemblea parole inobliabili di riconoscenza e di fiducia, che contenevano implicitamente un'eccelsa lode anche per chi aveva saputo guidare con chiaroveggente maestria l'Assemblea stessa in tempi tanto fortunosi.

I sette anni successivi fecero di Tommaso Tittoni uno dei più autorevoli collaboratori del Regime, prezioso per vastissima competenza ed esemplare per zelo anche in giorni non lieti, interprete sempre felicissimo del pensiero del Senato, degno mallevadore dello splendido retaggio di disciplina patriottica e di disinteressata lealtà che fu in ogni epoca la gloria di questa Camera vitalizia.

Il 22 dicembre 1928, al termine della XXVII legislatura, Tommaso Tittoni si congedava dal Senato con un ultimo discorso, stupendo per contenuta commozione e classica limpidezza, dichiarando di credere giunto ormai, con la nuova era di ordinata e consolidata rigenerazione italica, il tempo da lui desiderato del raccoglimento nei sereni studi, dopo mezzo secolo di politica combattiva. Era l'insigne parlamentare che cedeva il passo al geniale umanista, chiamato a dar vita e avviamento alla nascente Accademia d'Italia. Ancora un anno e mezzo di preclare fatiche spese nell'esercizio della nuova altissima carica per la cultura nazionale e per la patria, con entusiasmo giovanile, senza risparmio di energie; poi la fortissima tempra, d'improvviso, si spezzò. E fu la lunga condanna all'inerte silenzio, tanto più triste per un uomo che del lavoro, del pensiero, della parola avvincente e illuminatrice in servigio delle più pure idealità aveva fatto la milizia di tutta la sua vita. Da così crudele tormento la morte sembrò liberazione.

Ma dell'ampia e nobile opera di lui sopravvive e sopravviverà la memoria, principalmente in questo nostro Senato che Tommaso Tittoni sopra tutto onorò con il ricco ingegno, con la feconda attività e con l'ardente sentimento civico. Esso pone il nome di lui fra quelli dei suoi uomini maggiori, meritevoli di più duratura e grata ricordanza. [...]

MUSSOLINI, capo del Governo. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MUSSOLINI, capo del Governo. Onorevoli senatori, mi sia consentito di aggiungere, a nome del Governo e mio, poche parole alle così eloquenti e commosse pronunciate dall'illustre Presidente della vostra Assemblea.

È un omaggio che io desidero rendere alla memoria di Tommaso Tittoni, un omaggio rattristato dalla melanconia del rimpianto. Ebbi la ventura di personalmente conoscerlo e di aver alcuni anni di deferente amicizia con lui dopo la Rivoluzione Fascista. Ero ansioso di sapere quale sarebbe stato l'atteggiamento di lui di fronte al vittorioso evento compiuto.

Uomini che potevano dirsi appartenere globalmente alla sua parte erano passati più o meno clamorosamente all'opposizione, altri sembravano attenersi ad una linea di condotta di prudente e diffidente attesa, altri infine si schierarono senza indugio tra le file dei sostenitori del Regime. Fra questi ultimi la figura di più alto rilievo politico e morale fu Tommaso Tittoni.

Ripensandoci, si è indotti a constatare che Tommaso Tittoni, giunto al crepuscolo della sua vita operosa, fu di una perfetta coerenza non solo con tutto il suo passato di patriota, di liberale di destra, di uomo di governo, ma anche con la sua tradizione famigliare. Ricordo che il padre fece parte della Commissione che portò a Firenze al gran Re i risultati unanimi del plebiscito romano dell'ottobre del 1870. La Rivoluzione Fascista si proponeva di realizzare ed ha realizzato i principi che furono norma costante della lunga e feconda vita politica di Tommaso Tittoni. Presidente del Senato dal 1922 al 1929, membro del Gran Consiglio, primo Presidente dell'Accademia d'Italia: queste furono le ultime tappe del suo cammino, le ultime giornate della sua fatica, le ultime manifestazioni del suo ingegno, della sua attività, del suo profondo amor di patria, del suo coraggio civile, che in altri tempi lo aveva portato a combattere uomini e partiti di masse trionfanti. Oltre l'uomo pubblico, mi è caro ricordare l'uomo privato, così come mi apparve negli anni durante i quali ebbi ragione di dimestichezza con lui. Egli era un signore, nel significato complesso di questa parola. Intelletto dotato di vasta cultura, spirito fine, curioso, portato ad interessarsi di molti problemi apparentemente tra loro lontani, come la politica e la letteratura, l'agricoltura della zona laziale e la purezza dell'idioma patrio, i problemi della finanza e quelli attualissimi della radio.

Questa sensibilità, quest'ansia di ricerche, privilegio dell'uomo veramente colto e non semplicemente erudito, non lo abbandonò mai, nemmeno negli ultimi mesi della sua vita.

L'Accademia d'Italia fu praticamente organizzata da lui, e non fu la più facile delle imprese. Per i lunghi servigi resi in ogni campo alla patria, Tommaso Tittoni è degno di essere ricordato e onorato dal Senato e dal popolo italiano.

PRESIDENTE. Per onorare la memoria di Tommaso Tittoni propongo che sia collocato nelle sale del Senato un busto dell'Estinto, che sia predisposta la pubblicazione dei discorsi parlamentari da lui pronunziati, e che la seduta sia tolta in segno di lutto.

Pongo ai voti questa proposta.

(La proposta è approvata).

Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 16 marzo 1931.