Catullo e Lesbia/Annotazioni/1. Al passere di Lesbia - II Ad passerem Lesbiae

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Annotazioni - 1. Al passere di Lesbia - II Ad passerem Lesbiae
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II.


Pag. 156.

Con buona pace del Poliziano e del Vossio, io credo col Sannazzaro, col Mureto e con altri buoni, che in questo carme non ci sia nè allusioni, nè doppii sensi.

Prima di tutto, la parola passer usarono i Latini non solo per indicare una cosa turpe e quella medesima che nascondevano i Greci con le voci κελιδόν, κορωνε ed altri nomi d’uccelli, ma per dare anche una tenera denominazione all’oggetto amato. Baciballum, oculissimus, amoenitas, passer, columba, erano i dolci nomi che si davano vezzeggiando gl’innamorati. Meus pullus passer, mea columba, mi lepus: Plauto, Cas. I, v. 50. Noveratis Mellissam Tarentinam pulcherrimum baciballum: Petron., fragm. Burmann. Quid autem passeruculum nostram Gratiam minusculam existimas modo facere? M. Aurel., ap. Front., 4. Dic me tuum passerculum, coturnicem: Plauto, Asin., IlI, 3. [p. 266 modifica]

Se Marziale dà alla parola passer un senso osceno in quei notissimi versi:

Da nunc basia sed Catulliana,
Quae si tot fuerint, quot ille dixit
Donabo tibi passerem Catulli;

ciò non vuol mica dire che Catullo l’abbia usato oscenamente anche lui. Marziale fa qui un doppio gioco di parola: uno, tra passer uccello e passer in significato furbesco; l’altro fra il libro di Catullo, che probabilmente fu chiamato del passere, e il senso turpe che in questo caso gli attribuisce; tutto il merito dell’oscenità è dunque suo, e il povero Catullo non ci ha che vedere. C’è un’altra ragione, oltre a questa, che mi fa tener per fermo che questo epigramma s’ha a prendere alla lettera. Coloro che vogliono trovare in esso una sconcia allusione, come faranno a trovarcela in quell’altro sulla morte del caro animaletto di Lesbia? Stima il Vossio che Catullo, conffectum et exhaustum lucta venerea et funerata ea parte, quae virum facit, Lesbiae suae hoc epigramma scripsisse. Ma a distrugger questa sudicia supposizione basta soltanto osservare due cose: prima, che questi epigrammi sul passere furono, secondo ogni probabilità e a consenso dei dotti, composti sul bel principio dell’amore con Lesbia, di cui non aveva il poeta acquistata ancora tutta quanta l’intimità; seconda, che il carattere di Catullo non si prestava a queste maliziose allegorie. Avea da dire una birbonata? La spiattellava bella e tonda senza altri riguardi; chiamava le cose col proprio nome, aveva il merito che manca a parecchi, i quali ogni studio pongono ed ogni virtù nel confettare le schifezze dell’anima; escrementi canditi, non uomini. [p. 267 modifica]Chi non è convinto di questo, vuol dire che non ha letto il libro del nostro poeta, o veramente lo ha letto con quell’animo pregiudicato, che ha resi in ogni tempo ridicoli i comentatori di Dante e i tonsurati stiracchiatorì della Bibbia.

Ho detto poc’anzi, che il libro di Catullo probabilmente prese nome dal passere. Questa supposizione è nata da quei versi di Marziale:

Sic forsan tener ausus est Catullus
Magno mittere passerem Maroni;

dai quali son nate due questioni. S’allude all’epigramma sul passere, o a tutto il libro? Pietro Crinito s’attiene al primo termine; Lilio Giraldi al secondo. E probabile che Catullo abbia mandato a Virgilio il suo libro, o il suo carme? C’è chi non può mandarla giù. Il Doering, che tien bordone al Giraldi, non crede verosimile che Valerio, maggiore di diciassette anni a Marone, si deferisca al giudizio d’un poeta imberbe. Questa, a dir vero, non mi par ragione di buona lega. Il Monti, che non fu certamente un gran fior di modestia, non sdegnava sottoporre al giudizio di Foscolo giovanissimo i primi libri della sua versione d’Omero; e il Foscolo alla sua volta non si vergognava di chieder consigli al Capponi, a cui mandava dall’Inghilterra le cose sue. A ogni modo la non mi par questione da poter definire; quel forsan di Marziale inferma la forza di qualunque argomento.

Pag. 156.          Cum desiderio meo nitenti
                            Carum nescio quid lubet iocari.

Desiderio meo nitenti: al mio splendido desiderio, al [p. 268 modifica]mio bel foco, alla mia donna amata, a Lesbia, come spiegano i più, non accorgendosi, che, se avessero tal senso questi due versi, riuscirebbero pressoché inutili dopo i primi quattro e prima dei due susseguenti; mentre, interpretando alla lettera, e intendendo la brama intensa del poeta, si otterrebbe un bel contrasto fra la Lesbia, che trova alcun sollazzo al dolore trastullandosi col passerino, e Catullo, che ardente di fortissimo desiderio della donna amata, non sa nella lontananza trovare alcun gioco che lo diverta. Nè a questa interpretazione è d’ostacolo, anzi conferisce, il nitenti, participio che può derivar tanto da niteo, quanto da nitor, che, oltre a’ tanti significati, ha quello di tendere irresistibilmente, adoprarsi con ogni sforzo a possedere; come in Ovidio:

Nitimur in vetitum, semper cupidimusque negata.

Dal qual significato risulterebbe nel caso nostro una vera bellezza, giacché il desiderio nitenti indicherebbe quella brama irresistibile del poeta verso l’oggetto amato, che ancora non possedeva, quella brama che, non potendo appagarsi altrimenti, fa prorompere Catullo nei seguenti versi:

Tecum ludere, sicut ipsa possem
Et tristes animi levare curas;

sperando che per mezzo di quel passerino potesse egli avvicinarsi alla donna diletta, a quel modo che Ippomane ad Atalanta,

Da tre palle d’òr vinta e d’un bel viso.

La favola d’atalanta è distesamente narrata da Ovidio nelle Metamorfosi.

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Pag. 156.          Quod zonam soluit diu ligatam.

Le fanciulle romane andavan cinte da una zona, o fascia di lana, legata da un nodo, che dicevasi erculeo, che veniva sciolto il giorno delle nozze, o dal marito, come credono alcuni, o, come altri dicono, dalla pronuba, che consecrava il cinto a Diana. Però scioglier la zona o la mitra significò, perdere la verginità; onde i Greci chiamarono λυσιζώνας le fanciulle esperte di Venere; e Ovidio:

Cui mea virginitas avibus libata sinistris,
Castaque fallaci zona recincta manu,

e il Nostro, altrove:

Ne quærendum aliunde foret nervosius illud
Quod zonam solvere vergineam,

La zona, che fu da prima, non tanto una custodia, quanto un simbolo della castità delle giovinette, cangiò più tardi di materia, di forma, di scopo; degenerò in subligaculum, cintura di cuoio o di lana imbottita di crini, usata specialmente dalle schiave, dagli attori, dagli atleti, a cui faceva il doppio ufficio di cinto erniario e dì foglia di fico; in fibula, specie d’anello d’oro, d’argento o di ferro, che barbaramente s’inseriva all’estremità delle parti sessuali non solo delle donzelle, ma anche dei giovanetti, col pretesto di preservarli da Venere precoce, che avrebbe loro rapita la freschezza della voce e della salute. (Celso, 7, 25.) Dall’infibulazione, operata più spesso dai fabbri e dalle maliarde che dai chirurgi, si passò mano mano alla castrazione; che giunse fra poco a tali eccessi, che un editto di Domiziano condannò [p. 270 modifica]severamente quei lenoni che aveano cangiato in mestiere un delitto.