Cartagine in fiamme/2. A bordo dell'hemiolia

2. A bordo dell'hemiolia

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A BORDO DELL'HEMIOLIA


Gli elefanti avevano messo in fuga la folla, la quale si era precipitosamente rifugiata nelle case e nei templi vicini. Perfino i sacerdoti erano scappati più che in fretta abbandonando i loro idoli ed i loro stendardi, e i mercenari, che avevano cercato di resistere all'urto di quelle masse mostruose, giacevano ormai al suolo, accoppati o storpiati dai tremendi colpi di quelle due dozzine di proboscidi.

Hiram, vedendo che più nessuno gli muoveva incontro, si slanciò a gran corsa attraverso la piazza quasi deserta, costringendo la giovane romana a seguirlo, mentre i suoi uomini, muniti di tizzoni fiammeggianti per respingere l'attacco dei pachidermi, formavano a destra ed a sinistra di lui due grandi linee, per proteggerlo interamente da qualsiasi pericolo.

Giunti in una via oscurissima, dove non si scorgeva anima viva, Hiram rallentò il passo, dicendo a Fulvia:

— Non mi hanno riconosciuto; non hanno ravvisato in me l'esiliato di Tiro, quindi non avremo nulla da temere.

— Ti devo la vita — rispose la giovane romana.

— Un giorno tu salvasti la mia, — disse il guerriero, — ed ero tuo nemico.

— Non mio, perché sono etrusca e non romana.

— Fa lo stesso.

— Per me eri un uomo ferito.

— Quelli della mia razza, se io fossi stato un romano, non mi avrebbero risparmiato — rispose Hiram con voce grave. — Tu sai come hanno trattato Attilio Regolo e gli altri che la sventura fece cadere nelle nostre mani. Le loro pelli, strappate ancor frementi e calde sui loro petti, adornano i nostri templi.

Fulvia ebbe un brivido di terrore e chinò il capo senza rispondere.

— Affrettiamoci — disse Hiram, allungando il passo.

La giovane etrusca, invece di seguirlo si fermò, guardando dietro di sé la tenebrosa via.

— Nessuno ci segue — disse il guerriero. — Hanno ormai perduto le nostre tracce e poi hanno da sbrigarsela ancora cogli elefanti.

— Ho paura di Phegor.

— Phegor! Chi è costui?

— Un uomo che temo più del gran sacerdote di Baal-Molok e dei membri del Grande Consiglio.

— Perché, Fulvia?

— Taci per ora: fuggiamo, Hiram. Forse ci è alle calcagna.

— Se ci raggiunge lo farò gettare in mare con una pietra al collo.

— Non si lascerà scorgere: è troppo astuto e troppo prudente.

— Affrettiamoci allora.

Percorsero con passo lesto parecchie vie tortuose, che nessun lume rischiarava e tutte deserte, essendo la popolazione accorsa tutta sulla piazza per assistere ai sacrifici umani, e giunsero finalmente dinanzi ad un gigantesco bastione che si estendeva dinanzi ai moli del piccolo mare interno.

Cartagine per fortificazioni poteva rivaleggiare con l'opulenta Tiro, che mise a così dura prova gli eserciti di Alessandro il Macedone quando questi, 332 anni prima di Gesù Cristo, ne intraprese la conquista e pur troppo anche la distruzione.

Dalle colline, fronteggianti quasi l'arido deserto, al mare, era tutta cinta di muraglie ciclopiche, composte, come quelle famose d'Arad, di blocchi giganteschi, riuniti senza alcun cemento, e di bastionate simili a quelle che avevano costruite gli egiziani migliaia d'anni prima.

Solo poche porte e molto anguste, mettevano fuori dalla città e sempre guardate da buon numero di mercenari onde impedire una improvvisa invasione. Hiram, dopo essersi bene assicurato che nessuno li aveva seguiti, s'accostò ad una porticina di bronzo, dinanzi alla quale vegliavano alcuni guerrieri.

— Lasciate il passo a marinai che tornano alle loro navi — disse, e fece scivolare nelle loro mani alcuni pezzi d'argento. — I sacrifici a Baal-Molok sono terminati.

— Che Melkarth (il dio dei navigatori e dei mari) ti sia propizio — risposero le guardie aprendo la porticina di bronzo.

— Grazie dell'augurio — disse Hiram. — Baal-Hammon vi contraccambi.

S'inoltrò in uno stretto corridoio tenendo per mano la giovane etrusca, non essendovi là dentro alcun lume e, seguito dai suoi numidi, giunse sulla riva del piccolo mare interno, le cui onde lambivano le mura poderose della città.

Il drappello seguì per alcune centinaia di passi una stretta gettata ingombra di casse, di barili e di voluminosi pacchi e s'arrestò dinanzi ad un naviglio la cui poppa s'appoggiava quasi contro la riva.

Era uno di quei legni che i greci ed i fenici chiamavano hemiolia, colla prora e la poppa assai rialzate e molto ricurve, specialmente la seconda, onde proteggere dalle frecce l'hortator incaricato di regolare la battuta dei rematori sia colla voce, sia con un bastone, e gli uomini che combattevano sopra coperta. Non aveva che un solo ordine di remi e pel momento non portava nessun albero, anzi le sue vele, formate di pelli di capra cucite insieme, giacevano arrotolate sul ponte, però al pari delle navi di battaglia aveva a prora un lungo sperone, assai aguzzo, che staccavasi a circa metà della ruota, laminato in bronzo: era il famoso rostrum degli antichi navigatori, destinato a sfondare i fianchi delle navi avversarie.

Non era già una nave lunga, né una vera nave di combattimento; rassomigliava piuttosto a quelle piccole navi chiamate acatium, di cui si servivano di preferenza i pirati greci e fenici, perché più leggere e più maneggiabili, ma che tuttavia con un equipaggio numeroso e ben agguerrito come aveva Hiram, poteva dar ben da fare a legni anche più grossi e fomiti di più ordini di remi. Il cartaginese fece gettare una tavola dagli uomini di guardia rimasti a bordo e condusse Fulvia sulla nave.

Una domanda gli uscì subito dalle labbra, diretta all'hortator che gli era mosso incontro.

— Nulla, Sidone?

— No, padrone.

Alla fioca luce d'una lampadina ad olio sospesa all'estremità della grande curva che descriveva la poppa, Fulvia vide Hiram impallidire come se una improvvisa sciagura lo avesse colto.

— Ne sei ben certo? — riprese il cartaginese con ansietà.

— Ti ripeto che non l'abbiamo veduto ritornare.

— Che si sia smarrito o che l'abbiano ucciso? Io so che lei è sempre a Cartagine.

— Non so che cosa dirti, padrone — rispose l'hortator. — Qui non è giunto.

— Dov'è Aco?

— Eccomi, padrone — rispose un giovane marinaio, facendosi innanzi.

— Era proprio suo quello che hai scambiato?

— Sì, padrone.

— Il nostro dovrebbe essere già qui.

— Lo credo anch'io.

— A chi hai dato il nostro?

— Alla sua schiava favorita.

Hiram parve immergersi in profondi pensieri. Stette parecchi minuti silenzioso, interrogando ansiosamente le tenebre cogli sguardi, poi volgendosi verso i suoi uomini che lo avevano circondato e che pareva condividessero le ansie del padrone, disse:

— Andate a riposarvi: veglio io. Non si sa mai quello che può accadere, ed a me occorrono guerrieri sempre pronti a qualunque cimento. Andate ragazzi: desidero rimanere solo.

Mentre i numidi scomparivano silenziosamente sotto coperta, Hiram che era tornato pensieroso, si era lasciato cadere sul banco dell'hortator, prendendosi il capo fra le mani e tenendo gli sguardi fissi verso le ciclopiche mura della città diventata ormai silenziosa.

Una mano che gli si appoggiò su una spalla e che gli diede una lieve scossa, lo strappò bruscamente dalle sue meditazioni.

— Mi hai dimenticata, Hiram? — chiese una voce. — Il fratello non si ricorda più di colei che un giorno, in una umile casa dell'Etruria, chiamò col dolce nome di sorella, quantunque fra la mia patria e la sua vi fosse un baratro colmo di sangue? Perché mi hai salvata? Non valeva la fatica di esporti ad un così grande pericolo per strappare alla morte... chi? Una popolana, una figlia della terra, sia pur della terra romana.

— Perdonami, fanciulla, — disse, — È vero, ti avevo per un momento dimenticata.

— Si perdona facilmente a chi si deve la vita — rispose la romana. — Senza di te che cosa sarei a quest'ora? Un pugno di polvere e quale dolore avrebbe causata la mia morte alla mia vecchia madre!

— A tua madre! — esclamò stupito il cartaginese. — Ella è qui!

— Sì, Hiram.

— E come vi trovate voi in Cartagine mentre vi lasciai liberi e felici nell'Etruria?

— Tu non conosci la mia storia, eppure credevo che tu sapessi che io fossi qui.

— Lo ignoravo, Fulvia. Se io ne fossi stato informato sarei ricorso ai miei amici per liberarti e ricondurti in patria. Qui le navi fenicie che trafficano con Neapoli (Napoli) e Puteoli (Pozzuoli) non mancano e mi sarebbe stato facile rinviarti al tuo paese.

Questa volta fu la fanciulla che si mostrò intensamente sorpresa.

— Mi avresti rimandata in Italia! — esclamò con accento di dolore. — Tu dunque non ti eri recato coi tuoi numidi sulla piazza di Melkarth per salvarmi?

— Sono giunto solo ieri mattina da Tiro, in incognito, dopo due lunghi anni d'esilio — rispose Hiram. — Come potevo sapere che tu fossi condannata a diventare la preda di Baal-Molok?

— E perché ti trovavi là armato e per giunta con tutto il tuo equipaggio?

Hiram parve imbarazzato e per qualche istante stette silenzioso, guardando verso la città.

— La tua patria torna a romperla colla mia — disse poi, eludendo la domanda della fanciulla. — Ecco perché sono fuggito dall'esilio e sono qui tornato. Potevo io rimanere inoperoso laggiù, io che a diciassette anni combattei nelle Spagne, nelle Gallie e sul lago Trasimeno col grande Annibale, quando la patria era in pericolo? È vero, questa patria non è stata riconoscente a me come non lo fu con Annibale, ma dietro quelle mura io sono nato e dietro quelle mura dormono i miei avi.

— Tu, uno dei più giovani, eppur dei più famosi capitani della repubblica, esiliato! — esclamò Fulvia.

— Sì, per l'odio d'uno dei più influenti membri del Collegio dei Suffetti1 e del Consiglio dei Centoquattro — disse Hiram con voce amara.

Poi dopo un altro breve silenzio e dopo d'aver interrogato ancora, cogli sguardi ansiosi l'orizzonte, rispose:

— Tu non mi hai ancora detto come ti trovi qui. Quando ti lasciai eri quasi una bambina, ti ritrovo in Cartagine donna e forse schiava. Chi ti ha qui condotto?

— La guerra aveva devastata l'Etruria e arse le nostre case, anche quella dove tu fosti ricoverato e guarito. Mio padre, completamente rovinato, ci condusse a Camae dove aveva dei parenti che trafficavano coi fenici di Tiro e di Rodi. Un giorno una nave comparve, carica di quei vasi splendidi e di quelle graziose statuette che sanno solo fare quel popolo. Quando la vendita finì, i fenici, come già facevano sovente, ci trassero a bordo in molte donne, col pretesto di farci dei regali e ci fecero prigioniere, traendoci qui.

— E ti vendettero schiava — aggiunse Hiram. — Da quanto sei in Cartagine?

— Da due anni.

— Povera Fulvia — mormorò il cartaginese. — Ed allora ero lontano.

— Senza forse ricordarti nemmeno di me — disse la fanciulla.

— No, t'inganni. Nei miei momenti di sconforto, rivedevo sovente la tua casetta, gli alberi che la riparavano dall'ardore del cocente sole etrusco; rivedevo una linda stanzetta dove tuo padre mi aveva ricoverato e la fanciulla che mi cantava dolci canzoni per alleviare i dolori causatimi dal colpo di lancia, vibratomi da quel romano e che mi aveva squarciato il costato. È trascorso molto tempo, eppure, come hai visto, ti ho subito riconosciuta, quantunque ti avessi lasciata quasi bambina perché allora tu non avevi che dieci anni. E tu hai pensato qualche volta al guerriero cartaginese che tuo padre e tua madre strapparono alla morte?

— Forse più di quanto credi — rispose l'etrusca, con un sospiro represso. — Quante volte io ho riveduto nei miei sogni il prode giovane, sia pur nemico delle genti italiche, steso sanguinante sul lettuccio mio, fiero anche nella morte e sorridente anche nell'agonia! Quante volte l'ho riveduto, quando dopo una lunga convalescenza, s'appoggiava al mio debole braccio, parlandomi della sua patria lontana o narrandomi tremendi episodi di guerra! E quante volte l'ho riveduto quando diede a me l'ultimo addio, in un bel mattino di primavera sul margine del bosco che si stendeva dietro la mia casa! Il ricordo del guerriero nemico non mi è sfuggito dalla mente, perché fu uno dei più lieti episodi della mia giovinezza.

Fulvia aveva alzato il capo guardando il cartaginese, ma pareva che questi non l'ascoltasse più. Curvo innanzi colle braccia tese, sembrava che seguisse collo sguardo qualche cosa che volteggiava in alto.

— Hiram — mormorò.

— Il colombo! — esclamò il cartaginese, facendo un gesto di gioia. — Ah finalmente! Me lo rimanda!

— Chi? — domandò Fulvia.

Hiram, invece di rispondere, si slanciò verso la prora sul cui coronamento era calato un volatile, il cui candore bianchissimo delle penne spiccava vivamente fra la profonda oscurità che avvolgeva il naviglio.

Il cartaginese lo prese fra le mani, senza che il gentile messaggero cercasse di sfuggirgli.

Non vi era nulla di strano in ciò, poiché tutte le navi fenicie e cartaginesi portavano sempre con loro dei colombi viaggiatori per mandare notizie ai loro parenti lontani, in caso di pericolo. Hiram lo baciò sul becco, poi gli frugò sotto le ali.

— Ah! Eccola! — esclamò con un grido di gioia. — Sidone! Un lume! Un lume!

L'hortator che forse non si era ancora addormentato, uscì disotto il castello portando una lampadina ad olio di terracotta foggiata a testa d'ariete.

— È giunto? — chiese.

— Sì.

— Quello che hai fatto vendere da Aco?

— Sì, il nostro bianco. Fammi chiaro.

L'hortator alzò la lampada, mentre Hiram svolgeva un piccolo pezzo di pelle spalmato di cera, su cui si scorgevano dei geroglifici tracciati con qualche spillo.

— Dunque? — chiese Sidone, che scrutava il volto del suo padrone, il quale impallidiva a vista d'occhio.

— Sta per essere perduta per me — rispose Hiram con voce soffocata.

— Che cosa dici?

— Fra tre giorni sarà sposa.

— E tu?

— Io!

Hiram stette un momento esitante, colle mani raggrinzate sulla fronte stillante di sudore freddo, poi chiese:

— Posso contare sulla vita dei miei numidi, Sidone?

— Come sulla mia, padrone — rispose l'hortator.

— Anche se li avventassi attraverso a Cartagine?

Un sorriso di sprezzo comparve sulle labbra di Sidone.

— Quei mercatanti, — disse, — vendono, ma non sanno uccidere, ed i loro mercenari valgono ben poco se non sono africani come noi. Quali prove di valore hanno dato gli iberi che il grande Annibale assoldò sull'Ebro?

— Hai ragione, Sidone.

— Che cosa pensi di fare, padrone? Lasciartela portare via dal figlio di qualche mercante arricchito, o vuoi disputarla a quel sinistro vecchio che, nato e cresciuto fra le porpore di Tiro e gli aromi dell'Arabia fenicia, disprezza la forte gente a cui la sua patria deve l'esistenza?

— Ella mi aspetta domani sera — rispose Hiram.

— E tu ci andrai?

— Mi reputerei vile se non andassi, fossi sicuro di morire. Vederla, sia pure per un solo istante, e dimenticherei il lungo esilio di Tiro! — esclamò Hiram. — Ella è...

Una mano che lo afferrò strettamente pel polso, lo interruppe:

— Di chi parli, Hiram? — chiese una voce.

— Tu, Fulvia — disse il cartaginese, lasciando libero il candido colombo che non aveva ancora abbandonato e che tubava, come per chiedere di riposarsi coi compagni.

— Di chi parli? — ripetè l'etrusca.

— D'una fanciulla — rispose Hiram.

— Cartaginese?

— Sì, cartaginese.

— Che ami? — gridò la giovane etrusca.

Hiram stava per rispondere, quando fra il lieve gorgoglìo delle onde del piccolo mare, rumoreggianti contro le calate del porto e contro i fianchi dei navigli ancorati, si udì improvvisamente una voce a cantare:

— L'imprudente crede tutto ciò che gli si dice, ma l'uomo prudente pondera tutti i suoi atti; il savio teme e volge le spalle al male; l'insensato passa oltre e si crede sicuro...

— Phegor! — esclamò Fulvia, sussultando. — Guardati Hiram!

— Phegor! — ripetè il cartaginese, soffermandosi su quel nome. — Ah! Mi hai parlato di quell'uomo.

Poi, preso da un improvviso impeto di collera, chiese alla giovane:

— Che cosa vuole quel miserabile?

— Ci spia.

— È dunque uno spione?

— Del Consiglio dei Centoquattro.

— Sidone, un arco.

— Eccolo, padrone — rispose Sidone portandogli l'arco ed una faretra piena di dardi.

Hiram prese l'uno e l'altra, salì sul bordo e guardò attentamente verso la calata.

Quantunque la notte fosse oscurissima, distinse un'ombra umana scivolare cautamente fra le casse ed i barili, che la ingombravano e che continuava a cantare fra i denti:

— ... l'imprudente crede tutto ciò che gli si dice...

Un sibilo acuto interruppe la frase, seguito da un lieve grido.

— Colpito — disse Hiram. — A terra Sidone, e finiscilo con un colpo di daga.

L'hortator si slanciò sul ponte volante che univa il naviglio alla spiaggia, impugnando una larga e corta lama, in forma di foglia e scomparve in mezzo alle mercanzie che ingombravano la calata.

La sua assenza durò cinque o sei minuti, poi Hiram lo vide ripassare il ponte, con aspetto tutt'altro che lieto.

— L'hai ucciso? — chiese il guerriero cartaginese.

— È scomparso il maledetto — rispose l'hortator con rabbia. — Se ritorna spero bene di riprendermi la mia rivincita.


Note

  1. Il potere supremo della repubblica cartaginese era diviso in tre collegi: dei Suffetti, del Senato e dei Centoquattro.