Archivio storico italiano, serie 3, volume 13 (1871)/Rassegna bibliografica/I capi d'arte di Bramante d'Urbino nel milanese

Michele Caffi

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Rassegna bibliografica - Niccolò Machiavelli nel suo Principe Rassegna bibliografica - I Notamenti di Matteo Spinelli da Giovenazzo

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I capo d’arte di Bramante d’Urbino nel milanese, memorie storico artistiche raccolte per cura del Dott. C. C. Milano, 1870; in 8vo con tav. 3.


Fra le indagini storiche, le quali ai nostri giorni hanno preso così ampia e così accurata e vigorosa voga, noi per antica tendenza dei nostri studii prediligiamo quelle sulle arti e sui loro maestri; largo campo in cui, per quanto pure siasi fatto, pur molto e molto resta a fare tuttavia, larga messe a raccogliere.

Il libro che annunciamo venne da noi avidamente ricercato e discorso, perchè Bramante da Urbino è uno dei principali anelli a cui si lega il felice progresso delle nostre arti, e perchè di Bramante molto si è detto, molto si è scritto, ma la sua storia ancora è ravvolta in soverchie incertezze dalle quali non può snebbiarla che la scoperta di credibili documenti.

Se per la penuria appunto dei documenti il dottore C. C. non è riuscito nel citato suo libro a darci una compiuta monografia di Bramante, ristretta pure ai suoi lavori nel milanese, egli nondimeno ci porge un diligente lavoro che annuncia un nobile ingegno, e crediamo non inopportuno il dirne alcune parole. In sostanza egli si tolse a pubblicare alcune notizie o meglio osservazioni sovra Bramante compilate già sono molti anni da un Don Venanzio de Pagave morto ottuagenario nel 1803.

Lo scritto del Pagave, a vero dire, non manca di entità storica, ma esso ancora non risolve le varie questioni che [p. 326 modifica]si agitano sovra Bramante, nè per esso sapremmo ancora l’epoca e il luogo della sua morte, se il Gaye (II, 135) non ci avesse provato fino dal 1840 ch’ella sia avvenuta in Roma nel 1514, alli undici di marzo.

Nemmeno veniamo a sapere il nome preciso dell’insigne artista cui il Pagave (senza riportare il documento) asserisce fosse Bramante di Severo Lazzari, mentre il Pungileone appoggiandosi al Cesariano contemporaneo e discepolo di Bramante, sostiene si denominasse Donato o Donnino e fosse cognominato Bramante.

Ma la quistione più grave per noi, e di maggiore entità per la Storia delle arti nostre, si è quella dell’epoca in cui l’urbinate Bramante sia venuto in Lombardia; perchè dalla precisa cognizione di questa epoca o sarà resa più probabile la conghiettura di molti (fra i quali lo stesso de Pagave), che Bramante abbia pel primo recato fra noi il buon gusto nell’arte, ovvero resterà provato che questo felice cambiamento fosse già avvenuto, o a dir meglio incominciato fra noi, allorchè egli vi giunse.

Il Pagave assegna con tutta franchezza all’anno 1476 l’arrivo di Bramante in Milano, aggiungendo che la prima opera di cui venne incaricato fu la costruzione della doppia Chiesa di Santa Radegonda. Ma nessuna prova di ciò; e il dottore C. C. il quale fece ricerca negli atti di quelle chiese ora soppresse ci assicura di aver trovato nulla che confermi una tale asserzione. Invece il Pungileone dal maggior numero degli altri scrittori seguito, assegna la venuta di Bramante all’anno 1480 ed è perciò che il sacerdote Astesani, il quale al principio di questo secolo scrisse alcunchè della chiesa nostra di S. Satiro incominciata poco dopo l’anno 1470, ritenendo egl impossibile che vi avesse avuto parte Bramante d’Urbino immaginò con non ispregievoli argomenti la preesistenza di un altro Bramante milanese il quale avesse architettato nel suo principio quel grazioso tempietto. Ed a questo tempietto avrebbe di poi l’urbinate aggiunta la magnifica sagrestia ottagona di cui favella il Cesariano nei suoi Commenti a Vitruvio (1521) e cui a’nostri tempi con tristo avviso fu otturata l’antica e simmetrica sua porta per convertire fuori di ragione la sagrestia in battistero.

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Veramente gli argomenti del Pagave per far ritenere opera della sesta di Bramante da Urbino tutta la chiesa di S. Satiro sono di qualche peso, e lo sono specialmente le parole (da lui riportate) del Cesariano il quale afferma essere stata la predicta chiesa del Divo Satiro architectata da epso Bramante, ed attribuisce al medesimo la creazione della bellissima prospettiva presso all’altar maggiore. Al che si aggiunge molto efficacemente la scoperta recentissima di un documento nell’Archivio pubblico di S. Fedele, per cui nell’anno 1497 il marmoraro Gio. Giacomo di Appiano riceve da Bramante l’incarico di recarsi al Lago maggiore ed altrove a comperare marmo fino e bastardo per una cappella a S. Teodoro che il Duca voleva edificare in S. Satiro.

A Bramante da Urbino si attribuisce l’opera principale nell’erezione dei nostri santuarii della Madonna a San Celso e della Madonna delle Grazie. E se ci mancano documenti sincroni che affermino ciò, la splendidezza delle opere e la costante tradizione vi suppliscono in gran parte, e vi aggiunge peso la circostanza che quegli edificii si facevano costruire dal Duca il quale amava e favoriva Bramante ch’era il suo principale ingegnere. Nientedimeno per la chiesa delle Grazie il Pagave riporta un periodo di una vecchia cronaca di certo padre Rovegnatino da lui veduta e poscia perita, in cui era scritto che Lodovico il Moro, chiamato con solenne ceremonia l’arcivescovo di Milano Arcimboldo, nel giorno 29 di marzo 1492 faceva benedire e piantare la prima pietra di questo tempio, e da Bramante suo architetto fu rialzata la maestosa tribuna che anche al presente si ammira. Questa tribuna, continua il Pagave, e le due cappelle laterali col coro sono la prova più sicura che abbia data Bramante del suo vasto sapere, tanto se guardasi alla sua ampiezza nell’interno, quanto se si contempla la sua nobilissima ed ornatissima forma al di fuori. A suffragare in qualche modo questa asserzione viene una memoria del 1494 al 1499, già rinvenuta in Milano nell’Archivio del Fondo di Religione in un indice di scritture appartenute alla Certosa di Pavia, in cui leggesi: Nota di marmi consegnati dal Monastero per ordine del Duca a mastro Bramante ingegnere, cioè dodici colonne condotte a Vigevano, ed altri marmi per la chiesa [p. 328 modifica]di Santa Maria delle Grazie e per la porta del Castello di Milano per li prezzi come ivi.

Le colonne spedite a Vigevano servirono certamente ai lavori che Bramante vi condusse per ordine del Moro. Precipuamente egli ampliò la Piazza e la decorò di portici colonnati, ed inoltre operò nel Castello aggiungendovi le due ali che cingono il cortile della colombara e le scuderie e la bellissima torre dell’orologio. Abbiamo una lettera del 4 marzo 1494 di Giacobo Pusterla castellano di Pavia al Duca, che lo avverte essersi colà recato Bramante per ricavare alcuni desegni ne lo orologio che è in questa libreria (cioè il celebre planisferio di Giovanni Dondio padovano, portato poi da Carlo V in Ispagna) per ornare uno certo cielo d’una camera ad Vigevano. Quanto poi alle opere nel Castello di Milano, noi sappiamo che a Bramante era stata commessa per questo la costruzione della porta con una torre al disopra, ed eragli stato commesso (come benissimo ricorda il Pagave) lo accrescere qualche fortificazione al Castello, ove alcun anno prima certo ancora poco noto Giovanni da Milano (forse Zovanino de la Porta) edificava la Rocchetta con un elegantissimo cortile, e Bramante vi aggiungeva una via coperta con una porticella la quale serviva di passaggio dalla roccha alla città (Cesariano).

Il grande ospedale e la fabbrica del Duomo di Milano pure giovavansi intorno a quest’epoca della scienza di Bramante. Vuoisi ch’egli nello Spedale elevasse la cupola all’incrociamento dei quattro bracci e il portico a destra nel gran cortile, al che probabilmente si riferisce l’annotazione che si trova in quei libri di amministrazione alla data del 16 settembre 1485, di lire 12, soldi 5, denari 6 dati m. Bramanti depintori ’prò desegnio dicti hospitalis dato ambasatori venetorum. E pel Duomo egli veniva nell’anno 1491 consultato pell’elevazione della grande cupola col Cesariano e con un M. Pietro da Gorgonzola, il qual era un Brambilla dei Carminati ingegnere ducale e della Comunità di Milano, idraulico eziandio reputatissimo e ricercato quindi nel 1493 al Duca dal Signore di Bologna perchè gli tracciasse un canale simile a quelli del Milanese. (Vedi Muoni, Melzo ec., pag. 171).

[p. 329 modifica]Appartengono a quell’epoca alcuni documenti milanesi che riguardano Bramante e che sebbene di non grande entità, pure meritano considerazione per le scarse memorie contemporanee che di lui ci rimangono. L’uno è quel racconto ch’egli fa al Duca di certo edificio che erigevasi al ponte di Creola presso Ossola, documento più volte pubblicato, che reca la data del 29 giugno 1492, e a cui tien dietro una lettera del Duca al Calco suo primo segretario, nella quale ragionando dello stesso edificio; lo avverte, che non dovendo Bramante tanto intendere quanto uno militare, li delibera mandare persona più a proposito quanto alla professione del mistero de guerra per vedere el loco (en Beregnarde die 26 julij 1493. Ludovicus Maria Sfortia). Abbiamo altresì una lettera del Calco al Duca in data 15 maggio 1492, in cui espone il progetto di Bramante per festeggiare un battesimo principesco, ed è una rappresentazione alla brigata per ornamento dell’offerta che gli abitanti alle porte Orientale et Tonsa dovevano fare in tale occasione.

Recentissima poi è la scoperta di una lettera di Giacomo l’Antiquario al Duca, che qui trascriviamo perchè forse ancora ignota.


«Ill.mo et ex.mo Signore.

«Ho usato ed uso omni diligentia per bavere il disegno per lo altare per collocare le reliquie secondo la volontà ed ordinatione de Vostra Eccellenza, la qual cosa M. Ambruoxo Ferrè ha imponuta ad Bramante; si fossi disegnatore mi, non li saria intercorso tempo alcuno a mandato v. e. Tamen satis cito, si satis bene, et ut bene id fiat omni studio curabimus» (ommissis).

«Mediolani, v septembris 1496.

«Minimus servus
«Jacobus Antiquarius».



Ignoriamo se l’altare qui nominato sia poi stato costrutto da Bramante e quale destinazione avesse. Vediamo che l’ordinazione per mandato del Duca era stata data dal [p. 330 modifica]famigerato Ambrogio Ferrario (Farè, Ferrè, o di Farè) nominato anche dal sig. C. C. a pag. 107. Ambrogio era il commissario generale ducale ai pubblici lavori, ed era segretario ducale l’Antiquario, valente uomo di lettere di cui fa speciale menzione il sig. C. C. medesimo, a pag. 98 e 115.

Rileggendo il libro del sig. C. C. ci confermammo vieppiù nella persuasione che lo scritto del Pagave il quale conta forse l’età di un 90 anni avesse il bisogno di ulteriori ricerche, studi, meditazioni.

Non vorremmo appuntare il sig. C. C. di non avere in parte ciò accuratamente eseguito, e quanto al resto la modesta chiusa ch’egli appose al suo libro, ci fa argomentare assai favorevolmente di lui e sperare che egli voglia mettersi a pari passo di quei pochi che faticano assiduamente per condurre innanzi la storia delle arti nostre tanto ancora ravvolta nei dubbi, negli errori, nell’impossibile.

Ci colpì la notizia che egli trae dal Pagave, e questi da un creduto pseudonimo, avere il Bramante disegnata la facciata della Certosa di Pavia. Sono già molti anni che noi abbiamo raccolto con immensa fatica da archivi pubblici e privati quanti ci capitarono documenti per la storia di que11’insigne monumento; storia che resa a noi impossibile per quelle ragioni che ognuno facilmente immagina, si compierà probabilmente da un francese, il sig. Verdier.

Ma il nome di Bramante in quei documenti non lo abbiamo giammai incontrato, ed anzi saremmo portati a credere che egli non abbia dato il disegno della facciata.

Infatti sino dal 1463 lavoravasi in essa, e dai rogiti del notaro pavese Gabba, ch’era il cancelliere della Certosa fino dal 1462, sembra che il primitivo disegno venisse dato intorno al 1470 da Guiniforte Solaro. Poi venne a dirigere quell’arduo lavoro un sommo ingegno, Giovanni Antonio Amedeo (1474), quindi il rinomatissimo Gobbo Solaro (1495), e questi non erano certamente uomini d’indole tale da adattarsi a lavorare sul disegno d’altri. Che anzi un documento già nell’archivio dei Certosini ci avverte che dal primo corridore della facciata sino al secondo, lo scultore fu il maestro Giovanni Orsolino.... conforme al disegno fallo da M. Cristoforo lombardo ingegnere del monastero.... fu fatto [p. 331 modifica]l’accordo l’anno 1550 essendo priore il padre Damiano Longone, e provveditore della fabbrica, D. Gregorio Litta; quello stesso Litta alle cui cure dobbiamo il prezioso Messale miniato dal canonico Evangelista della Croce, tesoro d’arte che in oggi adorna la biblioteca di Brera.

Due fabbriche in Lodi attribuisce a Bramante il manoscritto del Pagave. Tace di una, che noi pensiamo possa essere la splendida casa dei Mozzanica, poi dei Modignani nella contrada di San Tommaso: l’unico edificio in Lodi di cui si limita a ragionare il Pagave, e cui attribuisce a Bramante, è l’ottagono tempietto dell’Incoronata, eretto nel 1488. Ma le memorie di quella chiesa, che tuttora si conservano, ne fanno autore un Giovanni o Giovangiacomo Battacchio o Battagio figlio ad un maestro Domenico. Giovanni Battagio fino dal 20 maggio di quell’anno, assumevasi onus costruendi et construi faciendi ecclesiam.... e pattuivasi con esso che pro laboreriis que per eum fierent in ornamentis dicte ecclesie videlicet ad stampa debeat ei fieri solutio secundum extimationem faciendam per magistros et homines peritos.... et similiter de figuris que manualiter fierent per ipsum M. Johanem ponendis in dicto laborerio (Gualandi, Mem. Ser. II). A lui cessato, indi a poco, dall’opera, succedeva il Dolcebono, e poscia il Palazzo. Nessun atto, nessun documento accenna a Bramante, e soltanto una memoria posteriore di molto, e della cui autenticità non si può garantire, direbbe che mentre un Ambrogio Masnella portava da Milano a Lodi il disegno per la nuova chiesa datogli dal Battagio, si vociferasse che in quel concetto avesse avuto parte Bramante: tuttavolta è difficile il credere che il Battagio assai valente e riputato a’ suoi tempi (sicché eletto ad inalzare la famosa rotonda di Santa Croce a Crema, lo si appellava uomo nell’arte peritissimo, nell’età nostra principe di architecti), si togliesse a dar eseguimento ad un disegno altrui, fosse pur di Bramante. Tutto al più potremmo credere che il Battagio nell’Incoronata di Lodi attingesse le sue inspirazioni dalla sagrestia di San Satiro, la quale nel magnifico tempietto lodigiano vediamo quasi riprodotta.

Lo scritto del Pagave accenna anche ad altre fabbriche che soltanto la volgare opinione e la coincidenza dello stile [p. 332 modifica]attribuiscono a Bramante. Precipuo è il palazzo già degli Scaccabarozzi poi dei Castiglioni ora di un Silvestri in Milano presso il ponte di porta Orientale. La facciata e le stanze sono altresì dipinte con ornamenti e ligure assai lodate dal Lomazzo e dal Vasari, ma l’uno di essi attribuisce invece l’opera tutta al Bramantino, mentre il Calvi, il Nestore dei nostri artisti e scrittori d’arte, ne vuole autore l’altro Bramante milanese, che secondo lui precedette la venuta dell’urbinate in Milano. E il Calvi ritornerà certamente su questo argomento nella vita di Bramante che egli è vicino a mandare alle stampe.

Alle costruzioni bramantesche annoverate dal Pagave e che in gran parte oggimai hanno mutato l’aspetto e le forme, potrebbesi aggiungere quella che ora serve all’Albergo del Ponzone nella via Valpetrosa, e quella dell’ingegnere Giuseppe Cajmi in S. Vittore al Teatro al numero 19 nuovo. Nella casa in Santa Marta, citata a pagine 57 del manoscritto Pagave, casa che ora porta il numero 10 nuovo, 3441 vecchio, merita considerazione la semplice eleganza di due finte porte verso la strada, con finestra semicircolare, cieca, adorna di ben intese strombature; e in essa specialmente si ravvisa la perizia del grande architetto, il quale (a detta pure del Pagave) non ricopriva all’esterno i muri colla calce, anzi aborrendone l’intonacatura, voleva che il materiale di terra cotta serviente a formare la superficie del muro fosse levigato e congegnato in modo che appena se ne conoscessero le connessioni tra pietra e pietra. E così appunto dovrebbero operare quei tali che ai nostri giorni vogliono ripristinare le murature di pietre a vista, i quali nella loro imperizia credono che basti il sovrapporre cementato alla meglio mattone a mattone senza curarsi della connessione e della levigatura della superficie della muratura che quindi ne viene. Osservino costoro quel pochissimo che rimane di primitivo nella facciata della Basilica di Sant’Antonio di Padova1, osservino le fiancate dell’Incoronata di Lodi, [p. 333 modifica]l’interna facciata dell’edificio che fu di Santa Corona in Milano, architettata dal Gobbo Salaro, e vedranno quale differenza fra il loro mal composto lavoro e quello diligente e compatto degli antichi. Ma il far bene costa studio e fatica.

Non ci diffonderemo più oltre nell’analisi del libro pubblicato dal sig. C. C., e in cui amor di patria e d’arte ci ha tratti pure troppo innanzi. Prima di finire per altro accenneremo ad alcune inesattezze che abbiamo incontrate nel testo del Pagare; e cioè a pag. 75, ove egli trasforma in Benedetto Fatio il pittore Benedetto Tatto di Varese, non altrimenti che a pag. 74 e 75 scambia il Lanino nel Luino, e a pag. 20 e 60 pone contemporaneamente ai pittori Butinone, Montorfano, Foppa, il Civerchio2 di Crema che ne fu posteriore di quasi un mezzo secolo, e morì nel 1544. Del poeta Baldassare Taccone alessandrino che fu eziandio cancelliere ducale egli fa (Dio glielo perdoni) un antiquario Taccani (pag. 20) confondendolo forse coll’antiquario Giacomo citato poi dal C. C. a pag. 96, 97, 98 e 115. Fa Annibale Fontana (pag. 81) coevo a Bramante che visse un secolo prima di lui3: fa architetti [p. 334 modifica]il Grandi e il Romagnoli (pag. 72), che furono invece pittori di quadratura; non altramente che troviamo a pag. 108 Bertolino Baracca per Bertolino da Rocca (ossia da Rosate) maestro di muro del secolo XV a noi già noto; e a pag. 111 Mussatio da Vigonzono per Masaccio da Vigonzone, Ambrosio di fare por Ambrosio da Fare, ossia de’ Ferrari, Sono piccole mende, ma per l’esattezza che richiedesi in un lavoro storico abbiam voluto notarle.

Michele Caffi.        




Note

  1. Abbiamo detto ciò che rimane di primitivo in questa facciata, perchè nell’anno 1858 parte di essa e la vicina fiancata vennero con poca diligenza ed esattezza rimpiastrate sotto la direziono di un laico tedesco che i frati tenevano per un insigne maestro d’arte, e non era se non un mediocre falegname. A lui dobbiamo la rovina di alcune belle figure di tarsia in legno nella sagrestia, mirabile lavoro di Lorenzo Canozio sui cartoni dello Squarzone, le quali, egli, ignaro dell’arte della tarsia pittorica, guasto con sostituire pezzi di gretto legno alle parti tarsiate corrose dal tarlo. Egli così operando credeva di far bene, ma il peggio fu che ciò abbiano creduto coloro i quali lo lasciarono fare.
  2. Del pittore Civerchio da Crema abbiamo non ha guari rinvenuto il testamento (1544) da cui ricaviamo alcune notizie pregevoli per la storia dell’arte, e conosciamo principalmente che egli non fu un pittore così antico quale comunemente si crede (Vedi Arch. Stor., tom. XII, par. I, pag. 186) e non può assolutamente essere stato il primo a sentire V’influenza di Leonardo, nè avere educati all’arte il Zenale e il Buttinone, nè può essere stato l’autore di alcuni vecchi affreschi che specialmente in Milano gli vengono attribuiti. Pubblicheremo fra breve in questo giornale il testamento medesimo con alcune annotazioni.
  3. Il Pagave fa menzione anche del nostro egregio scultore Agostino Busto, e gli attribuisce egli pure il noto soprannome di Bambaja. Ma questo è un pretto errore in cui cadde per primo il Vasari, e che fu ripetuto da quanti tolsero da lui. Il Busto non porto mai il soprannome di Bambaja; egli denominavasi a’ suoi tempi Zarabaglia o Zarabaja, forse perchè procedesse in origine dai Garavaglia o dai Frambaglia famiglie antiche milanesi. Il Moriggia lo chiama Agosto Zarabaja o Cerebaglia, e Zarabaja lo appella ripetutamente anche il Lomazzo. Egli forse nominavasi anche Panzè perchè anche il medesimo Lomazzo encomiando un intagliatore in ferro che dice congiunto di Agostino, lo chiama Gio. Batt. Panzè detto Cerebaglia o Zarabaja. Nessuno degli scrittori a lui contemporanei, nessuno di quelli che scrissero innanzi al Vasari lo ha mai denominato Bambaja.