Giovanni Prati

Olindo Malagodi 1878 Indice:Prati, Giovanni – Poesie varie, Vol. II, 1916 – BEIC 1901920.djvu sonetti Antimaco Intestazione 23 luglio 2020 25% Da definire

Riccio (monologo) Azzarelina
Questo testo fa parte della raccolta XIV. Da 'Iside'

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XIII

ANTIMACO

Demere particulam somrro digitisque papyj’um
est ierere in votis et dortum fatlere vutvus .


CARTA GRECA

Cosi cantava in margine al Cefiso
Antimaco, pastor nato in Larissa,
patria d’Achille :
— O re dei sempiterni,
perché farmi capraio, e non piuttosto
5guerrier di Grecia, a vendicar gli offesi
talami d’Argo e la nettunia Troia
spargere al vento? È povera fatica,
cui mi sortisti, pascolar le zebe,
spirar nel flauto e salutar sui colli
10Febo e la Luna: per non dir dell’erba
e dei sarmenti, che recando a spalla
vo nel mio stabbio, e delle veglie amare,
che mi rompono i vasti epici sogni.
Però che sogno anch’io l’elmo crinito,
15l’aureo gambier, la poderosa antenna
e la quadriga; e sin talvolta parrni
l’inverecondo adultero alle reni

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premer col ferro, o trucidar Polite,
o alcun altro cui pose Ecuba al sole,
20e udir con gioia il disperato pianto
delle nuore dell’Asia. Ecco la fiamma
che m’accende lo spirto. O capre imbelli,
a voi piace brucar mente odorose,
o, saltando pe’ sassi o in guado al fiume.
25mescer dolci battaglie. A me non giova
questa vita d’inezie avara e breve,
senza lume di gloria. Ah! se pareggia
coll’istinto il natale, io direi quasi
che da Béroe non nacqui, umile figlia
30delle selve d’Antracia, e non Tissandro
mi generò, del bimare Corinto
pescivendolo un tempo; o che un’arcana
virtú nell’aura di Larissa alberga
ch’anco ai non nati di Peléo gli eccelsi
35palpiti insegna e le superbe imprese.
E, se questo non è, dir mi bisogna
che un qualche iddio ricoverò notturno
nella capanna de’ miei padri... e il resto
succeduto è nell’ombra, ed io non sono
40quel che sembro ai pastor di questa valle.
Ma, qual che sia l’oscuritá dei casi,
io diman lascerò tibia e vincastro
e torrò l’arco e le saette. Ascolta,
re dei celesti, il mio disegno. Io voglio,
45anch’io, girmene a Troia, anch’io lanciarmi
contro i dardani in pugna e cercar l’ora
della mia fama o del funereo sonno. —
Mentr’ei cosí cantava, una possente
aquila in cerchio roteò la penna
50sugli alti pioppi, e balenar da manca
vide l’Olimpo.
— Ti ringrazio, o Giove:
quest’è l’augurio della mia fortuna. —
G Prati, Poesíe, ir.

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E il mandriano, sul fiorir dell’alba,
dati in retaggio ad un minor fratello
55la zampogna e la greggia, usci pei clivi,
recossi ai monti, ridiscese all’acque,
corse pei golfi e toccò l’Asia e vide,
d’ilio egli vide i baluardi e il campo
agamennonio. E lá cavallo e scudo
60ebbe e lorica e spada, e di prodezza
fu lodato dai prodi.
E un giorno Achille
lo chiamò nella tenda e si gli disse:
— Figlio di Béroe antica, a te non paia
doloroso l’udir quel che t’han dato
65la fortuna e gli dèi. Non, come pensi,
da Tissandro tu fosti: il mio divino
gcnitor t’ha prodotto e la midolla
dell’ossa nostre è pari. Ond’io ti guardo
per mio germano, e diverran tua parte
70le mie terre, i miei servi e le ubertose
mandre de’ miei puledri e la non vile
mia gloria in armi. —
Di stupor, di pena,
di gioia un misto e di pudor contenne
nella chiostra de’ denti al mandriano
75suon di voce, qual fosse.
— Or via, ripiglia
— proruppe il nato di Pelco, — l’antica
tua parola ripiglia, e non volermi
col tuo silenzio iinproverar la pronta
indiscreta mia lingua.
- È gran ventura
80— pur finalmente il mandrian rispose —
aver divo il natale e udir l’accento
d’un generoso che german ti chiama
e vuol teco partir sin la grandezza
del casato e del nome. Or mi s’aspetta

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85dimostrar se il mio sangue ha la favilla
del grande Achille. Intanto, áuspici i numi,
sovra l’ossa materne alta verdeggi
l’erba, e men tristi di Tissandro i mani
dorman sotterra. —
E, si dicendo, ei tolse
90reverente i congedi. Allegro in tutto
però, in tutto, ei non era. E, a liberarsi
da un cruccioso pensier che il compagnava,
cerco gli amici; ma domar non seppe
l’alta seguace cura. Al cesto, all’arco
95ricorse invano, e il calice spumante
del beato licor non ricondusse
l’allegria nel suo spirto: ond’egli, i passi
ritessuti, die’ volta al padiglione
del Pelide e sciamò:
— Sentimi, o grande
100mio germano e signor: quel che m’hai detto,
mentre i mici voti piú supeibi appaga,
m’attrista l’alma. In cortesia ti prego
dirmi che l’opra d’un ascoso iddio
nascer mi fece: tollerar non posso
105questo pensier, che la mia santa madre,
rompendo fede alle sue giuste nozze,
m’abbia concetto da non giusto amplesso. —
Un sottil vampo di rossor nel viso
corse all’eroe, ma raccontò:
— Varcato
110avea da tempo il pallido Acheronte
Amiclèa di Perimaco, la donna
del padre mio, che, poderoso e insigne,
fra i prenci di Larissa iva in quei boschi
cacciando i cavrioli, e in questa forma
115divertendo il pensier ria quegli affanni
ch’anco i (elici han seco. Ed una sera,
sopraffatto dal nembo, alla capanna

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picchiò di Béroe il cacciator, chiedendo
ricovro alla bufera.
— Ove ti piaccia
120degnar di te questo romito albergo,
ospite egregio, le tue vesti asciuga
presso al mio foco e, se pudor noi vieta,
e segue il vento a flagellar la selva,
lá sul giaciglio di Tissandro adagia
125le stanche membra e ti conforti il sonno.
Io veglierò, dalla conocchia il filo
traendo in pace.
— Ti ringrazio, ornata
di saggezza e candor, Béroe cortese.
Ma Tissandro dov’è?
— Per sua faccenda
130ito è in Corinto.
— E tu soletta in queste
notti nembose non paventi alcuna
villania di ladroni?
— A me custode
fu Diana, o signor, dal di ch’io nacqui;
e, temendo gli dèi, d’altro non temo.
135—Come ben pensi e come ben favelli,
Béroe prudente! ond’io prego i celesti
che su te, su Tissandro e sul tuo nido
veglino sempre. —
E il nobile Peléo,
cosi dicendo, dal tepor del loco
140vinto e dal sonno, reclinò la stanca
testa al giaciglio. Una fatica arcana
parimenti occupò Béroe sul rude
sgabello assisa, e la palpebra un forte
sopor le chiuse. E, come il finto in sogno
145spesso è si vivo che del finto il vero
men ver ci sembra, di veder le parve,
sospinto l’uscio al rustico abituro,

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entrar Tissandro e all’ukime faville
scaldar le mani e sulle secche foglie
150sdraiar le membra e a sé chiamarla. In piedi
fu la sopita: non aperse gli occhi
nel breve istante, e, sorridendo, in braccio
si trovò di Peléo scevra di colpa
e gloriosa del divino amplesso.
155Cosí nascesti, Antimaco. —
Un respiro
largamente esalò dal gran torace
il pastor di Larissa, e alla sua tenda
fé’ ritorno e ai compagni.
E Achille intanto
fra sé pensava: — Nelle selve d’Ida,
160mentre il centauro di precetti austeri
m’erudiva io spirto, e nelle membra
pargolette io sentia la sacra fiamma
di Marte, e il vento, che la quercia educa,
mi sferzava i capelli, e la mia freccia
165giungea dell’or.se sibilando al core,
il vecchio Euforbo, con Peléo seduto
nel portical, dalia paterna bocca
udia questi racconti, e un sottil riso
li accompagnava, e tratto tratto un nappo
170del rubin che invermiglia i nostri colli.
E il vecchio Euforbo, tra faceto e grave,
a me li ripetea, quando in Larissa
egli vide cascar l’ultime nevi;
ma trillar non udí la lodoletta
175sui fioriti maggesi. 11 buon famiglio
tolse i commiati dalla nostra casa
nel suo funereo di. Sovra il mio capo
chiamò propizi i numi, e incontrò l’ora
della Parca sereno: e il suo Melampo,
180dolce compagno della varia vita,
tre di corcossi sulla sorda fossa,

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tre notti il pianse e al quarto di fu spento!
Queste memorie nel guerrier feroce
fur come raggio # di morente sole
185nel procelloso Egeo. L’asta egli prese
e la biga tremenda e, con a fianco
Antimaco, quel giorno al pallid’Orco
mandò le teucre torme, a simiglianza
d’augelletti randagi, a cui sull’ale,
190nel capo, al cor la grandine percote.
A celebrar quel di, Iole, una teucra
giovinetta captiva, ai padiglioni
d’Antimaco inviò l’inclito Atride,
cospicuo dono; però che dal viso
195ella tradiva e dalle ambrosie forme
la intatta gloria del vimineo fiore.
Dentro un bosco di lauri, in capo al vallo,
l’avean predata i dolopi guerrieri
a un dardanio drappel, che cogli scudi
200illesa almen dalle saette argive
serbò la giovinetta. A lei d’intorno
i dieci difensori, un dopo l’altro,
cadder riversi, e gelida discese
sui fieri volti la funerea notte.
205Giacea ferito e non estinto un solo,
lppomeneo di Cromi, in Lidia nato,
Lidia nutrice della bionda spiga.
Ma Iole non sapea che a quella pugna
troppo tardi, l’infame ora imprecando,
210sopraggiunto egli fosse e, cogli uccisi
lá disperso fra sassi, a lui la Parca
sparmiato il tenebroso Èrebo avesse.
Di ciò nulla sapea, cosí di mente
l’avea tratta il terrore.
A contemplarla
215stava il guerriero, e, piú che alla corvina
chioma ondeggiante sulle nivee spalle,

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e al piè serrato in porporin vinciglio.
e alla raccolta al sen candida zona,
ei riguardava stupefatto a quella
220novitá di sembianti.
— Aspro nemico
dell’Asia e mio, se gentilezza alberga
in cor d’argivo, all’odiosa vita
toglimi, prego, e non voler ch’io, preda
di qual sia vincitore, il grembo imprechi
225che mi portò.
— Nella mia tenda sei,
bella troiana. Menelao ti manda
in dono a me.
— Per festeggiar la strage
che de’ miei tu facesti!
— E forse ancora
perché tu impari come a cor di greco
230 atti non vili la bellezza insegna.
Orsú! mi narra qual ragion ti trasse
dentro il bosco de’ lauri.
— Amore.
— Ed ami?
— Ippomenco di Cromi, inclito auriga
del figliuol di Riféo.
— Ti dorrá molto
235 esserne lunge.
— È volontá del Fato.
Noi fummo i vinti, io son tua schiava. Or usa
della vittoria tua.
— Dunque ritorna
a Ippomenéo di Cromi, e per me digli
come lieto son io di rimandargli
240questa sua giovinetta. A rapir donne
qui non venimmo, come fece in Argo
Paride un giorno. E digli ancor di’io bramo
non incontrarlo in campo; e, se per caso

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ritrovar ci dovrem, spero accertarmi
245ch’egli era un prode e meritava il dono
ch’oggi gl’invio. —
L’attonita fanciulla,
di pianto ombrate le pupille brune,
stava per favellar, quando un tumulto
s’udi fuor della tenda. Era disteso
250su giaciglio di frasche un giovinetto.
che — Iole! — ripetea — Iole! — strappando
le fasce intrise di purpurea riga.
Iole ululante sull’amata spoglia
lasciò cadérsi, e Ippomenéo gli accenti
255ultimi disse:
— Della patria i fati
s’avvicinano, o Iole. A me vederli
niega, spero, la Parca, lo per te sola
sopravviver potea; ma ritrovarti
in questa tenda è tal dolor, ch’io bramo
260toglier quest’occhi aH’abborrita luce. —
Antimaco l’udia, grave la fronte
d’alta mestizia, e, mentre alla parola
volea schiudere il varco, un fiero strido
levossi, e il ciglio a Ippomenéo si chiuse.
265Dopo assolte le esequie: — Anima egregia
— disse, vòlta ad Antimaco, la Leila
vergine infelicissima, frenando
a gran pena i singulti,—in Ilio vive
la canuta mia madre e due fratelli,
270nemici tuoi, che per le patrie mura
daranno il sangue.
— E a Pergamo tu riedi,
o giovinetta, e nel materno seno
placa il dolore, e a’ tuoi fratelli apprendi
che mia sola compagna è la mia spada,
275e non ho schiave, o le torrei soltanto
nelle case di Priamo, onde il chiomato

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rapitor dell’infausta FLlena anch’egli
sentisse l’onta dei polluti alberghi,
e le belle regine incatenate
280fossero ai banchi delle nostre navi.
A te frattanto una fidata scorta
darò dei miei, che ti ritorni al loco
dove sei nata e alla tua madre affermi
come fu pianto Ippomenéo di Cromi
285anche da noi. —
Cosí dicendo, il vivo
aere cercò fuor della tenda, e scosse
dalla mente un pensier tenero e novo,
che, a sembianze d’un fior, nella soliuga
ed aspra vita del guerrier sorgea.