Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/69

Anno 69

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Anno di Cristo LXIX. Indizione XII.
Clemente papa 3.
Servio Sulpicio Galba imp. 2.
Marco Salvio Ottone imp. 1.
Flavio Vespasiano imperad. 1.


Consoli


Servio Sulpicio Galba imperad. per la seconda volta e Tito Vinio Ruffino

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Perchè Clodio Macro vicepretore dell’Africa si era anch’egli ribellato contra Nerone, e continuava a far delle estorsioni e ruberie, Galba nell’anno precedente ebbe maniera di farlo levar dal mondo1. Fu ancora accusato di meditar delle novità nella bassa Germania Fonteio Capitone, il qual pure vedemmo che avea riconosciuto Galba per imperadore. Vero o falso che fosse questo suo disegno, anch’egli fu ucciso, senza aspettarne gli ordini da Roma. Al comando di quell’armata2 inviò Galba, a suggestione di Vinio, Aulo Vitellio, uomo pieno di vizii, oppur creduto tale da non far bene nè male, e che, purchè potesse appagar la sua ingordissima gola, pareva incapace d’ogni grande impresa. Fu questa elezione il principio della rovina di Galba. Costui, pieno di debiti per aver troppo scialacquato sotto i precedenti Augusti, arrivò all’armata della Germania inferiore, e niuna viltà o bassezza lasciò indietro per conciliarsi l’amore di quelle milizie, senza gastigar alcuno, con perdonare e far buona ciera a tutti, e donar loro quel poco che potea. Avvenne che le legioni dimoranti nell’alta Germania, già irritate per l’abbassamento di Virginio Rufo, udendo le relazioni, accresciute molto nel viaggio, dell’avarizia e della crudeltà di Galba, cominciarono ad inclinar tutte alla sedizione; nè Ordeonio Flacco lor comandante, uomo [p. 262]vecchio, gottoso e sprezzato dai soldati, avea forza di tenerle in dovere. In fatti, benchè nel primo giorno di gennaio dell’anno presente, secondo il costume, giurassero, ma con istento, fedeltà a Galba, nel dì seguente misero in pezzi le di lui immagini, e giurarono di riconoscere qualunque altro imperadore che fosse eletto dal senato e popolo romano3. Tacito scrive che la ribellione ebbe principio nelle stesse calende di gennaio. Volò presto l’avviso di tal novità a Colonia, dove dimorava Vitellio, che ne seppe profittare, con far destramente insinuare ai suoi soldati della bassa Germania di elegger essi piuttosto un imperadore, che di aspettarlo dalle mani altrui. Non vi fu bisogno di molte parole. Nel dì seguente Fabio Valente, venuto colla cavalleria a Colonia, e tratto fuori di casa Vitellio, benchè in vesta da camera, l’acclamò imperadore. Poco stettero ad accettarlo per tale le legioni dell’alta Germania. Le città di Colonia, Treveri e Langres, disgustate di Galba, s’affrettarono ad esibir armi, cavalli e denaro a Vitellio. Accettò egli con piacere il cognome di Germanico: per allora non volle quello d’Augusto; nè mai usò quello di Cesare. Formò poi la sua corte; e gli uffizii, soliti a darsi dall’imperadore ai liberti, furono da lui appoggiati a cavalieri romani. Valerio Asiatico legato della Fiandra, per essersi unito a lui, divenne fra poco suo genero. E Giunio Bleso, governatore della Gallia lugdunense, perchè il popolo di Lione era forte in collera contra di Galba, seguitò anch’egli il partito di Vitellio con una legione e colla cavalleria di Torino.

Galba in questo mentre, il meglio che potea, attendeva in Roma al governo4, ma per la sua vecchiezza sprezzato da molti, avvezzi alle allegrie del giovane Nerone, e da molti odiato per la sua avarizia. Il potere nella sua corte [p. 263 modifica]era compartito fra Tito Vinio, che già dicemmo console, e Cornelio Lacone prefetto del pretorio, e per terzo entrò Icelo liberto di Galba, uomo di malvagità patente. Costoro, emuli e discordi fra loro, abusando della debolezza del vecchio Augusto, si studiavano cadauno di far roba, e di portar innanzi chi potesse succedere a Galba. Ma eccoti corriere, che porta la nuova della sollevazion delle legioni dell’alta Germania. Andava già pensando Galba ad adottare in figliuolo e successor nell’imperio qualche persona, in cui si unisse la gratitudine verso del padre, e l’abilità in benefizio del pubblico. Più degli altri vi aspirava, e confidato nell’appoggio di Tito Vinio sperava Marco Salvio Ottone, più volte da me rammentato di sopra come uomo infame per molti suoi vizii, e veterano negl’intrichi della corte. All’udir le novità della Germania, non volle Galba maggiormente differir le sue risoluzioni per procacciarsi in un giovane figliuolo un appoggio alla sua avanzata età e alla mal sicura potenza. Fatto chiamare all’improvviso nel dì 10 di gennaio, Lucio Pisone Frugi Liciniano, discendente da Crasso e dal gran Pompeo, giovane di molta riputazione e gravità, in età allora di trentun anni, alla presenza di Vinio, di Lacone, di Mario Celso console designato e di Ducennio Gemino prefetto di Roma, dichiarò che il voleva suo figliuolo adottivo e successore. Pisone senza comparir turbato, nè molto allegro, rispettosamente il ringraziò. Andarono poi tutti al quartiere dei pretoriani, e quivi più solennemente fece Galba questa dichiarazione per isperanza di guadagnargli l’affetto di que’ soldati. Ma perchè non si parlò punto di regalo, quelle milizie mal avvezze ascoltarono con silenzio ed anche con malinconia quel ragionamento. Per attestato di Tacito, la promessa di un donativo poteva assicurar la corona in capo a Pisone; ma Galba non sapea spendere, e volea vivere all’antica, senza riflettere che [p. 264]erano di troppo mutati i costumi. Anche al senato fu portata questa determinazione ed approvata.

Ottone, che di dì in dì aspettava questa medesima fortuna da Galba, allorchè vide tradite tutte le sue speranze, tentò un colpo da disperato. Coll’aver ottenuto un posto in corte ad un servo di Galba, avea poco dianzi guadagnata una buona somma d’argento. Di questo danaro si servì egli per condurre ad una sua trama due, oppur cinque soldati del pretorio5, a’ quali, con tirar nel suo partito pochi altri, prodigiosamente riuscì di fare una somma rivoluzion di cose. Costoro, perchè furono cassati in questo tempo alcuni uffiziali delle guardie, come parziali dell’estinto Ninfidio, sparsero voci di maggiori mutazioni. Quel poltron di Lacone, tuttochè avvertito di qualche pericolo di sedizione, a nulla provvide. Ora nel dì 15 di gennaio, Marco Salvio Ottone, dopo essere stato a corteggiar Galba, si portò alla colonna dorata, dove trovò, secondo il concerto, ventitrè soldati: che così pochi erano i congiurati6. L’acclamarono essi imperadore, e messolo in una lettiga, l’introdussero nel quartiere de’ pretoriani, senza che a sì picciolo numero di ammutinati alcun si opponesse. A poco a poco altri si unirono ai precedenti, e non finì la faccenda, che tutto quel corpo di milizie, colla giunta ancora dall’altra dell’armata navale, si dichiarò per lui, mercè del buon accoglimento e delle promesse di un gran donativo che Ottone andava di mano in mano facendo a chiunque arrivava. Avvisati di questa novità Galba e Pisone, spedirono tosto per soccorso alla legione condotta dalle Spagne, e ad alcune compagnie di tedeschi. Uscì Galba di palazzo, per una falsa voce che Ottone fosse stato ucciso, sperando che il suo presentarsi ai perfidi [p. 265 modifica]pretoriani li farebbe cedere. Ma al comparir essi in armi con Ottone, e al gridare che si facesse largo, il popolo si ritirò, e Galba, in mezzo alla piazza rimasto abbandonato, fu steso con più colpi a terra, ed anche barbaramente messo in brani. Il console Vinio anch’egli restò vittima delle spade. Pisone malamente ferito tanto fu difeso da Sempronio Denso centurione, che potè fuggire e salvarsi nel tempio di Vesta; ma saputosi dov’egli era, due soldati inviati colà anche a lui levarono la vita, e il medesimo fine toccò a Lacone capitan delle guardie. Avvicinandosi poi la sera, entrò Ottone in senato, dove spacciando d’essere stato forzato a prendere l’imperio, ma che volea dipendere dall’arbitrio de’ senatori, trovò pronta la volontà e l’adulazione d’ognuno per confermarlo, e per mostrar anche gioia della di lui esaltazione. Gli furono accordati tutti i titoli e gli onori de’ precedenti Augusti; e il matto popolo gli diede il cognome di Nerone, per cui non cessava in molti l’affetto. Giacchè non vi erano più consoli, fu conferita questa dignità al medesimo Marco Salvio Ottone imperadore Augusto e a Lucio Salvio Ottone Tiziano suo fratello per la seconda volta. Nelle calende di marzo succederono ad essi Lucio Virginio Rufo e Vopisco Pompeo Silvano. Cedendo questi nelle calende di maggio, furono sostituiti Tito Arrio Antonino e Publio Mario Celso per la seconda volta. Continuarono questi in quel decoroso grado sino alle calende di settembre; ed allora entrarono consoli Caio Fabio Valente ed Aulo Alieno Cecina. Ma essendo stato degradato il secondo d’essi nel dì 31 di ottobre, fu creato console Roscio Regolo, la cui dignità non oltrepassò quel giorno; perciocchè nelle calende di novembre venne conferito il consolato a Gneo Cecilio Semplice e a Caio Quinzio Attico. Tutto ciò si ricava da Tacito7.

Sul principio si studiò Ottone di [p. 266]procacciarsi l’affetto e la stima del popolo. Luminosa fu un’azione sua. Mario Celso poco fa mentovato, che comandava la compagnia delle milizie dell’Illirico, ed era console designato, avea con fedeltà soddisfatto al suo dovere nell’accorrere alla difesa di Galba. Dopo la di lui morte venne per baciar la mano ad Ottone8. Gl’iniqui pretoriani alzarono allora le voci, gridando: Muoia. Ottone, bramando di salvarlo dalla lor furia, col pretesto di voler prima ricavare da lui varie notizie, il fece caricar di catene, fingendosi pronto a toglierlo di vita. Ma nel dì seguente il liberò, l’abbracciò, e scusò l’oltraggio fattogli solamente per suo bene. Nè solamente il lasciò poi godere del consolato, ma il volle ancora per uno de’ suoi generali e dei più intimi amici, con trovarlo non men fedele verso di sè che verso l’infelice Galba. Alle istanze ancora del popolo indusse a darsi la morte Sofonio Tigellino, da noi veduto infame ministro delle scelleraggini di Nerone. Inoltre si applicò seriamente al maneggio de’ pubblici affari, e restituì a molti i lor beni tolti da Nerone: azioni tutte che gli fecero del credito, non parendo egli più quel pigro e quel perduto nel lusso e ne’ piaceri che era stato in addietro. Ma i più non se ne fidavano, conoscendolo abituato nei vizii, e simile nel genio a Nerone, le cui statue, come ancor quelle di Poppea, permise che si rialzassero. Osservavano parimente ch’egli mostrava poco affetto al senato, moltissimo ai soldati: laonde temevano che se fosse cessata la paura dell’emulo Vitellio, si sarebbe provato in lui un novello Nerone. E certo egli era comunemente odiato più di Vitellio, non tanto pel tradimento da lui fatto a Galba, quanto perchè il riputavano persona data alla crudeltà, e capace di nuocere a tutti; laddove Vitellio era in concetto di uomo dato ai piaceri, e però in istato di solamente nuocere a sè stesso: benchè in fine amendue fossero poco [p. 267 modifica]anzi odiati dai Romani. Intanto era diviso il romano imperio fra questi due competitori. Ottone si trovava riconosciuto imperadore in Roma e da tutta l’Italia. Cartagine con tutta l’Africa era per lui. Muciano, governator della Siria, o sia della Soria, gli fece prestar giuramento dai popoli di quelle contrade9. Altrettanto fece Vespasiano nella Palestina. Aveva egli inviato già Tito suo figliuolo, per attestare il suo ossequio a Galba; ma dacchè, arrivato a Corinto, intese la di lui morte, se ne tornò indietro a trovar il padre. Anche le legioni della Dalmazia, Pannonia e Mesia aderirono ad Ottone. Così l’Egitto e le altre città dell’Oriente e della Grecia. Ancorchè Ottone fosse un usurpatore, il nome nondimeno di Roma e del senato romano, che l’avea accettato, bastò perchè tanti altri paesi s’uniformassero al capo dell’imperio.

Ma in mano di Vitellio erano le migliori e più accreditate milizie de’ Romani, raccolte dall’alta e bassa Germania, dalla Bretagna e da una parte della Gallia10. Ne formò egli due eserciti, l’uno di quarantamila combattenti sotto il comando di Fabio Valente, l’altro di trentamila, comandato da Alieno Cecina, a’ quali si unirono varii rinforzi di Tedeschi. Ardevano tutti costoro di voglia, non ostante il verno, di far dei fatti, per aver occasione di bottinare (fine primario di chi esercita quel mestiere), mentre il grasso e pigro Vitellio attendeva a darsi bel tempo, con far buona tavola, ubbriaco per lo più. Anche vivente Galba si mossero tante forze sotto i due generali per due diverse vie alla volta d’Italia; cioè Valente per le Gallie, e Cecina per l’Elvezia. Vitellio facea conto di seguitarli dipoi. Nel viaggio ebbero nuova della morte di Galba e dell’innalzamento di Ottone. Dovunque passò Valente per la Gallia, il terrore delle sue armi condusse i popoli all’ubbidienza [p. 268]di Vitellio. Sopra tutto con allegria fu ricevuto in Lione. In altri luoghi non mancarono saccheggi ed anche stragi. Non fece di meno Cecina nel passare pel paese degli Svizzeri. All’avviso di queste armate, che si avvicinavano all’Italia, un reggimento di cavalleria, accampato sul Po, che avea servito una volta in Africa sotto Vitellio, l’acclamò imperadore, e cagion fu che Milano, Ivrea, Novara e Vercelli prendessero il suo partito. Perciò si affrettò Cecina verso la metà di marzo per calare in Italia, ancorchè i monti fossero tuttavia carichi di neve, e spedì innanzi un corpo di gente, per sostenere le suddette città. Gran dire, gran costernazione fu in Roma, allorchè si udì la mossa di tante armi, e l’inevitabil guerra civile11. Mosse Ottone il senato a scrivere a Vitellio delle lettere amorevoli, per esortarlo a desistere dalla ribellione, offrendogli danaro, comodi e una città. Ne scrisse anch’egli, e dicono12 che gli esibisse segretamente di prenderlo per collega nell’imperio e per genero. Gli rispose Vitellio in termini amichevoli; tali nondimeno che mostravano di burlarsi di lui. Irritato Ottone gli rispose per le rime, cioè gliene scrisse dell’altre piene di vituperii, e con ridicole sparate, ricordandogli soprattutto l’infame sua vita passata. Non furono meno obbrobriose le risposte di Vitellio. Nè alcun di loro diceva bugia. Amendue ancora inviarono degli assassini, per liberarsi cadauno dall’emulo suo; ma riuscì in fumo il loro disegno. Adunque chiaro si vide, non restar altro che di decidere la contesa coll’armi. Unì Ottone una possente armata anch’egli, composta della maggior parte de’ pretoriani e delle legioni venute dalla Dalmazia e Pannonia. E lasciato al governo di Roma Tiziano suo fratello con Flavio Svetonio prefetto d’essa città, e fratello di Vespasiano, [p. 269 modifica]dato anche ordine che non fosse fatto torto alcuno alla madre, alla moglie e a’ figliuoli di Vitello, nel dì 14 di marzo si licenziò dal senato, e alla testa dell’esercito, non parendo più quell’effeminato uomo di una volta, s’incamminò per venir contro a’ nemici. Suoi marescialli erano Svetonio Paolino, Mario Celso ed Annio Gallo, uffiziali non meno prudenti che bravi. Mancavano ben questi pregi a Licinio Procolo prefetto del pretorio, che pur faceva una delle prime figure in quell’armata. Alieno Cecina, general di Vitellio, arrivato al Po, passò quel fiume a Piacenza, ed assalì quella città, da cui Annio Gallo13, dopo due dì di valorosa difesa, il fece ritirare a Cremona, malcontento per la perdita di molta gente. Fu in quella occasione bruciato l’anfiteatro de’ Piacentini, posto fuori della città, il più capace di gente che fosse allora in Italia. Anche Marzio Macro, console designato, diede a Cecina un’altra percossa coi gladiatori di Ottone. Eppur egli, ciò non ostante, volle venire ad un terzo cimento: tanta era la voglia in lui di vincere, affinchè l’altro general di Vitellio, cioè Valente, non gli rapisse o dimezzasse la gloria. In un luogo detto i Castori, dodici miglia lungi da Cremona, tese un’imboscata a Svetonio Paolino e a Mario Celso; ma questi, avutane notizia, presero così ben le misure, che il misero in rotta, ed avrebbono anche rovinata affatto la di lui gente, se Paolino per troppa cautela non avesse impedito ai suoi l’inseguirli. Per questo fu egli in sospetto di tradimento, ed Ottone chiamò da Roma Tiziano suo fratello, acciocchè comandasse l’armi, sebben con poco frutto, perchè Licinio Procolo, capitan delle guardie, benchè uomo inesperto, la facea da superiore a tutti.

Venne poi Valente da Pavia colla sua armata più numerosa dell’altra ad unirsi con Cecina, e tuttochè questi due [p. 270]generali di Vitellio fossero gelosi l’uno dell’altro, si accordarono nondimeno pel buon regolamento della guerra, e per isbrigarla il più presto possibile. Tenne consiglio dall’altra parte Ottone; e il parere de’ suoi più assennati generali, cioè di Svetonio Paolino, Mario Celso ed Annio Gallo, fu di temporeggiare, tanto che venissero alcune legioni che si aspettavano dall’Illirico. Ma prevalse quello di Ottone, Tiziano e Procolo, ai quali parve meglio di venir senza dimora a battaglia, perchè i pretoriani credendosi tanti Marti, si tenevano in pugno la vittoria, e tutti ansavano di ritornarsene tosto alle delizie di Roma14. Lo stesso Ottone impaziente per trovarsi in mezzo a tanti pericoli, fra l’incertezza delle cose e il timore di qualche rivolta de’ soldati, era nelle spine; però si voleva levar d’affanno con un pronto fatto d’armi. Ma da codardo si ritirò a Brescello, dove il fiume Enza sbocca nel Po, per quivi aspettar l’esito delle cose; risoluzione che accrebbe la sua rovina, perchè seco andarono molti bravi uffiziali e molti soldati, con restare indebolita l’armata sua in mano di generali discordi fra loro, e poco ubbidienti e senza quel coraggio di più che loro avrebbe potuto dar la presenza del principe. Seguì qualche piccolo fatto fra gli staccamenti delle due armate, ma finalmente quella di Ottone, passato il Po, andò a postarsi a qualche miglio lungi da Bedriaco, villa posta fra Verona e Cremona, più vicina nondimeno all’ultimo, verso il fiume Oglio, dove si crede che oggidì sia la terra di Caneto. Molte miglia separavano le due armate; ed ancorchè Svetonio e Mario ripugnassero alla risoluzion conceputa da Procolo di andare nel dì seguente (cioè circa il dì 15 di aprile) ad assalire i nemici, perchè l’arrivar colà stanchi i soldati era un principio d’esser vinti: Procolo persistè nella sua opinione, perchè sollecitato da [p. 271 modifica]più lettere di Ottone, che voleva battaglia. Si venne in fatti al combattimento15, che fu sanguinosissimo, credendosi che fra l’una e l’altra parte restassero sul campo estinte circa quarantamila persone, perchè non si dava quartiere. Ma la vittoria toccò all’armata di Vitellio. I generali di Ottone, chi qua chi là fuggitivi, scamparono colle reliquie della lor gente il meglio che poterono, valendosi del favor della notte16. Ma perchè nel dì seguente si aspettavano di nuovo addosso il vittorioso esercito, con pericolo d’essere tutti tagliati a pezzi, gli uffiziali, soldati e lo stesso Tiziano, fratello di Ottone, che si trovarono insieme, s’accordarono di fare una deputazione a Valente e Cecina, per rendersi. Fu accettata l’offerta, ed unitesi le non più nemiche armate, ognun corse ad abbracciare gli amici, a detestare gli odii passati, e condolersi delle morti di tanti. Giurarono i vinti fedeltà a Vitellio, e cessarono tutti i rancori. Portata questa lagrimevol nuova ad Ottone, dimorante in Brescello, non mancarono già i suoi cortigiani di animarlo, con fargli conoscere arrivate già ad Aquileia tre legioni della Mesia, salvate altre buone milizie a lui fedeli, non essere disperato il caso. Ma egli aveva già determinato di finirla, chi credette per orrore di una guerra civile, come attesta Svetonio17, chi per poca fortezza d’animo, e chi per acquistarsi una gloria vana con una risoluzion generosa. Pertanto attese spiritosamente nel resto del giorno a distribuir danaro a’ suoi domestici ed amici, a bruciar le lettere scrittegli da varie persone contra di Vitellio, affinchè non pregiudicassero a chi le avea scritte, e a dar altri ordini per la sicurezza di molti nobili ch’erano alla sua corte18. Prese anche nella notte seguente un po’ di sonno, ma fu disturbato da un rumor delle guardie, [p. 272]che minacciavano la morte a que’ senatori, i quali d’ordine suo erano per ritirarsi, e sopra tutto aveano assediato Virginio Rufo. Uscì Ottone di camera, e con buona maniera calmò quel tumulto. Poscia, sul far del giorno svegliato, intrepidamente si diede un pugnale nel petto, e di quella ferita fra poco morì in età di trentasette anni19. Al suo cadavero bruciato fu data quella sepoltura che si potè, cioè in terra, colla memoria del solo suo nome senza titolo alcuno. Una massa di monete d’oro, trovate sui primi anni del secolo, in cui scrivo, sul territorio di Brescello, fece credere ad alcuni che fossero ivi seppellite in occasion delle disgrazie di Ottone. Benchè usurpator dell’imperio, e screditato per varie sue ree qualità, cotanto era amato dai soldati, che alcuni d’essi, non meno in Brescello, che in Piacenza e in altri luoghi, pel dolore accompagnarono la di lui morte colla propria, secondo la detestabil usanza e frenesia di quei tempi. Dacchè i soldati, ch’erano in Brescello, non poterono indurre Virginio Rufo ad accettar l’imperio, si diedero ai generali di Vitellio. In un fiero imbroglio si trovò allora la maggior parte del senato che Ottone avea lasciato in Modena, perchè dall’un canto temeva oltraggi dall’armi di Vitellio, e dall’altro i soldati di Ottone tenendoli a vista d’occhio, e riputandoli nemici dell’estinto principe, cercavano pretesti per menar le mani contra di loro. Finalmente ebbero la fortuna di salvarsi a Bologna, dove si mostrarono disposti a riconoscere Vitellio; ma per qualche tempo se ne guardarono a cagion di una falsa voce portata da Ceno, liberto già di Nerone, che i vincitori erano poi stati vinti. Da queste paure non si riebbero se non allorchè arrivarono lettere di Valente che riferirono la vera positura degli affari. In Roma, subito che s’intese quanto era succeduto di Ottone, Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, fece prestar giuramento dal [p. 273 modifica]senato e dai soldati che ivi restavano, a Vitellio, e il senato gli accordò tutti gli onori consueti.

Intanto Vitellio, dopo aver lasciato ad Ordeonio Flacco un corpo di milizie per la guardia del Reno germanico, col resto delle genti che potè raccorre, si mise in viaggio verso l’Italia. Per istrada intese la vittoria de’ suoi e la morte di Ottone, e che Cluvio Rufo, governator della Spagna, avea ricuperate le due Mauritanie. Arrivato a Lione, quivi trovò non meno i vincitori che i vinti generali. Perdonò a Tiziano fratello di Ottone, perchè il conosceva per uomo dappoco. Conservò il consolato a Mario Celso. Svetonio e Procolo si acquistarono la di lui grazia con una viltà, asserendo di aver fatta consigliatamente perdere la vittoria ad Ottone nella battaglia di Bedriaco. Mandò Vitellio a Roma un editto, per cui proibiva ai cavalieri il combattere da gladiatori fra loro e contro le fiere negli anfiteatri. Un altro ancora, che tutti gli strologhi e indovini prima delle calende di ottobre fossero fuori d’Italia. Si vide attaccato nella stessa notte un cartello, in cui essi strologhi comandavano a lui di uscire del mondo prima del suddetto medesimo giorno. Se ne alterò talmente Vitellio, che qualunque d’essi che gli capitasse alle mani, senza processo il condannava alla morte. Grande odiosità si tirò egli addosso coll’aver inviato ordine che si levasse la vita a Gneo Cornelio Dolabella, uno de’ più illustri Romani, odiato da lui per particolari riguardi, che, relegato ad Aquino, era dopo la morte di Ottone ritornato a Roma. L’ordine fu barbaramente eseguito. Intanto a poco a poco tutte le provincie si andarono sottomettendo a lui; ma l’Italia era afflitta per le tante soldatesche del medesimo Vitellio e dell’altre che furono di Ottone. Senza disciplina saccheggiavano, uccidevano, e sotto l’ombra loro anche molti altri faceano ruberie e vendette. Entrato che fu Vitellio in Italia, trovò modo di dividere le [p. 274]milizie (e specialmente i pretoriani) che avevano servito ad Ottone, perchè le conobbe malcontente ed inquiete, e a poco a poco le andò cassando, con dar loro delle ricompense. Venne a Cremona, e volle coi suoi occhi vedere il campo dove s’era data (già scorreano quaranta giorni) la battaglia; ed avvegnachè fossero tuttavia insepolte quelle migliaia di cadaveri, e menasse un insopportabil fetore, non lasciò ordine che si seppellissero; anzi disse che l’odore di un nemico morto sapea di buono. Menava seco circa sessantamila combattenti, senza i famigli ed altre persone destinate al bagaglio, ch’erano più del doppio. Dovunque passava questa gran ciurma, lasciava lagrimevoli segni della sua rapacità e barbarie. Verso la metà di luglio arrivò a Roma, e, se non era distornato da’ suoi amici, volea farvi l’entrata in abito da guerra, come in una città conquistata. L’accompagnavano mandre di eunuchi e commedianti, secondo la usanza del suo maestro Nerone, e questi ebbero poi parte agli affari. Trovata Sestilia sua madre nel Campidoglio, le diede il cognome di Augusta; ma ella non se ne allegrò punto, anzi si vergognava di avere un sì indegno imperadore per figlio. Morì ella dipoi in quest’anno, non si sa se per iniquità del figliuolo, o per veleno da lei preso, prevedendo i mali che doveano avvenire. Fece dipoi Vitellio una nuova leva di coorti pretoriane sino a sedici, tutte di mille uomini per cadauna, e gente scelta. Due furono i prefetti del pretorio, cioè Publio Sabino e Giulio Prisco. Valente e Cecina potevano tutto in corte, ma sempre fra loro discordi. Diedesi poi questo ghiottone Augusto, com’era il suo stile, a fare del suo ventre un dio, ma con eccessi maggiori, a misura della dignità e del comodo accresciuto. Il suo mestiere cotidiano era mangiare e bere e vomitare per far luogo ad altri cibi e bevande. Consumava in ciò tesori; e molti si spiantarono per fargli de’ conviti. Non [p. 275 modifica]istimava nè lodava questo mostro se non le azioni di Nerone, e le imitava bene spesso, inclinando anche alla crudeltà, di cui rapporta Svetonio20 varii esempli; e se fosse sopravvissuto molto, forse sarebbe riuscito anche in ciò non inferiore a lui. La maniera di guadagnarlo soleva essere l’adulazione; ma siccome egli era timido e sospettoso, poco ci voleva a disgustarlo.

E fin qui abbiam veduto le due tragedie di Galba e di Ottone. Ora è tempo di passare alla terza. Di niuno più temeva Vitellio che di Flavio Vespasiano, generale dell’armi romane nella Giudea, dove si continuava la guerra con apparenza ch’egli fosse per assediar Gerusalemme. Allorchè gli venne la nuova che esso Vespasiano e Licinio Muciano, governator della Soria, il riconoscevano per imperadore, ne fece gran festa. Ed, in vero, sulle prime niuno mai s’avvisò che Vespasiano potesse arrivar all’imperio, nè egli vi aspirava, perchè bassamente nato a Rieti e mancante di danaro. Si raccontavano ancora molte viltà di lui nella vita privata; e Tacito21 ci assicura ch’egli si era tirato addosso l’odio e il dispregio de’ popoli; ma i fatti mostrarono poi tutto il contrario. Comunque sia, Dio l’aveva destinato a liberar Roma dai mostri, e a punire l’orgoglio de’ Giudei implacabili persecutori del nato Cristianesimo. Era egli per altro dotato di molte lodevoli qualità, perchè senza fasto, temperante nel vitto, amorevole verso tutti, e massimamente verso i soldati, che l’amavano non poco, ancorchè li tenesse in disciplina; vigilante e prudente, buono soldato e migliore capitano. Sopra tutto veniva considerato come amator della giustizia; la sua età era allora d’anni sessanta. Si può giustamente credere che dopo la morte di Galba i più saggi de’ Romani, al vedere che i due usurpatori Ottone e Vitellio, [p. 276]senza sapersi chi fosse il peggiore di loro, disputavano dell’imperio, rivolgessero i lor occhi e desiderii a Vespasiano, e segretamente ancora l’esortassero al trono. Flavio Sabino di lui fratello gran figura faceva anch’egli, coll’essere prefetto di Roma, e le sue belle doti maggiormente accreditavano quelle del fratello. O questo fosse, o pure che gli uffiziali e soldati di Vespasiano mirando quel che aveano fatto gli altri in Ispagna, Roma e Germania, non volessero essere da meno: certo è che si cominciò da essi a proporre di far imperadore Vespasiano. Quegli che diede l’ultima spinta all’irrisoluzione di esso Vespasiano, personaggio guardingo e non temerario, fu il suddetto Licinio Muciano governator della Soria, il quale dopo la morte di Ottone gli rappresentò, che non era sicura nè la comune lor dignità, nè la vita sotto quell’infame imperador di Vitellio. Si lasciò vincere in fine Vespasiano, ed essendo entrato nella medesima lega anche Tiberio Alessandro governator dell’Egitto, fu egli il primo a proclamarlo in Alessandria imperadore nel dì primo di luglio22; e lo stesso fece nel terzo giorno di esso mese anche la armata della Giudea, a cui Vespasiano promise un donativo, simile a quel di Claudio e di Nerone. La Soria, e tutte le altre provincie e i re sudditi di Roma in Oriente, e la Grecia alzarono anche esse le bandiere del novello Augusto. Furono scritte lettere a tutte le provincie dell’Occidente, per esortar ciascuno ad abbandonar Vitellio, usurpatore indegno del trono imperiale23. Si fece intendere ai pretoriani cassati da Vitellio, che questo era il tempo di farlo pentire; e veramente costoro arrolatisi in favor di Vespasiano, fecero di poi delle meraviglie contra di Vitellio.

Essendo così ben disposte le cose, e procacciate quelle somme di denaro che si poterono raccogliere per muovere le [p. 277 modifica]soldatesche, e in un gran consiglio tenuto in Berito, fu conchiuso che Muciano marcerebbe con un competente esercito in Italia; Tito, figliuolo di Vespasiano, già dichiarato Cesare, continuerebbe lentamente la guerra contro ai Giudei: e Vespasiano passerebbe nella doviziosa provincia dell’Egitto, per raunar danaro, ed affamare o provveder di grani Roma, secondochè portasse il bisogno. Muciano, uomo ambizioso, e che mirava a divenire in certa maniera compagno di Vespasiano nel principato, accettò volentieri quella incumbenza. Per timore delle tempeste non si arrischiò al mare; ma imprese il viaggio per terra, con disegno di passare lo stretto verso Bisanzio; al qual fine ordinò che quivi fossero pronti i vascelli del mar Nero. Non era molto copiosa e possente l’armata di Muciano, ma a guisa de’ fiumi regali andò crescendo per via: tanta era la riputazion di Vespasiano, e l’abbominazion di Vitellio. Nella Mesia le tre legioni che stavano ivi a’ quartieri, si dichiararono per Vespasiano; e l’esempio d’esse seco trasse due altre della Pannonia, e poi le milizie della Dalmazia, senza neppur aspettare l’arrivo di Muciano. Antonio Primo da Tolosa, soprannominato Becco di Gallo, forse dal suo naso (dal che impariamo l’antichità della parola Becco), uomo arditissimo24, sedizioso ed egualmente pronto alle lodevoli che alle malvage imprese, quegli fu che colla sua vivace eloquenza commosse popoli e soldati contra di Vitellio, nè aspettò gli ordini di Vespasiano o di Muciano, per farsi generale di quelle legioni. Che più? Chiamati in soccorso i re degli Svevi ed altri Barbari, e trovato che quelle milizie nulla più sospiravano che di entrare in Italia, per arricchirsi nello spoglio di queste belle provincie, di sua testa con poche truppe innanzi agli altri calò in Italia, e fu con festa ricevuto in Aquileia, Padova, Vicenza, Este, ed altri luoghi di quelle parti. Mise in rotta un corpo [p. 278]di cavalleria, ch’era postata al Foro da Alieno, dove oggidì è Ferrara. Rinforzato poi dalle due legioni della Pannonia (soleva essere ogni legione composta di seimila soldati), s’impadronì di Verona, e quivi si fortificò. Colà ancora giunse Marco Aponio Saturnino con una delle legioni della Mesia, e concorse ad arrolarsi sotto di Primo gran copia dei pretoriani licenziati da Vitellio. Ancorchè fosse sì grande il suscitato incendio, non s’era per anche mosso l’impoltronito Vitellio. Svegliossi egli allora solamente, che intese penetrato il fuoco fino in Italia. Perchè Valente non era ben rimesso da una sofferta malattia, diede il comando delle sue armi ad Alieno Cecina, con ordine di marciare speditamente contra di Antonio Primo. Venne Cecina con otto legioni almeno, cioè con tali forze che avrebbe potuto opprimerlo. Mandò parte delle milizie a Cremona, e col più della gente armata si portò ad Ostiglia sul Po. Macchinando poi altre cose, perdè apposta il tempo in iscrivere lettere di rimproveri e minacce ai soldati di Primo, ed intanto lasciò che arrivassero a Verona le due altre legioni della Mesia. Finalmente, dappoichè intese che Luciano Basso, governatore della flotta di Ravenna, con cui teneva intelligenza, verso il di 20 d’ottobre s’era rivoltato in favor di Vespasiano: allora, come se fosse disperato il caso per Vitellio, si diede ad esortare i soldati ad abbracciare il partito di Vespasiano, e molti ne indusse a prestar giuramento a lui, e a rompere le immagini di Vitellio. Ma gli altri, che non poteano sofferir tanta perfidia, e quegli stessi che poc’anzi aveano giurato25, presi dalla vergogna e pentiti, si scagliarono contra di lui, senza alcun rispetto al carattere di console, incatenato l’inviarono a Cremona, e cominciarono a caricar anch’essi il bagaglio, per passare colà.

Ad Antonio Primo, ch’era in [p. 279 modifica]Verona, fu portata dalle spie l’informazione di quanto era accaduto ad Ostiglia, e subito fu in armi, per impedir l’unione di quell’esercito con quel di Cremona. Inoltratosi sino a Bedriaco, luogo fatale per le battaglie, e circa nove miglia lungi da quel sito, s’incontrò colle soldatesche di Vitellio, che uscite di Cremona venivano per unirsi con quelle d’Ostiglia. Ciò fu circa il dì 26 di ottobre. Dopo sanguinoso conflitto le mise in rotta, obbligando chi scampò dalle sue spade a rifugiarsi in Cremona. Ad alte voci allora dimandarono i vittoriosi soldati di andar dirittamente a Cremona, per isperanza d’entrarvi e per avidità di saccheggiarla. Nè gli avrebbe potuto ritenere Primo, se non fosse giunto l’avviso che s’appressava l’altra armata partita da Ostiglia, e in ordinanza di battaglia. Era già sopraggiunta la notte, e pure i due eserciti vennero alle mani con ardore, con fierezza inaudita, combattendo, per quanto comportavano le tenebre, senza distinguere talvolta chi fosse amico o nemico. Levatasi poi la luna, cominciò Primo a provarne del vantaggio, perchè essa dava nel volto ai nemici. Durò il combattimento tutto il resto della notte, e fatto poi giorno, avendo la terza legione, già venuta di Soria, secondo l’uso di que’ paesi, salutato il sole con alti ed allegri Viva, questo rumore fece credere a que’ di Vitellio che l’esercito di Muciano fosse arrivato, e diede loro tal terrore, che riuscì poi facile a Primo lo sconfiggerli ed obbligarli alla fuga. Giuseppe26, narrando che dei soldati di Vitellio in queste azioni perirono trentamila e dugento persone, quattromila e cinquecento di quei di Vespasiano, verisimilmente, secondo l’uso delle battaglie, ingrandì di troppo il racconto, nè noi siam tenuti a prestargli fede. Bensì possiam credere a Dione allorchè dice, che oscurandosi talvolta la luna per qualche nuvola, cessava il combattimento; e che i soldati emuli vicini parlavano [p. 280]l’uno all’altro, chi con villanie, chi con parole amichevoli, e con detestar le guerre civili, e con invitar l’avversario a seguitar Vitellio o pur Vespasiano. Ma non c’è già ragion di credere che l’uno porgesse all’altro da mangiare e da bere, finchè non si provi che i soldati di allora erano sì bravi od industriosi da portar seco anche nel furor delle zuffe le loro bisacce al collo, coll’occorrente cibo e bevanda. Tanto poi Dione quanto Tacito ci assicurano che incomodando forte una grossa petriera, con lanciar sassi, l’esercito di Vespasiano, due coraggiosi soldati, dato di piglio a due scudi degli avversarii, si finsero Vitelliani; ed arrivati alla macchina ne tagliarono le funi, con render essa inutile, ma con restar anch’essi tagliati a pezzi senza che rimanesse memoria alcuna del lor nome. Dopo lo spoglio del campo, a Cremona, a Cremona, gridarono i vincitori soldati. Bisognò andarvi. Si credevano di saltarvi dentro, ma trovarono un impensato ostacolo, cioè un alto e mirabil trinceramento, fatto fuor della città nella precedente guerra di Ottone, alla cui difesa era accorsa quasi tutta la milizia esistente in Cremona. Fecero delle maraviglie i soldati di Vespasiano per superar quel sito: tanta era la lor gola di arrivar al sacco di quella ricca città, che Antonio Primo avea loro benignamente accordato: il che fatto, assalirono la città. Con tutto che questa fosse cinta di forti mura e torri e piena di popolo, invilirono sì fattamente i soldati vitelliani, che non tardarono a trattare di rendersi. Scatenarono per questo Alieno Cecina, acciocchè s’interponesse nel perdono, ed esposero bandiera bianca. Uscì Cecina vestito da console co’ suoi littori, cioè colle sue guardie, e passò al campo dei vincitori, ma accolto da tutti con ischerni e rimproveri, perchè la perfidia suol essere pagata coll’odio d’ognuno. D’uopo fu che Antonio Primo il facesse scortare, tanto che fosse in luogo sicuro, da potersi portare a trovar Vespasiano. [p. 281 modifica]Fu perdonato ai soldati di Vitellio, ma non già all’infelicissima città allora celebre per bellissime fabbriche, per gran popolo, per molte ricchezze27. Quarantamila soldati, e un numero maggior di famigli e bagaglioni, come cani v’entrarono. Stragi e stupri senza numero; non si perdonò neppure ai templi: tutto andò a sacco; e in fine si attaccò il fuoco alle case. Gli stessi soldati di Vitellio, che prima difendeano quella città, gareggiarono in tanta barbarie con gli altri; anzi fecero di peggio, perchè più pratici de’ luoghi. Che vi perissero cinquantamila di quegli innocenti e miseri cittadini, lo scrive Dione. A me par troppo. Gli abitanti rimasti in vita furono tenuti per ischiavi, e poi riscattati. Per cura di Vespasiano venne poi riedificata e popolata di nuovo quella città.

Vitellio intanto se ne stava in Roma agitato, e con isfoggiata tavola, niuna apprensione mostrando di tanti romori. Ma quando cominciarono sul fine di ottobre ad arrivare l’un dietro l’altro i funesti avvisi di quanto era succeduto, allora gli corse il freddo per l’ossa. E poscia udendo che Antonio Primo s’era messo in cammino per venire a Roma, buffava, non sapea più dove si fosse, ora pensando a far ogni sforzo per resistere, ora a dimettere l’imperio, ed a ritirarsi a vita privata, ora facendo il bravo con la spada al fianco, ed ora il coniglio, con far ridere il senato, e con trovare ormai poca ubbidienza ne’ pretoriani. Tuttavia spedì Giulio Prisco ed Alfeno Varo con quattordici coorti pretoriane, e tutti i reggimenti, di cavalleria, a prendere i passi dell’Apennino28, e vi aggiunse la legione dell’armata navale: esercito sufficiente a sostener con vigore la guerra, se avesse avuto capitani migliori. Si postò a Bevagna quest’armata, e colà ancora si portò poi lo stesso Vitellio, benchè solennissimo poltrone, per le istanze dei [p. 282]soldati. Attediossi ben presto di quel soggiorno, e venutagli poi nuova che Claudio Faentino e Claudio Apollinare aveano indotta alla ribellione l’armata navale del Miseno, e le città circonvicine, se ne tornò a Roma, ed inviò Lucio Vitellio suo fratello ad occupar Terracina per opporsi da quella banda ai ribelli. Ma Antonio Primo colle milizie fedeli a Vespasiano, alle quali egli permetteva il far quante insolenze ed iniquità volevano nel viaggio, passò l’Apennino. Pervenuto che fu a Narni, se gli arrenderono la legione e le coorti inviate contra di lui da Vitellio. E pur Vitellio in sì duro frangente seguitava a starsene con tal torpedine in Roma, che la gente sapea bensì esser egli il principe, ma parea di non saperlo egli stesso. Ogni dì nuove, l’una più dell’altra cattive. A Fabio Valente suo generale, ch’era stato preso nell’andar nelle Gallie, e rimandato ad Urbino, tagliata fu la testa, per far conoscere ai Vitelliani falsa una voce, ch’egli avesse messa in armi la Germania e Gallia contra di Vespasiano. Vero all’incontro era che anche le Spagne, le Gallie e la Bretagna riconobbero Vespasiano per imperadore. Poc’altro che Roma ormai non restava a Vitellio; e però Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, che fin qui era stato prefetto della città, con fedeltà e buona intelligenza di Vitellio, desiderando di salvar Roma da più gravi disordini, avea proposto dei temperamenti a Vitellio stesso, per salvargli la vita. Altrettanto aveano fatto con lettere Muciano e Primo; e già s’era in concerto che Vitellio, deponendo l’impero, ne riceverebbe in contraccambio un milione di sesterzii e terre nella Campania. In fatti egli nel dì 18 di dicembre, uscito di palazzo in abito nero co’ suoi domestici, e col figliuolo tuttavia fanciullo, piangendo dichiarò al popolo che per bene dello Stato egli deponeva il comando; ma nel voler consegnare la spada al console Cecilio Semplice, nè questi nè gli altri la vollero accettare. A tale [p. 283 modifica]spettacolo commosso il popolo protestò di non volerlo sofferire; ma scioccamente, perchè tutto si rivolse poscia in danno della città e rovina maggior di Vitellio. Trovavasi in questo mentre un’assemblea de’ primi senatori, cavalieri ed uffiziali militari presso Flavio Sabino29, trattando del buono stato di Roma, colla persuasione che veramente fosse seguita, o che seguirebbe la rinunzia di Vitellio. Alla nuova dell’abortito trattato, fu creduto bene che Sabino andasse al palazzo per esortare o forzar Vitellio a cedere. Andò egli accompagnato da una buona truppa di soldati; ma per via essendosi incontrato colla guardia de’ Tedeschi, si venne ad un picciolo combattimento. Salvossi Sabino nella rocca del Campidoglio con alcuni senatori e cavalieri, e co’ due suoi figliuoli Sabino e Clemente, e con Domiziano figlio minore di Vespasiano. Quivi assediato fece una meschina difesa; v’entrarono i Germani, ed appiccato il fuoco al Campidoglio (non si sa da chi), si vide ridotto in cenere quell’insigne luogo, con perir tante belle memorie che ivi erano: accidente sommamente compianto dal popolo romano. Fuggirono di là Domiziano, i figli di Sabino; non già l’infelice Sabino, che, preso dai Germani insieme con Quinzio Attico console, fu condotto carico di catene davanti a Vitellio. Si salvò Attico; ma Sabino, uomo di gran credito e di raro merito, e fratello maggiore di Vespasiano, sotto le furiose spade di que’ soldati perdè la vita: del che più che d’altro s’afflisse dipoi Vespasiano, ma non già Muciano che il riguardava come ostacolo all’ascendente della sua fortuna.

Antonio Primo, informato di queste lagrimevoli scene, mosse allora il suo campo alla volta di Roma, dove si trovò all’incontro la milizia di Vitellio, e lo stesso popolo in armi. Giacchè egli e Petilio Cereale non vollero dar orecchio alle proposizioni di qualche accordo, varii [p. 284]combattimenti seguirono, favorevoli ora all’una ed ora all’altra parte; ma finalmente rimasero superiori quei di Vespasiano. Furono presi varii luoghi di Roma, e il quartiere de’ pretoriani, commessi molti saccheggi colle consuete appendici, e strage di tanta gente, che Giuseppe30 e Dione la fanno ascendere a cinquantamila persone31. Veggendosi allora a mal partito Vitellio, dal palazzo fuggì nell’Aventino, con pensiero di andarsene nel dì seguente a trovar Lucio suo fratello a Terracina. Ma sul falso avviso che non erano disperate le cose, tornò al palazzo, e trovato poi che ognun se n’era fuggito, preso un vile abito, con una cintura piena d’oro, andò a nascondersi nella cameretta del portinaio, oppur nella stalla de’ cani, da più di uno de’ quali fu anche morsicato. A nulla gli servì questo nascondiglio. Scoperto da un tribuno, per nome Giulio Placido, ne fu estratto, e con una corda al collo, colle mani legate al di dietro, fu menato per le strade, dileggiato, e con picciole punture trafitto in varie forme dai soldati, ed ingiuriato dal popolo, senzachè alcuno compassion ne mostrasse; anzi correndo ognuno a rovesciar le sue statue sotto gli occhi di lui. Credette di fargli servigio un soldato tedesco, per levarlo da tanti obbrobrii, e gli lasciò sulla testa un buon colpo: il che fatto, si ammazzò da sè stesso, ovvero, come si ha da Tacito, fu ucciso dagli altri. Terminò la sua vita Vitellio, coll’essere gittato giù per le scale gemonie; il cadavero suo fu coll’uncino strascinato al Tevere, e la sua testa portata per tutta la città. Era in età di cinquantasette anni; e questo frutto riportò egli dalla sconsigliata sua ambizione, alzato da chi nol conosceva a sì sublime grado, ed abborrito da chi sapea di sua vita, riguardandolo per troppo indegno dell’imperio, e certamente incapace di sostenerlo con tanto perversi [p. 285 modifica]costumi e sì grande poltroneria. Restò bensì libera Roma dall’usurpatore Vitellio, ma non già dalle atroci pensioni della guerra civile. Per lungo tempo durarono i saccheggi e gli omicidii. Maltrattato era chiunque fu amico di Vitellio, e sotto questo pretesto si estendeva ad altri la feroce avidità dei vittoriosi e licenziosi soldati: in una parola, tutto era lutto, confusione e lamenti in Roma ed altrove. Ancorchè Domiziano, figlio di Vespasiano, fosse ornato immediatamente col nome di Cesare, pure niun rimedio apportava, intento solo a sfogar le passioni proprie della scapestrata gioventù. Lucio Vitellio, fratello dell’estinto Augusto, venne ad arrendersi colle sue soldatesche, sperando pure miglior trattamento; ma restò anch’egli barbaramente ucciso. Fece lo stesso fine Germanico, piccolo figliuolo del medesimo imperadore. Subito che si potè raunare il senato, furono decretati a Flavio Vespasiano tutti gli onori soliti a godersi dagl’imperadori romani. E bisogno ben grande v’era di un sì fatto imperadore, sì per rimettere in calma la sconcertata Roma ed Italia, come ancora per dar sesto alla Germania e Gallia dove Claudio Civile avea mosso dei gravi torbidi che accenneremo fra poco. Guerra eziandio era nella Giudea, guerra nella Mesia e nel Ponto. Sovrastavano perciò danni e pericoli non pochi alla romana repubblica, se non arrivava a reggerla un Augusto, che per senno e per valore gareggiasse coi migliori.

  1. Tacitus, Historiar., lib. I, cap. 7. Dio., lib. 64.
  2. Sueton., in Vitellio, cap. 7.
  3. Plutarc., in Galba. Tacit., Historiar., lib. 1, cap. 55.
  4. Tacit., Historiar., lib. I, cap. 12.
  5. Sueton., in Othone, cap. 5.
  6. Tacitus, Historiar., lib. I, c. 27. Plutarchus, in Galba.
  7. Tacitus, lib. I, cap. 77.
  8. Plutarc., in Othone.
  9. Tacitus, Hist., lib. I, cap. I.
  10. Idem, ibid., cap. 61 et seq.
  11. Plutarchus, in Othone.
  12. Suetonius, in Othone, cap. 8. Dio., lib. 64. Tacitus, Histor., lib. I, cap. 74.
  13. Tacitus, Histor., lib. 2, cap. 21.
  14. Plutarc., in Othone.
  15. Dio., lib. 64.
  16. Plutarc., in Othone.
  17. Sueton., in Othone, cap. 10.
  18. Tacitus, Histor., lib. 2, c. 48.
  19. Plutarcus, in Othone.
  20. Sueton., in Vitellio, cap. 24. Dio., lib. 64.
  21. Tacitus, Histor., lib. 2, c. 97. Suetonius, in Vespasiano, c. 4.
  22. Joseph., de Bello Judaic., lib. 4.
  23. Tacitus, Historiar., lib. 2, cap. 82.
  24. Sueton., in Vitellio, cap. 18.
  25. Dio., lib. 65. Tacitus, Histor., lib. 3, cap. 13.
  26. Joseph., de Bello Judaico, lib. 5, cap. 13.
  27. Tacitus, Historiar., lib. 3, c. 33. Dio., lib. 65.
  28. Tacitus, Historiar., lib. 3, cap. 55.
  29. Dio., lib. 65. Tacitus, Histor., lib. 3, cap. 69.
  30. Joseph., de Bel. Jud., lib. 4, cap. 42. Dio., lib. 65.
  31. Sueton., in Vitellio, cap. 16.