Aiace (Sofocle - Romagnoli)/Parodo
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Prologo | Primo episodio | ► |
CANTO D’INGRESSO DEL CORO
I guerrieri compagni d’Aiace entrano e si aggruppano dinanzi alla tenda d’Aiace.
coro
Di Telamone figlio, che reggi
Salamina, che siede sul mare
ond’è cinta, se tu sei felice,
145io m’allegro; ma quando t’investe
qualche colpo di Giove, o dei Dànai
qualche trista calunnia, io mi turbo,
tutto trepido, come pupilla
di pennuta colomba. Come ora,
150gran susurri all’orecchio ci giunsero
d’uno sconcio compiuto la notte
che or ora è trascorsa:
che, irrompendo sul piano battuto
dai cavalli, l’armento e la preda,
155quanta ancor ne restava, dei Dànai,
con la lucida spada tu avevi
sterminata, distrutta. Susurri
di calunnie cosí va fingendo,
e all’orecchio di tutti li reca
160il figliuol di Laerte. Ed assai
li convince quanto egli racconta,
verisimile sembra. E chi ascolta,
gode piú di chi parla, e l’ingiuria
si compiace a scagliarti. Se volgi
165contro l’anime grandi la mira,
non puoi colpo fallir: chi scagliasse
contro me la medesima ingiuria,
niun convinto farebbe: ché Invidia
repe sol contro i grandi. Sebbene,
170senza i grandi, i piccini sarebbero
baluardo ben debole: il piccolo
si può reggere solo coi grandi,
coi piccoli il grande.
Ma possibil non è quanti d’essi
175sono stolti, convincere in tempo:
da tal gente ti viene l’oltraggio.
E noi, nulla possiamo ribattere,
o Signor, senza te. Ma, se invece,
il tuo viso vedranno, in tumulto
180fuggiran, come stormi d’uccelli:
per timore del grande avvoltoio,
se improvviso ti mostri, ben presto
resteranno, tremando, in silenzio.
I guerrieri si aggruppano tutti dintorno all’ara di Diòniso.
PRIMO CANTO INTORNO ALL’ARA
coro
Strofe I
Forse la figlia del Croníde, Artèmide
185la Tauropòlia1 — o trista Fama, origine
della vergogna mia —
te sopra i buoi della comune greggia
spinse, o perché d’una vittoria il premio
fu conteso all’Iddia,
190o d’un’inclita spoglia, o d’una caccia
di cervi? O il Dio cinto di bronzo, Eníalo2
ti die’ soccorso, e te ne colse oblio;
e il notturno or ne sconti obliquo fio?
Antistrofe I
Non di tua voglia per obliqui tramiti
195sí ti sviasti, o figlio di Telàmone,
da piombar sugli armenti:
divino morbo ti colpí. Ma sperdano
degli Argivi i susurri Giove e Apòlline.
Se poi, con ladri accenti
200ti colpîr di calunnia i sommi principi,
oppure il germe del ribaldo Sísifo3,
esci, orsú, dalla tua marina tenda,
pria che vigore la calunnia prenda.
Epodo
Sorgi, su dunque, dal luogo,
205dove, confitto restando nei lunghi contrasti,
una sciagura eccitasti
che levasi al ciel come un rogo.
Ché dei nemici l’oltraggio,
senza piú freno si spande
210lunghesse le valli, ed il vento
lo accresce, fra un murmure grande
di tutte le lingue acerbissime;
e pieno è il cuor mio di tormento.
Dalla tenda esce Tecmessa.
tecmessa
Della nave d’Aiace o ministri,
215dei terrigeni Erèttidi o stirpi,
dobbiam gemere, noi che abbiam cura
della casa d’Aiace: ché lungi
è l’eroe dalle valide spalle,
il gigante, il terribile, e giace
220nella furia di torba procella.
coro
Qual travaglio recò questa notte,
dopo quello del giorno? O del Frigio
Teleutànte figliuola, or tu parla,
poiché te, sposa e preda di guerra,
225predilige il fortissimo Aiace:
sicché puoi non ignara parlare.
tecmessa
Come dir ciò che dire è impossibile?
Un cordoglio saprai, della morte
piú doglioso: il fortissimo Aiace
230da follia còlto fu questa notte,
svergognato ne fu: tali vittime
puoi veder di sua mano sbranate
nella tenda, ed immerse nel sangue.
Tali furono i suoi sacrifizi.
coro
Strofe II
235Deh, quale intollerabile
incancellabil macchia
del Sire ardente a noi tu sveli; e i principi
dei Dànai la divulgano,
e il parlar lungo a lei vigore dà.
240Del futuro pavento. Quando ei saprà lo scempio,
saprà che col suo ferro sgozzò pastori e mandrie,
dalla propria frenetica mano spento morrà.
tecmessa
Ahimè, di lí venne, di lí,
conducendo una greggia captiva.
245Ed a terra una parte qui dentro
ne scannò, giú pei fianchi divise
in due parti quell’altre; e, levati
due montoni dai candidi piedi,
miete all’uno la lingua e la testa,
e le gitta lontane; e quell’altro,
ad una colonna
lo lega diritto; e una sferza
da legare cavalli impugnata.
l’addoppia e la fa sibilare
sul suo corpo, avventando improperi
che niuno degli uomini,
che niuno gl’insegna dei Dèmoni.
coro
Antistrofe II
È tempo ch’io, celandomi
nei panni il capo, a rapida
fuga il mio pie’ sospinga, e sopra l’agile
banco seduto, remighi,
lanci la nave sui gorghi del mar:
tali minacce avventano su me gli Atridi. Io trepido
che con lui, posseduto da un destino implacabile,
sotto le pietre il fio debba scontar.
tecmessa
Non piú: ch’egli, a pari di Noto,
quando folgor non brilla, desiste
dalla furia; ed al senno tornato,
nuova doglia or lo cruccia: ché i mali
contemplare che a noi procacciammo
noi medesimi, senza concorso
d’altrui, grave doglia c’infligge.
coro
Cessato il morbo, tornerà fortuna.
Meno del mal che lungi andò, si parla.
Note
- ↑ [p. 244 modifica]Artemide la Tauropolia fu portata in Grecia dalla Tauride ed era placata col sangue.
- ↑ [p. 244 modifica]Enialo era una divinità confusa spesso, anche dagli antichi, con Marte; aveva un tempio nell’isola di Salamina, patria di Aiace.
- ↑ [p. 244 modifica]Il germe del ribaldo Sisifo è Ulisse, il quale, secondo una tradizione postomerica, sarebbe figlio di Sisifo e di Anticlea, che l’avrebbe partorito dopo sposato Laerte.