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I casi giudiziari - 18. Il suicidio e le polemiche

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18. Il suicidio e le polemiche


Aaron si tolse improvvisamente la vita nel suo appartamento di Brooklyn l’11 gennaio 2013.

Non lasciò lettere, né biglietti, né messaggi. È, quindi, operazione assai azzardata cercare di entrare nella sua mente, e nel suo umore di quella mattina, per individuare delle motivazioni.

Le ipotesi che si possono fare sono molte. Fu, forse, il timore di sacrificare una buona parte della sua vita in prigione a causa di un comportamento veniale, percepito, comunque, da gran parte della comunità di attivisti che frequentava come giusto e, soprattutto, non nocivo? O aleggiava l’incubo dell’impossibilità, a causa di una condanna e dell’ammissione di un grave reato, di ottenere un incarico pubblico in politica? O, ancora, era stata la lunga situazione processuale ad averlo logorato e ad aver acuito preesistenti sintomi di disagio?

Nessuno lo può sapere. Di certo, dopo un simile, tragico fatto, che ebbe un impatto forte in tutto il mondo, prese il via un’analisi certosina, sociale e politica, del suo gesto, portata avanti soprattutto da familiari ed esponenti della stampa, per cercare di comprendere il perché.

La polemica si spostò, innanzitutto, sulla violenza di quell’azione giudiziaria.

Quanto poteva essere percepita come brutale, da un giovane come lui e, soprattutto, da un carattere come il suo, l’esperienza di essere indagati per reati così gravi?

I procuratori, dal canto loro, avevano fatto la scelta di usare tutte le armi in loro possesso – anche le più potenti, quelle pensate per terroristi, narcotrafficanti e pedofili – per perseguire un fatto che, in fin dei conti, si era rivelato di poca importanza. L’amministrazione della giustizia e la politica avevano allora voluto fare di Aaron, suo malgrado, un esempio? Come in Antigone, si trovava a dover pagare sulla sua pelle la colpa dei padri e l’ostilità nei confronti del mondo hacker, che il governo statunitense portava avanti da decenni?

Molte voci, di conseguenza, iniziarono ad accusare il governo nordamericano di aver chiaramente contribuito alla morte del ragazzo.

L’accusa non aveva preso in considerazione, con la dovuta attenzione, i problemi di salute e personali, che trasparivano anche da alcuni scritti sul suo blog. E ciò, nonostante più volte gli avvocati e i familiari avessero segnalato al procuratore come il giovane fosse a rischio-suicidio in caso di condanna a un periodo di carcere.

Un trauma molto profondo, di cui soffrì Aaron durante le fasi investigative, fu legato al rapporto processuale tra il procuratore Heymann e Quinn Norton, giornalista e attivista, con cui Aaron aveva avuto un’importante relazione – anzi, la sua prima relazione – e a cui era rimasto molto legato, sia a lei, sia alla figlia. [p. 160 modifica]

Avevano anche vissuto insieme, in passato, e Aaron rimase molto colpito quando Quinn diede mandato a un avvocato per gestire la sua posizione processuale e difenderla, nel momento in cui la procura si fece viva nei suoi confronti in maniera molto aggressiva.

La procura offrì a Quinn l’immunità in cambio di una collaborazione con l’accusa per ottenere informazioni su Aaron, le sue attività e le sue possibili motivazioni criminali.

La donna si spaventò molto per questo coinvolgimento nel procedimento – conservava sul suo computer, di cui fu minacciato il sequestro, anni di informazioni e di contatti con fonti riservate – e decise, così, di cooperare con l’accusa, dicendo tutto quello che sapeva.

In realtà, non sapeva nulla di importante e segnalò, semplicemente, alcuni passaggi “minacciosi” del solito Guerrilla Open Access Manifesto. Aaron, però, interpretò questo fatto come un vero e proprio tradimento, e si sentì ancora più solo.

Quinn si giustificherà, poco dopo, affermando di aver semplicemente seguito le indicazioni dei suoi avvocati, dal momento che non aveva ben compreso la situazione e non si rendeva conto dell’impatto di ciò che stava facendo. Soprattutto, con l’immunità le era anche stato imposto di non parlare con nessuno di ciò che aveva rivelato, e fu costretta a mantenere il segreto anche con Aaron.

Il 4 marzo 2013 Quinn pubblicò un sofferto articolo su The Atlantic, dove descrisse in dettaglio la convocazione presso la procura e la sofferenza di questo passaggio processuale e di quei frangenti.

L’esordio del suo lungo sfogo parte, proprio, dall’idea di solitudine e di paura che genera, nel cittadino comune, un’indagine federale.

Una volta che la vostra vita si ritrova all’interno di un’indagine federale – scrive Quinn – non c’è più spazio al di fuori di essa. L’unica cosa privata sono i vostri pensieri, e anche quelli non sono più al sicuro. Ogni parola che pronunciate, o scrivete, può essere usata, manipolata o giocata come una carta contro il vostro futuro e quello delle persone che amate. Non ci sono parti neutrali, né fonti di saggezza e fiducia ineccepibili. Gli avvocati vi dicono: non prendete appunti. Gli avvocati vi dicono: non parlate con nessuno. È la più grande delle solitudini essere circondati dai propri cari, in pericolo, e costretti al silenzio. Che voi non dobbiate mai vivere un’indagine federale. Io l’ho vissuta, e mi ha consumato e ha cambiato ogni giorno successivo per il resto della mia vita.

L’incubo di Quinn iniziò con una telefonata di Aaron da una stanzetta di una prigione, e quell’incubo durò mesi, fino al tragico esito finale che colpì quello che la donna considerava il suo migliore amico: avevano avuto una relazione, in passato, che era durata ben quattro anni e avevano convissuto per un anno. Una relazione complicata: lei giornalista investigativa e attivista, legata al mondo [p. 161 modifica] degli hacker e della tecnologia, lui estremamente riservato. Non le aveva nemmeno confidato quanto avesse guadagnato dalla vendita di Reddit.

L’Epifania del 2011, il giorno dell’arresto di Aaron, cambiò anche la vita di Quinn: al telefono il ragazzo era freddo e preoccupato, le chiese di contattare il suo avvocato a Boston e di trovare qualcuno che potesse pagare la cauzione di 1.000 dollari per uscire di galera.

Nonostante Aaron non parlasse del caso – si riferiva genericamente a un accesso alla rete del MIT – Quinn, vista la sua esperienza, era molto preoccupata. Sapeva che quando il governo federale si interessa dei temi dell’hacking e dei computer crimes, non c’è da stare tranquilli.

Sono una giornalista che si occupa di hacker – scrive Quinn – Sono il mio campo e i miei amici: ho visto persone aggredite e perseguitate. Una ricerca o una presentazione a una conferenza si trasformavano improvvisamente in un’indagine, in telefonate e incontri con avvocati. Ci aspettavamo incursioni, sorveglianza e minacce da parte di uomini potenti, che nel mio mondo non sapevano distinguere i buoni dai cattivi.

E il mese dopo, come Quinn aveva previsto, i Secret Services si presentarono al domicilio di Aaron e al suo ufficio presso l’Harvard Ethics Center, per sequestrare hard disk, computer e telefoni.

Dopo aver “visitato” Aaron, i Secret Services si recarono, all’inizio di marzo, anche presso la residenza di Quinn. Iniziarono a farle domande su Aaron e mostrarono un mandato di comparizione davanti al Gran Giurì per lei. Volevano, a fini investigativi, tutte le comunicazioni intercorse tra loro, soprattutto quelle che riguardavano i casi JSTOR e MIT.

Quinn ricorda come, in quei frangenti, accanto alle preoccupazioni, per così dire, criminali, vi fossero anche quelle economiche.

«Un altro fattore che gli amici e la stampa prospettarono come potenzialmente influente» – ricorda Quinn – «fu un grave problema economico: vi erano, in previsione, milioni dollari di spese processuali alla partenza del processo, e i risparmi di Aaron erano ormai terminati».

Quinn si rivolge a un avvocato per valutare meglio la sua posizione e inizia a soffrire per il caso, e per il suo amico, con stress e dolori che la costringono ad assumere pesanti medicinali.

L’incontro con gli avvocati Adam e Jose, dello studio Fish and Richardson, porta Quinn a riflettere su una possibile strategia processuale. Ma non era certamente un ambito nel quale si sentisse a proprio agio: lei era legata ai mondi hacker, cresciuta povera con un padre veterano del Vietnam, arrestato perché coinvolto nel traffico di droga. Era decisamente fuori posto.

Gli avvocati le dissero, come prima cosa, di non parlare con Aaron e di non frequentarlo. Indicazioni che lei, molto spesso, disattese. Soprattutto, non avrebbero dovuto discutere del caso. [p. 162 modifica]

Quinn e Aaron erano anche preoccupati per le sorti di Ada, la figlia di sette anni di Quinn. Non volevano che quello che stava succedendo la toccasse in qualche modo.

Un’ulteriore preoccupazione, per Quinn, riguardava i contenuti del suo computer portatile: conteneva interviste, corrispondenza e comunicazioni con fonti riservate per vicende risalenti fino a cinque anni prima, e vi era un riferimento esplicito, nel mandato di comparizione, per l’acquisizione di contenuti proprio da quello specifico computer.

Quinn non voleva in alcun modo consegnare la sua password al procuratore, lo aveva ribadito chiaro ai suoi avvocati. Piuttosto, sarebbe andata in prigione. Per di più, aveva l’abitudine di registrare qualsiasi conversazione, una prassi che fece infuriare Aaron.

In primavera, in un momento di confidenza, Aaron rivela a Quinn che Heymann, il pubblico ministero, gli aveva offerto un accordo: tre mesi di prigione, tre mesi in una sorta di centro di recupero e tre mesi di libertà vigilata, e la contestazione di un solo reato.

Mi disse che avrebbe accettato se avessi voluto – ricorda Quinn – Ne parlammo, di cosa avrebbe significato per lui avere sulla fedina penale un reato grave, per la sua vita e i suoi sogni in politica. Pensai a mio padre, mandato a State Penn quando avevo 17 anni, e a come la cosa lo avesse distrutto. Non aveva resistito a lungo dopo la prigione. Essere un criminale, in questo Paese, significa essere un paria, non essere ascoltato. Aaron desiderava più di ogni altra cosa parlare con il potere, fare riforme proprio nel sistema che lo stava attaccando ora. Nella maggior parte degli Stati, un criminale non può nemmeno votare. Il pensiero che non potesse votare era inammissibile. Ma la verità è che volevo che accettasse il patteggiamento e che la cosa finisse. Volevo non avere più paura, non avere più a che fare con queste persone. Nove mesi non sembravano così lunghi e sono stata molto vicina a chiedergli di farlo. Ma lo guardai e pensai al PCCC (il primo dei suoi gruppi di azione politica), a Demand Progress, a Washington DC e a tutto il lavoro che aveva fatto. «Se vuoi combattere, devi farlo», gli ho detto. Gli ho detto che lo avrei sostenuto.

Questo momento di riflessione con Aaron, se accettare o no l’offerta, provò ancora di più Quinn, soprattutto perché scelse di non spingere troppo sul punto, di non provare a convincerlo, e pensò di non aver valutato correttamente i rischi di entrare in un ambiente e in un meccanismo, quello della giustizia, che comunque non conoscevano.

Aaron riferì a Quinn, poco dopo, che il procuratore era andato su tutte le furie quando aveva saputo del rifiuto dell’offerta di patteggiamento.

Gli avvocati di Quinn le consigliarono, al contrario, di collaborare. Di mantenere un approccio amichevole. Del resto, le informazioni in suo possesso sulle attività e le motivazioni di Aaron erano praticamente nulle: Aaron non aveva [p. 163 modifica] mai discusso con lei di ciò che aveva fatto. Fissarono, allora, un incontro con il procuratore Heymann, il quale le offrì una totale immunità per quel giorno: qualsiasi cosa lei avesse detto, non poteva essere incriminata e il governo non avrebbe potuto usare nessuna di quelle informazioni contro di lei in un procedimento penale.

Si trattava di un’offerta che, di solito, veniva fatta, in casi penali importanti, agli informatori per negoziare, con loro, pene minori in cambio di vera e propria attività di spionaggio. Questa cosa alterò Quinn: lei voleva unicamente chiarire all’accusa l’inutilità e la sproporzione di una simile azione nei confronti di Aaron, non entrare in un meccanismo pericoloso come quello che le stavano prospettando. Alla fine, gli avvocati le consigliarono di aderire, e lei si arrese. Con sommo dispiacere, e disappunto, di Aaron, che la pregò di non incontrare Heymann. Soprattutto, Aaron cominciò a dubitare della sua lealtà.

Il 13 aprile ci fu l’incontro in tribunale tra Quinn, avvocati, Secret Services e procuratori. L’interrogatorio si mantenne su fatti noti, ma Quinn comprese subito che ciò che interessava agli inquirenti in quel contesto erano i suoi collegamenti con il mondo hacker e il suo rapporto molto stretto con Aaron. Le domandarono se conoscesse il motivo per cui Aaron avesse fatto una cosa del genere, o cosa pensasse delle riviste accademiche, e proprio in quel momento Quinn citò, durante l’interrogatorio, un post sul blog di Aaron che aveva preso il nome di Guerrilla Open Access Manifesto e le sue posizioni sull’open access.

Quindi – ricorda Quinn – è qui che sono stata profondamente sciocca. Ho parlato loro del Guerrilla Open Access Manifesto. E così facendo, mi avrebbe spiegato Aaron in seguito (e i giornalisti avrebbero confermato), ho peggiorato le cose. È con questo che devo convivere. Ho aperto un nuovo fronte per la loro crudeltà. A quattro mesi dall’inizio delle indagini, avevano finalmente trovato il motivo per farlo. Il manifesto, sostenevano i pubblici ministeri, dimostrava l’intenzione di Aaron di distribuire ampiamente i documenti JSTOR. E io gliene avevo parlato. Non riuscivo a capire come queste persone potessero esaminare la sua vita, minacciare i suoi amici, esaminare la nostra storia digitale insieme, fare irruzione in casa sua, sorvegliarlo e non leggere mai il suo blog. Ma questo sembrava essere il dato di fatto.

Aaron si preoccupò molto, nei giorni successivi, per questa attenzione specifica dell’accusa per il suo manifesto. Un documento che, a distanza di anni, probabilmente non rispecchiava più compiutamente il suo modo di pensare.

Nei mesi successivi, la tensione tra Quinn e Aaron aumentò. Quinn cambiò avvocato, Aaron si allontanò sempre di più, iniziò a diventare paranoico e ad avere timore che tutte le loro conversazioni fossero intercettate.

Quando Heymann, verso l’estate, fece intervenire un altro procuratore, Scott Garland, per dare un impulso al caso, la strategia dell’accusa divenne ancora più aggressiva e Quinn fu convocata davanti al Gran Giurì. La donna invocò [p. 164 modifica] il quinto emendamento, rifiutandosi di testimoniare, ma Heymann si presentò con una dichiarazione di immunità preparata, che la obbligava a testimoniare o ad affrontare la prigione con l’accusa di oltraggio alla corte.

La donna, allora, disse ai giurati di non essere affatto sorpresa da questi eventi, perché la comunità tecnologica era afflitta da una tendenza a un’azione giudiziaria portata all’eccesso, che cercava di criminalizzare il normale uso del computer e la ricerca. Poi Quinn fu costretta a leggere ai giurati il Guerrilla Manifesto, soprattutto nei passaggi più controversi.

Mi hanno messo davanti il manifesto, causa di tanto dolore, da leggere alla giuria – ricorda Quinn – Lessi ciò che mi avevano indicato e mi chiesero se Aaron fosse l’autore. Ho spiegato che non lo sapevo, era stato scritto da quattro persone, non da una sola. Dissi loro che non c’era modo di sapere se avesse scritto lui la parte che cercavano di usare per dimostrare il suo intento. Alla domanda se riflettesse il suo pensiero attuale, ho guardato il pubblico di mezza età e ho detto, onestamente, che aveva moderato molte delle sue opinioni negli ultimi anni, non potevo saperlo. Ho fatto riferimento alla deriva della mente di un giovane e ho detto che non dovremmo essere vincolati a tutto ciò che diciamo a vent’anni. Ho notato che una delle donne in fondo annuiva. I procuratori erano furiosi.

Subito dopo, Quinn rivelò davanti al Gran Giurì una notizia che aveva appena appreso e che pensava potesse essere molto utile nell’economia del caso: Aaron e JSTOR si erano finalmente accordati. Lo ritenevano assolutamente innocuo, e non erano interessati a che il procedimento andasse avanti.

JSTOR – disse Quinn davanti al Gran Giurì – avrebbe avuto paura di essere vista come parte in causa nella persecuzione di un ricercatore di dati e borsista del Centro Etico di Harvard nel corso della sua ricerca. Avrebbero avuto paura di una rivolta da parte del mondo accademico, di una crocifissione da parte dei media.

Era stata una piccola vittoria, questo secondo incontro, ma i rapporti tra Quinn e Aaron si erano ormai incrinati e proseguirono ognuno per la propria vita.

Nell’articolo-saggio di Quinn vi è la convinzione di essere stata, in qualche modo, manipolata.

Credo – sostiene la donna – che il mio contributo al caso sia stato quello di fornire all’accusa il manifesto durante l’ultima parte della sua indagine iniziale e di ridurne, ma non eliminarne, il valore come prova. Comunque questa storia si rifletta su di me, è importante che la gente sappia che i pubblici ministeri mi hanno manipolata e hanno usato il mio amore contro Aaron senza che io capissi cosa stavano facendo. Questa è la loro normalità. Lo farebbero con chiunque. Dovremmo capire che qualsiasi presunto crimine può diventare una rovina per la vita. L’innocenza e la bontà sono considerate solo come rischi per il loro caso. Questo è il sistema che noi, come cittadini, abbiamo accettato.

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Quinn, subito dopo questa esperienza traumatica in procura, scrisse una lettera al procuratore Heymann, che rese pubblica e nella quale manifestò tutto il suo disagio per un tipo di indagine come quella e per la persecuzione in corso non solo di Aaron, ma anche dei suoi affetti e dei suoi familiari.

Caro Steve, non riesco a smettere di pensare agli ultimi momenti di ieri, quando ti ho chiesto perché e tu hai detto che non potevi ancora darmi una risposta.
Sei investito del potere di cambiare tutto di una persona, di distruggere vite, di infliggere danni che si ripercuotono negli anni, nelle persone, nelle comunità. Ogni volta che questo potere viene usato, lascia un segno piccolo, ma indelebile, nella storia. Anch’io ho questo potere, in misura minore. Ho anche il potere di lasciare così delle increspature nella storia. Questo è quanto di più vicino al sacro possa esistere in un mondo secolare. Usarlo dovrebbe renderci umili entrambi, cosa che cerco di tenere a mente ogni volta che scrivo una storia.
Negli ultimi anni ho assistito a tante storie che mi hanno sconvolto. La perdita di New Orleans, la fuoriuscita di petrolio, il mio stesso governo che ammette apertamente la tortura, la cancellazione di quasi metà dell’economia mondiale, la perdita di innumerevoli vite in silenzio. Tutte queste cose hanno avuto delle ripercussioni, storie di vite distrutte che non saranno mai raccontate. Ho quello che una volta si chiamava un temperamento malinconico. A volte penso solo a queste cose, e crollo, e piango. Per tutto il tempo sono stata circondata da avvocati. Li ho tormentati sul perché ci sono stati così pochi o nessun caso relativo ai crimini veramente gravi che hanno distrutto la società. Ricevo sempre la stessa risposta: che queste cose sono semplicemente troppo difficili da dimostrare, troppo contaminate politicamente, che le forze dell’ordine non amano accettare casi che potrebbero perdere. Non so dirvi quanto sia deludente questa risposta. È troppo difficile? Potreste perdere? Allora fai cose difficili e rischia di fallire. Per cos’altro siamo su questa terra?
Negli ultimi anni ho vissuto il crollo del mio settore. Dopo che tanti barili di inchiostro sono stati sprecati per la ricerca dell’ombelico dei media (e mio Dio, quanto siamo capaci di guardarci dentro), ho parlato con molti miei colleghi e ho letto molti studi e analisi sul consumo di media e notizie da parte del pubblico. Nonostante il nostro digrignare i denti, è emerso che o stiamo facendo il nostro lavoro, o lo sta facendo qualcun altro. Il pubblico è più informato che in qualsiasi altro momento della storia. Eppure, gli scandali non hanno il peso per portare a una riforma che avevano un tempo, se non a livello locale, e forse anche a livello rurale, dove i pubblici ministeri seguono ancora le indagini. Da tempo temo che parte dell’apatia pubblica sia dovuta a questo: la vostra professione ha smesso di prendere il testimone dalla mia.
Poi c’è la questione che ci interessa: tu hai accusato Aaron di aver scaricato un milione di articoli di riviste. Hai detto di poterlo dimostrare. Mi hai chiesto di contestualizzare questo fatto e io ti ho dato l’unico contesto che posso immaginare: dare ai poveri del mondo strumenti per migliorare la loro condizione. Credo che sia l’unico contesto che tu hai. Mi chiedo ancora come, in un mare di problemi, questo possa davvero valere il tuo tempo e la tua energia, come possa valere il [p. 166 modifica] fantastico e sacro potere distruttivo che ti è stato dato. Se riuscite a dirmi in che modo spendere il vostro prezioso tempo per questo, tempo che non potrete mai riavere indietro, tempo che non potrà mai essere dedicato a tante oppressioni non affrontate dello spirito umano, possa rendere il mondo un posto migliore, mi darò pace. Anche se non sono d’accordo con voi, posso calmarmi. Ma credo che saprò se state mentendo. Se la vera risposta è che le altre cose sono troppo difficili, che potreste fallire, allora siete già parte di un grande fallimento. Un fallimento così grande e così vicino a noi che riusciamo a malapena a vederlo, scambiandolo per il cielo stesso.

In effetti, la posizione intransigente di Heymann fu contestata da più parti.

Nel marzo del 2013, alcuni articoli di stampa iniziarono ad accusare, senza mezzi termini, l’ufficio del procuratore di avere deliberatamente alterato delle prove nel caso.

Elliot Peters, che era stato avvocato di Aaron nel caso JSTOR, accusò il procuratore Heymann di aver mantenuto una condotta professionale non corretta. Avrebbe, a suo dire, volontariamente nascosto una e-mail, che avrebbe aiutato a escludere dal processo alcune fonti di prova a carico di Aaron acquisite illegalmente.

Durante il sequestro di computer, hard disk e USB drive di Aaron da parte del Cambridge Police Department, il 6 gennaio 2011, i Secret Services avrebbero fatto “scadere” un ordine di sequestro per, poi, ottenerne un secondo ed eseguirlo.

Il procuratore disse che il ritardo era colpa dell’operato errato della polizia di Cambridge, ma Heymann aveva ricevuto una e-mail che provava come il laptop fosse già in suo possesso – e non in quello della polizia di Cambridge – e avrebbe tardato nel rivelare quella e-mail alla controparte, violando palesemente le regole processuali di disclosure.

Nel gennaio del 2013, pochi mesi prima, anche la rete aveva iniziato a reagire al suicidio di Aaron e si era, in qualche modo, ribellata. In particolare, apparvero su Twitter centinaia di link a materiale protetto da copyright – soprattutto articoli scientifici e libri – per commemorare in maniera originale Aaron. La protesta partì dal sito web Reddit con una “chiamata alle armi” di un ricercatore, Micah Allen, che disse che un buon tributo poteva essere un upload di massa di articoli protetti dal copyright, caricandoli su Google Docs e postando, poi, il link. L’hashtag scelto fu #pdftribute.

Nel marzo del 2013, l’Attorney General Eric Holder, al contrario, difese esplicitamente l’operato del Dipartimento di Giustizia nel caso Swartz.

Lo definì, in particolare, un “uso corretto della discrezionalità del procuratore” nel corso di un’audizione al Senato: il magistrato era stato convocato proprio per valutare se vi fosse stato un uso troppo zelante delle regole del sistema giudiziario nei confronti di Swartz e se, alla base, non ci fosse stato un vero e proprio desiderio di “vendetta” nei suoi confronti per i suoi precedenti [p. 167 modifica] e, soprattutto, per generare e diffondere un esempio dissuasivo, partendo dal suo caso.

Il procuratore, ad esempio, affermò che troppa attenzione era stata portata in maniera errata, da stampa e amici di Aaron, sugli anni che avrebbe potuto trascorrere in carcere. In realtà, disse, la procura aveva intenzione di domandare pochi mesi, e quello che avevano pubblicato i media, con riferimento ai possibili anni di galera, non corrispondeva alla sostanza del dialogo che era stato mantenuto vivo tra le parti in quel caso, con offerte a suo dire ragionevoli da parte dell’accusa («avremmo potuto concludere con un accordo di tre mesi – massimo cinque – di carcere. E lo avevamo detto espressamente anche a Swartz. Ma aveva sempre rifiutato»).

L’audizione di Eric Holder era nata da una lettera del senatore John Cornyn, che già aveva, un anno prima, domandato le dimissioni dell’avvocato più in alto di grado dell’amministrazione Obama, per vicende legate a modalità investigative contro il narcotraffico e l’uso di droni-killer.

La lettera, sul punto della politica adottata dall’accusa nel caso Swartz, è molto chiara nelle domande che pone (e che non avranno mai una risposta soddisfacente, ma piuttosto comunicati-stampa ufficiali di circostanza):

In primo luogo, su quale base il procuratore degli Stati Uniti per il Distretto del Massachusetts ha concluso che la condotta del suo ufficio era “appropriata”? Quell’ufficio, o qualsiasi altro ufficio del Dipartimento, ha condotto una verifica? In caso affermativo, la preghiamo di identificare tale verifica e di fornirne il contenuto.
In secondo luogo, l’azione penale contro il signor Swartz è stata in qualche modo una ritorsione per l’esercizio dei suoi diritti di cittadino ai sensi della legge sulla libertà di informazione? In caso affermativo, raccomando di sottoporre immediatamente la questione all’Ispettore generale.
In terzo luogo, che ruolo hanno avuto, se ne hanno avuto, le precedenti indagini del Dipartimento sul signor Swartz nella decisione di quali crimini accusarlo? Vi preghiamo di spiegare le basi della vostra risposta.
Quarto, perché l’ufficio del procuratore degli Stati Uniti ha presentato l’atto d’accusa sostitutivo?
Quinto, quando l’ufficio del procuratore degli Stati Uniti ha redatto l’atto d’accusa e l’atto d’accusa sostitutivo, che considerazione è stata data al fatto che i capi d’accusa e le pene associate fossero proporzionali alla presunta condotta di Swartz e al suo impatto sulle vittime?
In sesto luogo, era intenzione del procuratore degli Stati Uniti e/o dei suoi subordinati ‘fare un esempio’ di Swartz? Si prega di spiegare.
Infine, il procuratore ha dato la colpa alle “pene severe autorizzate dal Congresso” per l’apparente durezza delle accuse a Swartz. Il Dipartimento di Giustizia concede ai procuratori degli Stati Uniti la discrezionalità di accusare gli imputati (o di non accusarli) di crimini coerenti con la loro visione della gravità dell’illecito in un caso specifico? [p. 168 modifica] Vi ringrazio per le vostre risposte rapide ed esaurienti a queste domande.
Cordiali saluti,
John Cornyn, Senatore degli Stati Uniti

Si noti che Holder è stato il componente di più alto grado dell’amministrazione Obama a difendere i procedimenti contro Swartz.

Non vi sembra strano – insistette il senatore Cornyn nelle sue domande a Holder – che il governo incrimini qualcuno per reati che comporterebbero pene fino a 35 anni di carcere e multe milionarie e, poi, gli offra una pena detentiva di tre o quattro mesi?
Penso che sia un buon uso dei poteri di discrezionalità dell’accusa – replicò Holder – considerare la condotta, indipendentemente da quali fossero i massimi edittali previsti dalla legge, e formulare una sentenza coerente con la natura della condotta. E penso che quello che i procuratori hanno fatto offrendo tre, quattro o sei mesi sia coerente con quella condotta.

In un colloquio con un giornalista di The Guardian, negli stessi giorni, la compagna di Swartz, Taren Stinebrickner-Kauffmann, accusò direttamente Holder e il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di aver ritardato le indagini e di avere gestito male il caso.

«Questo non è il Dipartimento di Giustizia» – dichiarò – «ma è il Dipartimento della Vendetta».

E anche la centralità del Guerrilla Open Access Manifesto nella strategia investigativa dell’accusa, per cercare di individuare la motivazione di Aaron nel furto di contenuti, era, disse la ex compagna, completamente sbagliata: erano frasi eccessive che aveva scritto cinque anni prima ma, nel frattempo, le sue idee si erano molto smussate e non erano più così estremiste.

La procuratrice Carmen Ortiz, allora superiore in grado a Heymann, intervenne dicendo che erano ben consapevoli che non vi fosse la prova che il download fosse a fini di profitto personale e che, pertanto, il suo ufficio aveva l’intenzione di domandare una sentenza equilibrata, di sei mesi in “low security settings” e che non avevano mai, in alcun modo, fatto intendere o comunicato ad Aaron e alla sua difesa che avrebbero domandato il massimo della pena.

In un’intervista a The Guardian, la donna ribadì il fatto che il suo ufficio

si fosse assunto il difficile compito di applicare una legge che aveva giurato di rispettare, e lo avesse fatto in modo ragionevole, riconoscendo come «non c’erano prove contro Swartz che indicassero che avesse commesso i suoi atti per un tornaconto finanziario personale», e ha riconosciuto che la sua condotta – pur essendo una violazione della legge – non giustificava le severe punizioni autorizzate dal Congresso e richieste dalle linee guida per le sentenze. «Per questo motivo, nelle discussioni con il suo legale sulla risoluzione del caso, il mio ufficio ha cercato di ottenere una pena adeguata alla presunta condotta, una pena, che avremmo - [p. 169 modifica] raccomandato al giudice, di sei mesi in un ambiente di bassa sicurezza».

In realtà, nota il giornalista del quotidiano, queste affermazioni sono in palese contrasto con la posizione sovente pubblicamente sostenuta dalla stessa Ortiz che, dopo l’accusa a Swartz nel luglio 2011, aveva affermato in più occasioni che «rubare è rubare, sia che si usi un comando per computer o un piede di porco, sia che si prendano documenti, dati o dollari».

La Electronic Frontier Foundation si unì al dibattito elencando nove risposte cui, secondo l’organizzazione per la protezione dei diritti digitali, sia Holder sia il Dipartimento di Giustizia dovevano rispondere.

1) Durante l’audizione del mese scorso di fronte alla Commissione Giudiziaria del Senato, il senatore Leahy ha chiesto al procuratore Generale Holder se il dipartimento avrebbe preso in considerazione la possibilità di proibire i procedimenti penali CFAA basati esclusivamente sulle violazioni dei Termini di Servizio (ToS). Holder ha risposto: «È una cosa che possiamo prendere in considerazione».
Il Dipartimento di Giustizia ha preso in considerazione la possibilità di modificare la sua attuale politica per garantire che i procedimenti giudiziari basati esclusivamente su violazioni dei termini di servizio non si verifichino in futuro? Sono state condotte revisioni interne ufficiali per identificare altri procedimenti giudiziari basati su questa pericolosa teoria legale? Il DOJ è disposto a sostenere una legislazione che aggiorni la CFAA per chiarire che le violazioni dei ToS non sono un reato?
2) Durante l’audizione del mese scorso davanti alla Commissione giudiziaria del Senato, il senatore Cornyn ha chiesto a Holder: «Su quali basi il procuratore degli Stati Uniti in Massachusetts ha concluso che la condotta del suo ufficio era “appropriata”?». Il procuratore generale Holder ha risposto che «si è parlato con i procuratori; si è parlato con i procuratori degli Stati Uniti».
L’ufficio del procuratore del Massachusetts o lo stesso Dipartimento di Giustizia hanno condotto una indagine interna ufficiale della gestione del caso Aaron Swartz? Quali sono stati i risultati? Ha imparato qualche lezione?
3) «I senatori John Cornyn e Al Franken hanno entrambi scritto al Dipartimento di Giustizia all’inizio di quest’anno chiedendo informazioni sulle azioni del dipartimento nel caso Swartz», ha riferito Politico. Il Dipartimento di Giustizia ha risposto a queste lettere e le renderà pubbliche?
4) Holder conferma il commento fatto durante l’udienza del Senato sul fatto che accusare Swartz di 35 anni e poi offrire un patteggiamento di 3 mesi è stato un «buon uso della discrezionalità dell’accusa»? Può fornire ulteriori giustificazioni per questa opinione?
5) Ex e attuali membri del Dipartimento di Giustizia si sono lamentati del fatto che i media continuavano a ripetere che Aaron rischiava fino a 35 anni di carcere, quando in realtà, date le circostanze, avrebbe dovuto scontare molto meno tempo. Il Dipartimento di Giustizia ritiene che i media citino un numero impreciso? E se è così, perché il Dipartimento di Giustizia lo ha incluso nel comunicato stampa del luglio 2011 che annunciava l’incriminazione di Aaron? [p. 170 modifica] 6) Durante l’ultimo briefing è stato riferito che «alcuni membri dello staff del Congresso hanno lasciato il briefing con l’impressione che i procuratori credessero di dover condannare Swartz per un reato che lo avrebbe messo in prigione per una breve pena, al fine di giustificare le accuse, in primo luogo, secondo due assistenti a conoscenza del briefing». Questa impressione era vera? E, se era vera, su cosa si basava la convinzione dei procuratori?
7) È stato anche riferito che il Guerrilla Open Access Manifesto «dimostrava l’intento malevolo di Swartz di scaricare documenti su larga scala». Ritiene che questo manifesto sia un’espressione protetta dal Primo Emendamento? Sebbene diverse esigenze mostrino che Aaron ha distribuito questo manifesto, avete la prova che l’abbia scritto lui?
8) In precedenza, Aaron Swartz aveva scaricato in massa articoli accademici da Westlaw, un database legale, per condurre uno studio sulle fonti di finanziamento della ricerca scientifica e non li aveva resi pubblici. Oltre al manifesto scritto anni prima dell’incidente al MIT e che non menziona specificamente JSTOR, avete qualche prova che Aaron avesse intenzione di rendere pubblici i documenti JSTOR?
9) L’Ispettore generale del DOJ è a conoscenza o ha dato seguito a una lettera presentata dall’ex avvocato di Swartz all’Ufficio per la responsabilità professionale del DOJ, in cui si denuncia che l’Ufficio del procuratore del Massachusetts a) ha ritardato la divulgazione di e-mail rilevanti per l’indagine e b) ha esercitato pressioni su Swartz affinché si dichiarasse colpevole con minacce di pene detentive esagerate?

La deputata Zoe Lofgren della California propose, poi, su Reddit, un’iniziativa legislativa che denominò Aaron’s Law: una proposta di legge che voleva emendare il CFAA, depenalizzando la violazione dei termini di servizio.

Non ebbe successo, e non fu approvata dal Congresso, ma ebbe il merito di ricordare Aaron e di sollevare un problema specifico: il CFAA era troppo vago e, a causa di una simile formulazione, gli utenti che violavano i termini di servizio, potevano rischiare il carcere. Senza contare che, a causa di evidenti ridondanze, i cittadini potevano essere processati più volte per lo stesso reato informatico in base a disposizioni diverse, aggravando le accuse e prevedendo pene sproporzionate per i condannati.

La proposta di una Aaron’s Law voleva rimediare a questo “corto circuito normativo”, modificando il linguaggio del CFAA per rendere le pene per il download di materiale protetto da copyright, sia in termini di carcere che di multe, meno punitive e più legate al reale valore del materiale sottratto.

Anche la famiglia di Aaron, subito dopo il tragico evento, rilasciò dichiarazioni in cui si accennò a una responsabilità diretta del procuratore per la morte del ragazzo.

Non si trattava, dissero, soltanto di una tragedia personale, ma il suicidio era stato il prodotto di una giustizia penale, e di un sistema processuale, che erano pensati per intimidire, utilizzando un insieme di capi di imputazione che [p. 171 modifica] prospettavano oltre trent’anni di prigione come conseguenza di un crimine che non aveva vittime.

Il collettivo hacker Anonymous, sempre nel mese di gennaio, prese di mira alcuni siti web del MIT, dove furono lasciati dei messaggi politici che parlavano di un abuso della giustizia, dell’ingiustizia del sistema criminale americano, dei crimini informatici e della ingiustizia nelle trattative prima del processo. Anche in questo caso, fu chiesta la riforma della normativa sul copyright.

Il 27 gennaio del 2018, sei anni dopo la morte di Aaron, il New York Post, in un articolo a firma di Isabel Vincent, metterà in correlazione il suicidio di Aaron con quello di James Dolan, un hacker di 36 anni, che si era suicidato anche lui in un hotel di Brooklyn il 26 dicembre dell’anno prima.

In effetti, gli aspetti in comune sono molti e inquietanti.

Dolan era un ex marine ed esperto di sicurezza informatica ma, soprattutto, era il secondo componente del team di programmatori e attivisti digitali che avevano sviluppato SecureDrop. Il primo era stato Aaron.

Dolan aveva un carattere molto particolare, ai limiti della paranoia. Viveva per essere il più invisibile possibile, in una società digitale che ormai era diventata un apparato di controllo e di sorveglianza. Non era praticamente presente online, tantomeno sui social network e, dopo il suo suicidio, iniziarono a circolare teorie complottistiche che univano la creazione del sistema SecureDrop a WikiLeaks e a episodi di stress post-traumatico dovuto a due missioni in Iraq.

L’hacker era già, dai suoi vent’anni, un esperto di cybersecurity, e poteva accedere a dati top secret. Un mese prima che il presidente Bush lanciasse Operation Iraqui Freedom (l’invasione dell’Iraq nel marzo del 2003), Dolan lavorava già sul campo come data network specialist per la marina.

Non furono mai rivelati, negli anni successivi, i suoi veri compiti in Iraq, anche nella seconda fase più sanguinosa, quella di Falluja, ma di certo tornò in patria con la volontà di aiutare i giornalisti a raggiungere l’obiettivo della trasparenza e della segretezza delle fonti. Rinunciò a lavori ben pagati per frequentare le varie redazioni di quotidiani, al fine di insegnare a usare SecureDrop. Quello era diventato il suo obiettivo: la protezione dei whistleblower.

Furono in tanti, in tutto il mondo, a rendere pubblico il proprio cordoglio per la morte di Aaron e a lanciare accuse, più o meno esplicite o velate, all’accusa e all’intero sistema giudiziario.

Intervennero nel dibattito avvocati e informatici, politici e scienziati, programmatori e semplici utenti, bibliotecari e attivisti. Ognuno con il suo ricordo e la sua interpretazione dei fatti.

Vi sono, però, tre posizioni particolarmente interessanti, che vale la pena di analizzare con cura.

La prima è quella di Lawrence Lessig, amico e mentore di Aaron. La seconda è quella di Danah Boyd, un nome importante nell’attivismo digitale e nel mondo [p. 172 modifica] dell’open access, anche lei cara amica di Aaron. E la terza è la testimonianza – e le accuse – della sua ex compagna, Taren Stinebrickner-Kauffman.

Le tre testimonianze sono non solo un pregevole riassunto dei fatti e delle polemiche generate dalla tragica morte di Aaron ma, anche, un accorato ricordo costruttivo, volto a estrarre dalla troppo breve vita del giovane quanto di buono si possa trasmettere alle nuove generazioni.

Le riflessioni di Lessig le traiamo da una intervista del 14 gennaio 2013, pochi giorni dopo il suicidio di Aaron.

Il grande giurista risponde a numerose domande di una giornalista di Democracy Now!

Il lettore noterà, in tanti passaggi, il riferimento al sentimento di sgomento e di rabbia, per l’azione della procura, ancora ben vivo in parenti e amici.

Grazie per avermi invitato a parlare di questa incredibile anima – esordisce Lessig commosso – Credo che la cosa da ricordare di Aaron sia che fin dalla più giovane età, dall’età di 12 anni, il suo lavoro è stato dedicato esclusivamente a rendere il mondo un posto migliore. Ha iniziato con l’idea che forse dovevamo rendere Internet più facile per condividere le informazioni, e questo è ciò che ha portato a RSS. E poi, con Creative Commons, ha pensato: come possiamo concedere licenze alle persone, per rendere la libertà di condivisione legalmente protetta? E poi, in seguito, con la biblioteca pubblica: come rendere disponibili i libri? E quando questo non è bastato, ha iniziato a operare nello spazio degli attivisti sociali e dei progressisti, prima lavorando con Stephanie Taylor e Adam Green al Progressive Change Campaign Committee, e poi, con la sua Demand Progress, con David Segal. In tutti questi ambiti, quello che faceva era portare avanti degli ideali. Era un idealista, che credeva che dovessimo essere all’altezza di qualcosa di migliore, ed era un’anima incredibile, un’anima incredibile che ha ispirato milioni di persone che ora piangono, come abbiamo visto su Internet, per l’indignazione e la devastazione che lo avrebbero spinto verso il precipizio da cui si è buttato.

Quando l’interlocutrice di Lessig domanda di descrivere i punti essenziali del caso giudiziario, il professore si trattiene un po’ – anche a causa di alcuni aspetti legati al segreto professionale – per poi, però, chiarire tanti punti interessanti.

Devo essere molto cauto – precisa Lessig – perché quando Aaron è stato arrestato, è venuto da me e per un periodo ho agito come suo avvocato. Quindi, so più cose sul caso di quante ne possa dire. Ma ecco cosa è stato affermato. Aaron è stato fermato mentre usciva dal MIT. Aveva un computer in suo possesso, e c’era una prova che indicava che aveva collegato il computer a un server in un armadio del MIT, e l’accusa era di aver scaricato una parte significativa di JSTOR. JSTOR è un sito web senza scopo di lucro che, dal 1996 circa, cerca di costruire un archivio di articoli di riviste accademiche, come la Harvard Law Review o articoli di riviste di geografia del 1900. È una straordinaria biblioteca di informazioni. E l’affermazione era che Aaron ne aveva scaricato una parte significativa. E la domanda, l’ovvia domanda che tutti si sono posti, è stata: perché? Perché lo stava [p. 173 modifica] facendo? La polizia di Cambridge ha quindi arrestato Aaron. JSTOR ha detto: «Non vogliamo perseguire. Non vogliamo perseguire civilmente. Non vogliamo che siate perseguiti penalmente». Ma il MIT non è stato così chiaro. E il governo federale – ricordiamo che all’epoca c’era la questione di Bradley Manning e di WikiLeaks – pensò che fosse davvero importante dare un esempio. E così, ha avviato un’azione penale incredibilmente ridicola, con più di una dozzina di capi d’imputazione contro Aaron, con la minaccia di decine di anni di carcere. Ma non si trattava di rivendicazioni teoriche su ciò che avrebbe potuto ottenere, bensì dell’onere pratico che negli ultimi due anni gli ha prosciugato il patrimonio, mentre doveva negoziare per cercare di risolvere la questione, perché il governo non si sarebbe fermato prima che lui ammettesse di essere un criminale, e credo che, in un mondo in cui gli artefici della crisi finanziaria cenano regolarmente alla Casa Bianca, sia ridicolo pensare che Aaron Swartz fosse un criminale.

La conversazione procede per cercare di analizzare, sempre di più al microscopio, i fatti processuali nei dettagli. La giornalista è incuriosita, ad esempio, dalla scena del crimine.

Quale era la scena in cui è stato arrestato? Era in bicicletta? – domanda la giornalista, e Lessig risponde polemico: «Sì. Questo fa parte della propaganda incredibilmente ridicola che il governo ha diffuso. Hanno pubblicato queste foto di Aaron, di bassissima qualità – perché, in pratica, si trattava di una telecamera di sicurezza – e hanno suggerito che Aaron stesse nascondendo il suo volto e che stesse cercando di eludere il riconoscimento. Tutto quello che stava facendo era uscire dal MIT con il casco da bicicletta attaccato allo zaino. E l’immagine era, come dire, solo quella di un ragazzo che era appena stato al MIT, usando la loro rete, e che se ne andava»

Dopo questa prima descrizione sommaria dei fatti, la conversazione si sposta sul punto critico del ruolo del MIT in tutta la vicenda, e Lessig è molto polemico.

Ora, dobbiamo contestualizzare il tutto – precisa lo studioso – Il MIT, per la maggior parte della sua storia, è stato un sostenitore dell’accesso aperto alle informazioni. In effetti, la politica del MIT, almeno secondo la maggior parte delle persone, consentiva a chiunque si trovasse nel campus di avere accesso alle informazioni presenti nel campus. Il MIT ospita Richard Stallman, il fondatore del movimento del software libero, che ha celebrato e difeso il MIT molte volte per le sue convinzioni. Quindi, sapete, molte persone si sono chieste: cosa ci fa il MIT qui? Ora, devo dire che ho criticato molto duramente il MIT, in un post che ho pubblicato sul blog intitolato “Prosecutor as Bully”, a causa di ciò che hanno fatto prima che Aaron morisse, a causa del loro rifiuto di riconoscere la follia di ciò che il governo federale stava facendo e di fermarlo dicendo: «Noi non perseguiamo in un caso come questo, e voi dovreste smettere di perseguire». Il MIT avrebbe dovuto farlo, ma non l’ha fatto. Ma quello che il MIT ha fatto domenica, a mio avviso, è straordinariamente importante. Nominando Hal Abelson, che credo sia [p. 174 modifica] la persona migliore al mondo per esaminare ciò che il MIT ha fatto e per riferire se sia stato giusto o sbagliato, penso che il MIT abbia fatto un passo importante per riconoscere l’errore in ciò che è successo qui. Vedremo cosa dirà Hal Abelson quando lo esaminerà e riferirà!

Il programma radiofonico nel quale è coinvolto Lessig è molto ben strutturato e pensato. A un certo punto, infatti, la giornalista legge le dichiarazioni del MIT, di JSTOR, di Aaron e i commenti dei suoi genitori per, poi, terminare con un accorato discorso di Aaron stesso che aveva tenuto, l’anno prima, sul tema della libertà di connessione.

Il giovane si trovava, nell’ottobre del 2010, all’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign e parlò anche specificamente di JSTOR.

Vi darò un esempio – disse Aaron in quel contesto – di qualcosa di non così grande come la salvezza del Congresso, ma qualcosa di importante che potete fare proprio qui nella vostra scuola. È sufficiente che siate disposti “a sporcarvi un po’ le mani”. In virtù del fatto che siete studenti di una grande università statunitense, presumo che abbiate accesso a un’ampia gamma di riviste scientifiche. Praticamente, ogni grande università degli Stati Uniti paga queste specie di diritti di licenza a organizzazioni come JSTOR, Thomson e ISI per avere accesso a riviste scientifiche che il resto del mondo non può leggere. E questi diritti di licenza sono consistenti. E sono così alti, che le persone che studiano in India, invece di studiare negli Stati Uniti, non hanno questo tipo di accesso. Sono escluse da tutte queste riviste. Sono escluse da tutta la nostra eredità scientifica. Voglio dire, molti di questi articoli di riviste risalgono all’Illuminismo. Ogni volta che qualcuno ha scritto un articolo scientifico, è stato scansionato e digitalizzato e messo in queste collezioni. Questa è un’eredità che ci è stata portata dalla storia delle persone che fanno un lavoro interessante, la storia degli scienziati. È un patrimonio che dovrebbe appartenerci come bene comune, come popolo, ma che, invece, è stato rinchiuso e messo online a scopo di lucro da una manciata di società che, poi, hanno cercato di trarne il massimo profitto possibile. Ora, ci sono persone, brave persone, che stanno cercando di cambiare questa situazione con il movimento open access. Quindi, tutte le riviste, in futuro, stanno incoraggiando a pubblicare il loro lavoro come open access, quindi aperto su Internet, disponibile per il download da parte di tutti, disponibile per la libera copia e forse anche per la modifica con le clausole di attribuzione.

Nella parte centrale dell’intervista, la giornalista domanda a Lessig quale fosse il significato delle azioni che Aaron stava facendo. È il momento nel quale si celebra, in un certo senso, l’importanza del giovane nel mondo.

Aaron stava dedicando la sua vita a costruire un mondo – nota Lessig – Un mondo che fosse idealista come lui. Ed era impaziente con noi, ed era deluso da noi, da tutti noi, mentre affrontavamo questa battaglia. E quando è diventato impaziente, ha chiesto alle persone di fare di più. Ed è incredibilmente difficile per tutti noi [p. 175 modifica] che gli siamo stati vicini accettare il fatto che forse se avessimo fatto di più, forse se avessimo fatto di più, tutto questo non gli sarebbe sembrato così cupo, e forse avremmo fermato questo processo. Quattro giorni prima che Aaron morisse, ho ricevuto un’e-mail da JSTOR, da parte del presidente di JSTOR, che annunciava il fatto che JSTOR avrebbe rilasciato tutti questi articoli di riviste a chiunque in tutto il mondo volesse accedervi, esattamente ciò per cui Aaron si stava battendo. Non ho avuto il tempo di inviarlo ad Aaron, ero in viaggio. Ma non vedevo l’ora di rivederlo – l’avevo visto solo la settimana prima – e di festeggiare per quello che era successo. Quindi, tutti noi pensiamo che ci sono mille cose che avremmo potuto fare, mille cose che avremmo potuto fare, e dobbiamo fare, perché Aaron Swartz è ora un’icona, un ideale. È per lui che lotteremo, tutti noi, per il resto della nostra vita.

L’intervista si conclude discutendo di un punto delicatissimo, ed estremamente scivoloso: lo stato di salute, e mentale, di Aaron.

La giornalista ricorda, in primis, un post sul blog di Aaron, apparso il 27 novembre 2007, nel quale parlava di depressione e di tristezza.

Sicuramente – scriveva Aaron in questo post – ci sono stati momenti in cui siete stati tristi. Forse una persona cara vi ha abbandonato o un piano è andato terribilmente storto. Il vostro viso è affranto. Forse piangete. Vi sentite inutili. Vi chiedete se valga la pena andare avanti. Tutto ciò a cui pensate sembra desolante: le cose che avete fatto, quelle che sperate di fare, le persone che vi circondano. Si vuole solo stare a letto e tenere le luci spente. L’umore depresso è così, solo che non arriva per nessuna ragione e non se ne va per nessuna.
Sì – conferma Lessig – Aaron era depresso. Stava perdendo tutto, perché il suo governo stava esagerando nel modo più ridicolo possibile per perseguitarlo, non solo per questo, ma anche per ciò che aveva fatto in precedenza, liberando documenti governativi che dovevano essere di dominio pubblico. Naturalmente era depresso. Non era depresso perché non aveva genitori affettuosi – aveva genitori affettuosi che facevano tutto il possibile per lui – o perché non aveva amici affettuosi. Ogni volta che incontravo Aaron, era circondato da cinque o dieci persone diverse che lo amavano, lo rispettavano e lavoravano con lui. Era depresso perché si rendeva sempre più conto che l’idealismo che aveva portato in questa lotta forse non era sufficiente. Quando ha visto che tutte le sue ricchezze erano sparite e ha capito che i suoi genitori avrebbero dovuto ipotecare la casa per permettergli di avere un avvocato, per combattere un governo che lo trattava come se fosse un terrorista dell’11 settembre, come se quello che stava facendo fosse una minaccia per le infrastrutture critiche degli Stati Uniti, quando ha visto questo e ha capito quanto sarebbe stato incredibilmente difficile combattere, ovviamente era depresso. Ora, sapete, non sono uno psichiatra. Non so se ci fosse qualcosa di sbagliato in lui, ma non ho pazienza per le persone che vogliono dire: «Oh, questa era solo una persona pazza; questa era solo una persona con un problema psicologico che si è uccisa». No. Si tratta di qualcuno che è stato spinto al limite da quello che io considero una sorta di bullismo da parte del nostro governo. Una prepotenza da parte del nostro governo. E così come riteniamo le persone responsabili quando [p. 176 modifica] la loro prepotenza porta a una tragedia, spero che Carmen Ortiz faccia quello che ha fatto il MIT e che conduca un’indagine interna, che chieda a qualcuno di indipendente di esaminare ciò che è successo qui e di spiegare all’America: è questo il governo degli Stati Uniti?

Una seconda testimonianza, altrettanto accorata di quella di Lessig, viene invece da un’amica di Aaron e grande studiosa, Danah Boyd.

La donna si trovò a riflettere, sul suo blog, su quanto fosse successo, a pensare a ciò che era capitato ad Aaron ed evidenziare problemi sociali e giuridici particolarmente importanti.

Le ultime 24 ore – ricorda Danah – sono state una montagna russa di emozioni. Ieri mi sono svegliata e ho scoperto che un mio amico, Aaron Swartz, si era tolto la vita. Il mio feed di Twitter è entrato in lutto: shock, tristezza, rabbia, vendetta. Ho passato la giornata a parlare con amici che erano tutti in vari stati di confusione. Ho osservato come molti di loro abbiano riversato i loro cuori sui loro blog, una pratica che tutti noi facciamo da oltre un decennio. Eppure, non riuscivo a trovare le parole per esprimere ciò che sentivo. Quando ieri ho twittato che ero arrabbiata, amici benintenzionati ed esperti di salute mentale che non conoscevano Aaron mi hanno scritto che non potevo essere responsabile della depressione di qualcuno. Mi è venuta voglia di urlare. Ho deciso invece di scrivere questo post sul blog. È crudo e imperfetto, ma è la mia situazione attuale.

Il primo pensiero dell’amica di Aaron, nel suo scritto, è rivolto alla sua salute mentale e a cercare di comprendere che cosa lo possa aver condotto a quel gesto.

Nel bene e nel male – ricorda Danah – nel corso degli anni ho conosciuto molte persone che si sono suicidate. Ho visto persone lottare contro una grave depressione e poi fare questa scelta. Avendo combattuto i miei stessi demoni, ho capito. Parte del motivo per cui la morte di Aaron mi ha colpito come un macigno è perché questa volta era diversa. Non ho dubbi sul fatto che la depressione sia stata un fattore. Adoravo Aaron perché era un turbine emotivo, un caratteraccio irascibile e compulsivo. Le nostre conversazioni avevano un qualcosa di etereo e mi spingeva a riflettere su questioni complesse mentre discutevamo. Aveva un’ampiezza intellettuale che mi terrorizzava, e il senso di curiosità di un gattino. Ma quando si sentiva distruttivo, usava la sua astuta comprensione delle persone per trovare i loro punti deboli e colpirle dove faceva male. Soprattutto le persone che amava di più. Si considerava un sociologo dilettante, perché era innamorato della natura delle persone, e discutevamo sulla necessità di rigore, sulla necessità di una formazione formale. Non aveva pazienza per chi era intellettualmente più lento di lui e non riusciva ad apprezzare ciò che si poteva ottenere da un ambiente universitario. Voleva invece leggere i libri e vivere nel mondo della mente. Conoscevo Aaron da nove anni e lo adoravo da morire, ma lo trovavo anche molto frustrante. Negli ultimi anni, il nostro legame si è fatto più sporadico, perché amavo i suoi alti, ma [p. 177 modifica] faticavo molto con i suoi bassi. Ma quando è avvenuto l’arresto, mi sono preoccupata molto per lui. Decidemmo di non parlare mai del caso in sé, ma, tra gli “ingorghi cerebrali”, scherzavamo sul fatto che finalmente si sarebbe laureato in carcere, per alleviare la pressione. Gli promisi che avrei curato un piano educativo basato su grandi ricerche e gli dissi che ogni giorno gli avrei inviato una stampa da JSTOR. Sapevo che stava lottando, ma era anche un attivista appassionato e pensavo sinceramente che questo lo avrebbe aiutato a superare questo periodo buio.

Terminati i ricordi, la studiosa si concentra sugli aspetti politici del caso, ed espone con cura le sue accuse, motivandole con precisione.

Ciò che ieri mi ha fatto arrabbiare in modo così incontenibile – dice la Boyd – è la stessa cosa che mi ribolle nelle viscere da due anni. Quando il governo federale si è accanito su di lui – e il MIT si è prostrato – non lo ha trattato come una persona che poteva o meno aver fatto qualcosa di stupido. Era un esempio. E il motivo per cui gli hanno dato la caccia non è stato quello di dargli una lezione, ma di far capire all’intera comunità di hacker di Cambridge che erano stati fregati. Era una minaccia che non aveva nulla a che fare con la giustizia, ma con una più ampia battaglia per il potere. Negli ultimi anni, gli hacker hanno sfidato lo status quo e messo in discussione la legittimità di innumerevoli azioni politiche. I loro mezzi possono essere stati discutibili, ma le loro intenzioni sono state degne di valore. Lo scopo di una democrazia funzionante è quello di mettere sempre in discussione l’uso e l’abuso del potere, per evitare che emerga la tirannia. Negli ultimi anni, abbiamo visto gli hacker demonizzati come antidemocratici, anche se molti di loro si considerano combattenti per la libertà contemporanea. E chi è al potere ha usato Aaron, confondendo il suo progetto di liberazione dell’informazione con la storia di hacker feroci i cui atti terroristici sarebbero destinati a distruggere la democrazia.

Di certo, il mantenere un rapporto personale e scientifico con Aaron non era semplice, ricorda la studiosa, ma il caso di Swartz aveva sollevato tantissime ombre e dubbi che, probabilmente, sarebbero rimasti irrisolti.

Le persone ragionevoli – continua la Boyd – possono essere in disaccordo sulle tattiche e su dove, e quando, un particolare approccio si spinga troppo oltre. Come Lessig, sono spesso in disaccordo con Aaron sul suo particolare approccio alla liberazione delle informazioni del mondo, anche se non sono mai stata in disaccordo con lui sull’obiettivo. Una delle ragioni per cui tanti hacker, e geek, hanno trascorso la giornata di ieri inveendo contro la macchina del potere, è che molte persone al potere non sono state in grado di vedere al di là degli atti singoli e di comprendere le intenzioni e l’attivismo. L’opinione pubblica si è impegnata a controllare la resistenza dei geek, a soffocare la ribellione e a punire chiunque le autorità riescano a perseguire. Ma la maggior parte dei geek opera in zone grigie, il che rende difficile incastrarli e accusarli. È in questo contesto che la bravata di Aaron ha fornito agli agenti federali prove sufficienti per portarlo in tribunale e usarlo come esempio. Hanno usato il loro potere per metterlo a tacere e condannarlo pubblicamente, ancor prima che il processo iniziasse. Ieri c’è stata un’ondata [p. 178 modifica] di informazioni sul suo caso, compreso un incredibile resoconto del testimone esperto della difesa. Molti si sono chiesti perché non se ne sia parlato prima. Posso solo spiegare il mio ragionamento. Avevo troppa paura di parlare pubblicamente, per timore che le mie parole potessero essere usate contro di lui. E avevo troppa paura di rimanere invischiata nella caccia alle streghe che ho visto portare avanti negli ultimi tre anni. Perché non si è trattato di giustizia o di sicurezza nazionale. È stata una questione di potere. Ed è il cuore e l’anima del motivo per cui l’amministrazione Obama è stata per me una delusione cocente. Negli ultimi due anni, ho avuto un numero ridicolo di scontri con i membri dell’amministrazione per il trattamento riservato ai geek e l’incomprensione degli hacker, ma non sono mai riuscita a capire come fare la differenza su questo fronte. È stata una fonte di grave frustrazione per me, anche se SOPA/PIPA ha dimostrato che i geek potevano fare la differenza.

La parte finale del post di Danah Boyd è, come prevedibile, dedicata al ricordo e all’indignazione.

Così oggi siamo qui – conclude Danah – Il mondo è privo di un bambino prodigioso il cui intelletto ha spaventato a morte tutti coloro che lo hanno conosciuto. È diventato un giocattolo per un governo che vuole dimostrare la propria forza. Lo hanno maltrattato, hanno sfruttato le sue debolezze e hanno cercato di distruggerlo. E lo hanno fatto. Il tutto, prima ancora di essere processato in una società che si vanta dell’innocenza fino a prova contraria. La depressione è stata la chiave di ciò che è accaduto venerdì? Certamente. Ma non è tutta la storia. Ed è questo che lo rende difficile da digerire. L’indignazione è giustificata. Molte persone vogliono la testa dei principali amministratori che hanno contribuito a creare il contesto in cui Aaron si è tolto la vita. Capisco perfettamente il loro punto di vista. Ma temo anche la possibilità che Aaron venga trasformato in un martire, un’astrazione di attivista geek distrutto dallo Stato. Perché lui era molto di più: amabile e imperfetto, appassionato e volitivo, brillante e esasperatamente ottuso. Sarà facile per la gente gridare vendetta in suo nome. Ma non si guadagna molto a reificare il gioco “noi contro loro” che ci ha portato fin qui. Deve esserci un altro modo. Quello che spero davvero che venga fuori da questa orribile tragedia è una seria riflessione comune e una profonda verifica dei valori. Molte delle convinzioni che Aaron sosteneva – la liberazione della conoscenza, l’accesso aperto alle informazioni e l’uso del codice per migliorare il mondo – sono valori fondamentali per la comunità geek. Tuttavia, come analizza astutamente Biella Coleman in “Coding Freedom”, questa comunità non è priva di difetti. Nemmeno Aaron lo era. Faceva le cose a modo suo perché credeva che la passione, la volontà e l’azione avessero la meglio su tutto. E la sua testardaggine lo ha reso fragile. Se vogliamo raggiungere i valori e gli obiettivi che sono alla base della comunità geek, non credo che faremo mai la differenza creando altri martiri da usare come esempi in una guerra culturale. Mentre piangiamo collettivamente la morte di Aaron e incanaliamo la nostra rabbia per fare la differenza, penso che dobbiamo cercare un approccio al cambiamento che non si traduca nell’additare persone brillanti come esempi per poter essere tormentate dal potere.

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Infine, rabbia, commozione e ricordi caratterizzarono anche il post commemorativo della sua compagna di allora, Taren Stinebrickner-Kauffman, che viveva con lui nell’appartamento dove si è tolto la vita.

Credo che la morte di Aaron – scrive Taren – non sia stata causata dalla depressione. Lo dico con la consapevolezza che molte altre persone non avrebbero fatto la stessa scelta che ha fatto Aaron, nemmeno sotto le stesse pressioni che ha dovuto affrontare. Dico questo non per sminuire il dolore che ha provato, né, peraltro, il dolore che provano le persone clinicamente depresse. Dico questo, nonostante all’inizio della nostra relazione avessi letto e discusso con lui il suo famigerato post sul suicidio scritto anni prima, quindi non ignoravo che in passato avesse lottato con problemi di salute mentale. Dico questo, perché negli ultimi 20 mesi della sua vita, Aaron ha passato più tempo con me che con chiunque altro al mondo. Per gran parte degli ultimi 8 mesi della sua vita, abbiamo vissuto insieme, abbiamo fatto i pendolari insieme e lavorato nello stesso ufficio, e non mi sono mai preoccupata che fosse depresso fino alle ultime 24 ore della sua vita. Dico questo perché, da quando si è suicidato, mentre cercavo di affrontare l’accaduto, ho imparato. Ho fatto ricerche sulla depressione clinica e sui disturbi associati. Ho letto i sintomi e, almeno fino alle ultime 24 ore della sua vita, Aaron non vi corrispondeva. E questo rende difficile leggere, in tanti articoli, che “Aaron ha lottato con la depressione”, come se l’accusa fosse solo un fattore tra i tanti, come se, forse, avrebbe potuto suicidarsi l’11 gennaio senza di essa. La depressione è caratterizzata da scarsa energia e inattività, ritiro e isolamento, sentimenti di scarsa autostima, difficoltà a concentrarsi e a ricordare i dettagli e incapacità di trarre piacere dalla vita quotidiana. Non tutte le persone depresse provano sempre tutte queste cose, ma la ricetta è quella. E, in effetti, il post di Aaron sulla sua depressione, pubblicato anni prima, aveva accennato a molte di queste cose. Ma lasciatemi parlare dell’Aaron che conoscevo, l’Aaron Swartz del 2011, del 2012 e dei primi giorni del 2013.

I ricordi di Taren, di qui in avanti, descrivono egregiamente il ragazzo Aaron e le sue innumerevoli idee e attività.

L’Aaron che conoscevo era attivo – ricorda la donna – Si allenava quasi tutti i giorni fino a quando non ha preso l’influenza due settimane prima di morire. Poche settimane prima, quando ero fuori città per il fine settimana, mi aveva sorpreso recandosi a fare un’escursione di un giorno fuori New York. Tornò raggiante la sera stessa, descrivendo come si fosse arrampicato su una ‘scorciatoia’ rocciosa e ripida con alcuni altri escursionisti che lo osservavano (e nel frattempo aveva perso il suo Kindle in un crepaccio). L’Aaron che conoscevo era socievole ed entusiasta di trascorrere del tempo con le persone che amava, fino alla fine. Aveva progetti e ambizioni, anche molto grandi. Il 9 gennaio, due giorni prima di morire, ha trascorso ore e ore a parlare con il nostro amico australiano Sam della nuova organizzazione che Aaron stava avviando. Sam gli chiese se avesse un supporto, e Aaron rispose che tutti coloro che erano abbastanza competenti da sostenerlo lo stavano in effetti sostenendo – la classica arroganza pessimistica di Aaron, ma [p. 180 modifica] anche un promemoria del fatto che sapeva che i suoi amici erano al suo fianco. Sam ha fatto ad Aaron una rapida panoramica della politica australiana; Aaron ha espresso stupore per la facilità con cui sarebbe stato possibile ‘conquistare l’Australia’, ma ha concluso che in un Paese di soli 20 milioni di abitanti probabilmente non ne sarebbe valsa la pena. L’autostima, inutile dirlo, non era, certo, un problema di Aaron. L’Aaron che conoscevo non aveva problemi a concentrarsi o a ricordare i dettagli. Fino alla settimana prima di morire, stava divorando tutta la letteratura scientifica che riusciva a trovare sulla tossicodipendenza e sugli interventi efficaci. Per essere chiari, non perché avesse problemi di droga (non beveva quasi mai alcolici), ma per un progetto di consulenza a cui stava lavorando per Givewell, la sua associazione di beneficenza preferita. Mi raccontò, con profonda eccitazione intellettuale, le sue conversazioni con i massimi esperti del settore, gli interventi che si erano dimostrati più promettenti per combattere l’alcolismo, le sue teorie, in via di sviluppo, su quali tipi di cambiamenti politici potessero essere politicamente più fattibili. Discutevamo dei costrutti culturali che permettono alla nostra società di trattare in modo diverso sostanze chimiche quasi indistinguibili come l’eroina e la morfina. L’Aaron che conoscevo aveva una profonda capacità di provare piacere nella vita quotidiana. Naturalmente aveva problemi con l’alimentazione, nell’ambito dei normali sintomi associati alla colite ulcerosa. Ma quando trovava del cibo veramente buono – o, se vogliamo, qualsiasi cosa veramente buona – ne godeva. Aveva un senso estetico finemente affinato. Riusciva a trarre una gioia più profonda e vera da un muffin di mais perfetto, da un arco narrativo brillantemente costruito dalla biografia di Robert Caro su Lyndon B. Johnson, da un bellissimo font, più di chiunque altro abbia mai conosciuto. E, forse, la cosa più impressionante è che ha mantenuto tutte queste qualità per quasi due anni, di fronte a una prova continua che minacciava di rovinargli la vita.

Nella parte finale del suo bellissimo ricordo, Taren conclude parlando di felicità e di dolore, di paure e di morte.

Aaron era umano – ricorda la sua ex compagna – non era felice in ogni momento e sarei la prima a dire che a volte poteva essere una vera sofferenza vivere con lui. Aaron poteva essere lunatico e introverso. Aaron aveva spesso forti dolori fisici allo stomaco. Aaron era duro con sé stesso (e altrettanto duro con gli altri). E, ovviamente, alla fine Aaron aveva tendenze suicide. Ma lo ripeto: la morte di Aaron non è stata causata dalla depressione. Questo è un punto importante, perché molte persone sostengono che lo sia stata e che la risposta appropriata alla sua morte sia un migliore trattamento della depressione e una migliore individuazione delle tendenze suicide. Questo Paese ha assolutamente bisogno di queste cose – Aaron sarebbe stato il primo ad essere d’accordo – ma ne abbiamo bisogno perché sono la cosa giusta da fare, non per quello che è successo ad Aaron. Non so esattamente perché Aaron si sia ucciso. Non so esattamente cosa gli passasse per la testa. Se avessi saputo queste cose l’11 gennaio, se avessi saputo anche solo le domande giuste da fare, forse avrei potuto fermarlo. Dall’11 gennaio, ci penso ogni ora di ogni giorno. Ma come mi ha ricordato in sogno Aaron, posso sapere solo ciò che già so. E con le conoscenze che ho – osservando, ascoltando, [p. 181 modifica] chiedendo, accanto a lui sul letto, durante i pasti, parlando in metropolitana, dalle nostre scrivanie adiacenti in ufficio, dove lavoravamo a progetti separati – dalle nostre vite insieme, credo che la morte di Aaron non sia stata causata dalla depressione. Credo che la morte di Aaron sia stata causata dalla stanchezza, dalla paura e dall’incertezza. Credo che la morte di Aaron sia stata causata da una persecuzione e da un processo che si protraeva già da due anni (che fine ha fatto il nostro diritto a un processo rapido?) e che aveva già prosciugato tutte le sue risorse finanziarie. Credo che la morte di Aaron sia stata causata da un sistema di giustizia penale che privilegia il potere rispetto alla misericordia, la vendetta rispetto alla giustizia; un sistema che punisce persone innocenti per aver cercato di dimostrare la loro innocenza, invece di accettare patteggiamenti che li segnano come criminali in perpetuo; un sistema in cui le strutture di potere si allineano per far sì che i pubblici ministeri distruggano la vita di un innovatore come Aaron, per perseguire le proprie ambizioni. Chiedetevi questo: se il 10 gennaio Steve Heymann e Carmen Ortiz dell’ufficio del procuratore del Massachusetts avessero chiamato l’avvocato di Aaron dicendo che si erano resi conto del loro errore e che avrebbero ritirato tutte le accuse – o anche se fossero stati pronti a offrire un patteggiamento ragionevole, che non avrebbe segnato Aaron come un criminale per il resto della sua vita – Aaron si sarebbe ucciso l’11 gennaio? La risposta è indiscutibilmente no.

Brewster Khale, caro amico di Aaron, scrisse una poesia, subito dopo la morte del giovane, e sintetizzò egregiamente la sua vita e tutta la sua azione. La intitolò “Howl for Aaron Swartz”

Howl for Aaron Swartz
New ways to create culture
Smashed by lawsuits and bullying
Laws that paint most of us criminal

Inspiring young leaders
Sharing everything
Living open source lives
Inspiring communities selflessly

Organizing, preserving
Sharing, promoting
Then crushed by government
Crushed by politicians, for a modest fee
Crushed by corporate spreadsheet outsourced business development

New ways
New communities
Then infiltrated, baited
Set-up, arrested

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Celebrating public spaces
Learning, trying, exploring
Targeted by corporate security snipers
Ending up in databases
Ending up in prison

Traps set by those that promised change
Surveillance, wide-eyes, watching everyone now
Government surveillance that cannot be discussed or questioned
Corporate surveillance that is accepted with a click

Terrorists here, Terrorists there
More guns in schools to promote more guns, business
Rendition, torture
Manning, solitary, power

Open minds
Open source
Open eyes
Open society

Public access to the public domain
Now closed out of our devices
Closed out of owning books
Hands off
Do not open
Criminal prosecution

Traps designed by the silicon wizards
With remarkable abilities to self-justify
Traps sprung by a generation
That vowed not to repeat
COINTELPRO and dirty tricks and Democratic National Conventions

Government-produced malware so sophisticated
That career engineers go home each night thinking what?
Saying what to their families and friends?

Debt for school
Debt for houses
Debt for life

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Credit scores, treadmills, with chains

Inspiring and optimistic explorers navigating a sea of traps set by us
I see traps ensnare our inspiring generation
Leaders and discoverers finding new ways and getting crushed for it