Canto IX

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Canto VIII Canto X
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ALLEGORIA

Nella persona di Fileno (nome derivato dall’amore) il Poeta descrive se stesso con gran parte degli avvenimenti della sua vita. Fingesi Pescatore per aver egli il primo (almeno in quantitá) composte in volgar lingua poesie marittime. La Fontana d’Apollo in Cipro altro non importa che la copia della vena poetica, la quale oggidí sovrabonda per tutto, massime in materie liriche, ed amorose. L’armi intagliate in essa son simulacri di nove famiglie d’al- cuni Prencipi principali d’Italia, protettori delle Muse Italiane, cioè Savoia, Este, Gonzaga, Rovere, Farnese, Colonna, Orsino, [Doria], e precisamente Medici; sí come l’insegna de’ Gigli scolpita a piè d’Apollo istesso rappresenta lo scudo della casa reale di Francia. La lite de’ Cigni esprime il concorso d’alcuni buoni Poeti Toscani, che gareggiano nella eccellenza, cioè il Petrarca, Dante, il Boccaccio, il Bembo, il Casa, il Sannazaro, il Tansillo, l’Ariosto, il Tasso, ed il Guarini. Nel Gufo e nella Pica si adombrano qualche

Poeta goffo moderno, e qualche Poetessa ignorante. [p. 484 modifica]

ARGOMENT O

Vanno al Fonte d’Apollo i fidi amanti,
mirano l’armi de’ piú degni Eroi.

Quivi in forma di Cigni ascoltai» poi
de’ Toscani Poeti i versi e i canti.

1.Occhi, in cui nutre Amor fiamma gentile
ond’io quest’alma in vital rogo accesi,
volgete (prego) a la mia cetra umile,
mentre al canto l’accordo, i rai cortesi.
Voi mi deste l’ingegno, e voi lo stile,
da voi le carte a ben vergare appresi;
e se v’ha stilla di purgato inchiostro,
prende sol qualitá dal nero vostro.

2.Voi siete i sacri fonti, ove per bere
corro sovente e gli arsi spirti immergo.
Sotto i begli archi de le ciglia altere
piú ch’a l’ombra de’ lauri, 1 fogli vergo:
ch’aver ben donno entro le vostre sfere,
poi che v’abita il Sol, le Muse albergo;
e sento con favor pari a la pena,
donde nasce l’ardor, piover la vena.

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3.Altri colá, dove Parnaso al Cielo
erge in due corna le frondose cime,
per coronarsi del piú verde stelo
sudi a poggiar per calle erto e sublime.
Io sol del vostro altero orgoglio anelo
su ’l monte alpestro a sollevar le rime,
e vo’ che ’l guiderdon de’ miei sudori
sia corona di mirti, e non d’allori.

4.Amor solo è il mio Febo, ed Amor solo
con l’arco istesso, onde gli strali ei scocca,
perché la gloria si pareggi al duolo,
de la mia lira ancor le corde tocca.
Da l’ali del pensier, che spiega il volo
lá donde poi qual Icaro trabocca,
anzi pur da la sua svelse la penna,
con cui scrivo talor quant’ei m’accenna.

5.Se fossi un degli augei saggi e canori,
ch’oggi innanzi a la Dea vengono in lite,
e ’n que’ vitali e virtuosi umori
osassi d’attuffar le labra ardite,
10 spererei non pur de’ vostri onori
note formar men basse o piú gradite,
ma con stil forse, a cui par non rimbomba,
cangiar Venere in Marte, il plettro in tromba.

6.E ’l Duce canterei famoso e chiaro
che di giusto disdegno in guerra armato
vendicò del Messia lo strazio amaro
nel sacrilego popolo ostinato;
e canterei col Sulmonese al paro
11 Mondo in nòve forme trasformato.
Ma poi ch’a rozo stil non lice tanto,
seguo d’Adone e di Ciprigna il canto.

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7.Ecco giá da la porta aurea del mondo
de le fiamme minori il sommo Duce
coronato di raggi il capo biondo
esce su i monti a publicar la luce.
Gli fa festa Natura, e dal fecondo
grembo erbette la terra e fior produce.
L’Alba il corteggia, e ’n queste parti e ’n quelle
gli fan per tutto il ciel piazza le stelle.

8.Poi ch’amboduo di quel piacer divino
han cibato il desio, ma non satollo,
sorgon col Sole, e prendono il camino
verso il Fonte mirabile d’Apollo.
Giungon lá dove chiaro e cristallino
stagna un laghetto, insieme a bracciacollo,
cinto d’un prato, che di fior novelli
serba in ogni stagion mensa agli augelli.

9.Stranio carro era qui di gemme adorno
in sembianza di barca al lido avinto.
Quel de la bionda Aurora o quel del giorno
e di materia e di lavor n’è vinto.
Gran compassi ha di perle, e i chiodi intorno
tutti son di diamante e di giacinto.
11 vaso tutto è d’una conca intera,
ch’apre il capace ventre in meza sfera.

10.Altra di questa mai forse Nereo
non vide opra maggior di meraviglia
o nel ricco Oceano o ne l’Egeo
da la cerulea Theti a la vermiglia.
Nacque del fertilissimo Eritreo
(prodigio di Natura) unica figlia.
L’Arte i fregi v’aggiunse, e l’orlo e ’l giro
le ’ncoronò d orientai zaffiro.

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11.Su basi di smeraldo e di rubino
talamo ben guernito in mezo stassi.
I seggi intorno ha di topazio fino,
d’ametisto Indi’an le rote e gli assi.
Duo mostri il tranno; han d’uomo e di delfino
questi le membra, e d’ambo un misto tassi.
Umana forma ha quella parte ch’esce
de Tacque, il deretan termina in pesce.

12.Cosí talor vid’io pianta feconda
quinci e quindi spiegar varia la chioma,
s’avien ch’arte cultrice in lei confonda
l’uve natie con l’adottive poma;
che mescolando il pampino e la fronda
curva le verdi braccia a doppia soma:
onde congiunte in un vagheggia Autunno
le ricchezze di Bacco, e di Vertunno.

13.Una, i’ non saprei dir se Ninfa o Diva,
dal tronco, ov’è legato, il carro slega,
e dritto ov’è la coppia, invèr la riva
le redine rivolge e ’l corso piega.
Poi con favella affabile e festiva
la ricca poppa ad aggravar lor prega.
Hidrilia ha nome, e giá la bella salma
introdotta nel legno, il legno spalma.

14.Per la tranquilla e placida peschiera
ne vanno insieme a tardo solco e lento,
dove guizzano i pesci a schiera a schiera,
quasi in ciel cristallin stelle d’argento.
Adon l’amenitá de la costiera
e de la conca i fregi ammira intento,
e la bella Nocchiera invitatrice
mentre siede al timon, cosí gli dice:

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15.— La machina, Signor, dov’entro or sei,
fu del Fabro di Lenno alto sudore.
Con questa in grazia venne, e di costei,
ch’è la madre d’Amor, comprò l’amore.
Per trarla ai poco amabili imenei
questa in dono l’offerse in un col core.
Nettuno aggiunse ai preziosi doni
vago poi di piacerle, i duo Tritoni.

16.Né sol (come tu vedi) in acqua è nave,
ma carro, ov’ella il voglia, in aria e ’n terra.
Spinta talor da dolce aura soave
per le piagge del mar trascorre ed erra.
Talor lasciando l’elemento grave,
quand’ella il volo al terzo Ciel disserra,
v’accoppia e scioglie ai Zefiri benigni
le dipinte Colombe, o i bianchi Cigni. —

17.Cosí ragiona, e ’ntanto attorce e stende
contesti di fin or serici stami,
ond’ai tígli de Tacque ordisce e tende
minuti e sottilissimi legami.
Ma mentre appresta il calamo, ed intende,
Pescatrice leggiadra, a trattar gli ami.
Amor con altro laccio e con altr’ésca
di Ciprigna e d’Adon l’anime pesca.

18.In un scoglio approdò la navicella,
che quasi isola siede al lago in grembo.
Questo non osò mai ferir procella,
teme ogni Austro appressarlo, ed ogni nembo.
Né sentí mai latrar fervida stella,
né d’algente pruina asperse il lembo;
ma sprezza, avampi Sirio, o tremi Cauro,
l’inclemenza del Cancro e del Centauro.

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19.Sporge la curva riva in fuor due braccia,
e forma un semicircolo capace,
dove quando il ciel arde, e quando agghiaccia,
sempre ha lo stagno inalterabil pace.
Placido quivi, e con serena faccia
la Dea bella imitando, il vento tace,
e vi fan Tacque a prova e gli arboscelli
ai pesci padiglion, specchio agli augelli.

20.Fiori e conche un sol margine confonde,
erba e limo congiunge un sol confine.
Spiegano Taighe, e spiegano le fronde
in un sito commune il verde crine.
Tra smeraldi e zaffir l’ombre con Tonde
scherzano gareggiando assai vicine;
ed han commercio in su le ripe estreme
le verdi Dee con le cerulee insieme.

21.Oh quante volte, allor che rosso e biondo
ride in braccio a la vite il lieto Dio,
ila l’arenoso suo gelido fondo
la vezzosa Nereida al lido uscio;
e sotto il velo, onde ricopre il mondo
la madre del silenzio e de l’oblio,
con pampini asciugando 1 membri molli
rapí l’uve mature ai dolci colli.

22.Quante, cadder tra perle e tra coralli
i pomi che pendean poco lontani,
e la vendemmia accolsero i cristalli,
giá di vivo rubin gravida i grani,
Spesso strisciando per gli ondosi calli
sdrucciolaste ne Tacque o Dei silvani.
Spesso voi Fauni entro le chiare linfe
correste ad abbracciar Tumide Ninfe.

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23.Loco soviemmi aver veduto ancora
(se non quanto è su ’l fiume) a punto tale
lá dove trae la bella Polidora
da la Dora e dal Po nome immortale,
de l’Augusto Signor, ch’Augusta onora,
delizia serenissima e reale;
e vi vidi sovente in ricche scene
celebrar liete danze, e liete cene.

24.Su per la riva i lucidi secreti
del bel lago spiando ignudi cori
van di fanciulli lascivetti e lieti,
anzi di lieti e lascivetti Amori.
Chi fuor de Tonde trae con lacci e reti,
chi con tremula canna il pesce fuori.
Altri con lunghe fila e ferri adunchi,
altri con gabbie di contesti giunchi.

25.Qui venne a scaricar Tonda tranquilla
del suo bel peso la barchetta estrana.
Qui scesero a veder quella, che stilla
dotto licor, sí celebre Fontana.
Vulcan, divino artefice, scolpilla,
e vinse in essa ogni scultura umana.
Cosí grato esser volse al biondo Dio
quando i celesti adulteri scoprio.

26.Febo poi tanto di sua grazia infuse
in quel marmoreo e limpido lavacro
che la virtú poetica vi chiuse
del suo furor meraviglioso e sacro;
e ’n compagnia de le canore Muse,
di cui tutte v’è sculto il simulacro,
k
sovente visitandolo, con esso

suol le rive cangiar del bel Permesso.

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27.L’onda intanto gorgoglia, ed ecco allora
Sirenetta leggiadra in alto s’erge,
e veduta colei cui Cipro adora,
un’altra volta poi si risommerge.
La man carca di perle indi vien fora,
e ’l bel lido vicin tutto n’asperge;
perle rapite a l’ostriche native,
vie maggior de le noci, e de l’olive.

28.Disse la Dea: — Se pur di perle mai
iía ch’avaro talento il cor ti tocchi,
a tua voglia sbramar qui ben potrai
l’appetito vulgar degli altri sciocchi.
Per me non ne chegg’io; n’han pur assai
la tua bocca ridente, e i miei trist’occhi.
E se nulla curiam fregi men belli,
restinsi cibo a’ miei lascivi augelli.

29.Sappi, che di ricchissime rugiade
l’India, l’Arabia, Eritra e Taprobana
tanta copia non hanno, o Paro o Cade,
o d’Austro il mare o il mar di Tramontana,
quanta in queste felici alme contrade
ne versa ognor del Ciel grazia sovrana.
Poscia in minuti globi il Sol le ’ndura,
e son de’ miei Colombi ésca e pastura.

30.Le perle, perché son d’egual bianchezza,
ama la schiera immacolata e bianca.
Cosí quello splendor, quella finezza
ch’ai lor primi natali in parte manca,
con doppia luce e con maggior bellezza
nel lor ventre s’adempie, e si rinfranca;
e le rimandan fuor con gli escrementi
piú perfette, piú pure, e piú lucenti.

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LA FONTANA D’APOLLO

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31.Il coro poi, ch’è d’adornarmi avezzo,
ile le mie vaghe e leggiadrette ancelle
per fabricar pendente o compor vezzo
sceglie tra lor le piú polite e belle.
l£d io piú ch’altra, una tal pompa apprezzo,
perché la stirpe lor vien da le stelle,
e del cielo e del mare hanno il colore,
lá dove nacque, e dove regna Amore.

32.Si per lo generoso alto concetto,
la cui primiera origine è celeste,
si per la gran virtú del bell’oggetto,
possente a confortar l’animc meste,
sí perché lo splendor reca diletto,
sogliomi compiacer forte di queste.
Queste diero la cuna al nascer mio,
queste per barca e carro ancor vols’io.

33 - Quando l’Aurora il suo purpureo velo
lava con l’onda ch’i fioretti a viva,
di mattutino umor piove dal cielo
picciola stilla in temperata riva,
e condensata in rugiadoso gelo
l’accoglie in cavo sen conca lasciva,
del cui seme gentil vien poi produtto
pari a la madre sua candido frutto.

34.Quel soave licor, ch’avida beve,
è seme, onde tal prole al mondo nasce,
ed è latte in un punto, onde riceve
virtú, che ’l parto suo nutrica e pasce.
La propria spoglia dilicata e lieve
l’avolge quasi in argentate fasce,
e con la puritá de’ suoi splendori
vince de l’Alba i luminosi albori.

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35.Pregiasi molto in lor Tesser sincere,
e d’un candor di nulla macchia offeso,
né la grossezza men, pur che leggiere
non abbian pari a la misura il peso.
Quella forma è miglior, che con le sfere
piú si conforma, ond’ogni lume han preso;
e quelle son tra lor le piú lodate
che soglion per natura esser forate.

36.Ma però ch’ogni bella e ricca cosa
con gran difficoltá sempre s’acquista,
questa sí cara preda e preziosa
con la fatica e col periglio è mista.
Stassene parte entro l’albergo ascosa
la perla, e parte esposta a l’altrui vista.
Su Torlo del covil che la ricetta
a la rapina il Pescatore alletta.

37.L’ingordo Pescator, ch’aperte scorge
le fauci allor de la cerulea bocca,
stende la destra (ahi temerario) e sporge
troppo a sí nobil furto incauta e sciocca:
però che come prima ella s’accorge
che man rapace il suo tesor le tocca,
comprimendo gelosa il proprio guscio
de la casa d’argento appanna l’uscio.

38.Con tanta forza Taffilato dente
stringe in un punto la mordace conca,
che tanaglia o coltel forte e tagliente
men gagliardo e men ratto afferra o tronca.
Restan l’audaci dita immantenente
recise del meschin ne la spelonca,
ben giusta pena a lo sfrenato ardire
del troppo avaro e cupido desire.

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39.Costei però, che n’arricchí Carene,
tutte sa di tal pesca e l’arti e i modi,
e del pesce brancuto apprese ha bene
le scaltre insidie e l’ingegnose frodi,
quando il sasso tra’ nicchi a metter viene
che son de l’altrui viscere custodi,
onde passa securo entro la scorza
la sua nemica a divorar per forza.

40.Quindi suole avenir, che la Cocchiglia,
nel cui grembo si cria la margarita,
quando vede la man che giá la piglia,
spesso il Castor perseguitato imita,
e de la bianca sua lucida figlia,
che generata ha sí, non partorita,
la prodiga a colei, di cui ragiono,
di spontaneo voler libero dono.

41.E se saver vuoi pur chi costei sia,
ch’è destinata ad abitar quest’acque,
figlia fu d’Acheloo, che ’n compagnia
di due gemelle sue d’un parto nacque.
Ma da Fortuna ingiuriosa e ria
la coppia a lei congiunta oppressa giacque;
e ch’ella sol giungesse a queste sponde,
fu grazia mia, che signoreggio Tonde.

42.Gli altri duo del Tirren mostri guizzanti
eran di qualitá simili a questo,
attrattivi negli atti e ne’ sembianti,
donne il petto e la faccia, e coda il resto;
soavissimo rischio a’ naviganti,
doloroso piacer, scherzo funesto;
il cui cantar ne’ salsi ondosi regni
era morte a’ nocchier, naufragio a’ legni.

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43.Ma poi ch’ogni arte lor vinse e deluse
di lá passando il Peregrin sagace,
quando con cera impenetrabil chiuse
le caute orecchie a l’armonia tenace,
d’ira arrabbiate, e di dolor confuse
le disperse del mar l’onda rapace:
e (salvo questa, che campò per sorte)
per desperazion si dier la morte.

44.De le tre mezo Pesci e mezo Dive
quella che ’n questo mar gittata venne,
qui (come vedi) immortalmente vive,
ciò per pietá dal mio gran Nume ottenne.
L’altre per vari lidi e varie rive
corser, né so ben dir ciò che n’avenne.
So ben, ch’una di lor da Tonde spinta
presso Cuma e Pozzuol rimase estinta.

45.E trasportata a quella nobil sede,
miglior che ’n vita, in morte ebbe ventura,
perché de’ Calci il popolo le diede
il Paradiso mio per sepoltura:
dico il lieto paese, ove si vede
sí di se stessa innamorar Natura;
a cui cinto di colli il mar fa piazza:
ch’a Nettuno è teatro, a Bacco è tazza.

46.Da Tossa de la Vergine canora
che ’n quel terren celeste ebbe l’avello
spirto di melodia pullula ancora,
quasi d’antico onor germe novello.
Piú d’una lira vi si sente ognora,
e piú d’un bianco mio musico augello.
E che sia vero, un de’ suoi figli ascolta,
a che dolce canzon la lingua ha sciolta. —

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47.Volgesi a quella parte ond’esce il canto
Adone, e vede un Pescator su ’l lito.
Di semplice duaggio ha gonna e manto,
ed ha di polpo un capperon sdruscito.
Ampio cappel, che si ripiega alquanto,
gli adombra il crin, di sottil paglia ordito.
Tiene a piè la cistella, in man la canna,
con cui de Tacque il popol muto inganna.

48.— Lilla — dicea — che sí fastosa e lieta
ognor ne vai del mio tormento acerbo,
deh Vienne a l’ombra, or che ’l maggior Pianeta
scalda il Leon feroce e ’l Can superbo.
Qua Vienne, ove leggiadra e mansueta
un’Anguilla domestica ti serbo,
che di limo si nutre entro un forame
di questo scoglio, e non ha spine o squame.

49.Piú bel non vide o piú vezzoso pesce
del Mincio mai la celebrata pesca.
Spesso qualora il mar si gonfia e cresce
salta dal fondo in su ia riva fi esca.
Va per l’erba serpendo, e tant’oltr’esce,
che vien fin nel mio grembo a prender l’ésca.
Di fin oro a l’orecchie ha duo pendenti,
e mi vomita in man perle lucenti.

50.Ha lunga coda, e larga testa e grossa,
bocca aperta e viscosa, ed ampie terga.
La schiena è di color tra bruna e rossa,
d’auree macchie smaltata a verga a verga.
Si dibatte per l’acqua, e per la fossa,
né pur in pace un sol momento alberga.
Lubrica scorre, entra per tutto e guizza,
e se la tocca alcun, tosto si drizza.

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CANTO NONO

Tua sará, se l’accetti; e se ti piace
deporre alquanto il dispietato orgoglio,
del tuo vivaio entro rumor vivace
io di mia mano imprigionar la voglio.

Oh di quest’animal vie piú fugace,
piú dura al mio pregar di questo scoglio.

Vienne a temprar deh Vienne un doppio ardore,
e se ’l pesce non vuoi, prenditi il core. —

Chiede a Venere Adon, chi sia colui,
che sí ben col cantar l’aure lusinga.

— È de’ nostri — risponde —, Amor di lui
non avrá mai chi piú fort’arda o stringa.

Fileno ha nome, e da l’insidie altrui

è qui giunto a menar vita solinga.

Nacque colá ne la felice terra

che la morta Sirena in grembo serra.

Ma se ti cal piú oltre intender forse
di sue fortune, andianne ov’egli stassi. —

Cosí sen giro, ed ei quando s’accorse
vèr lui drizzar la bella coppia i passi,
di cotanta beltá stupido sorse
per reverirla, da que’ rozi sassi;
ma con man gli accennò l’amica Dea
che di lá non partisse, ove sedea.

— Per romper — dice — o per turbar non vegno
i tuoi dolci riposi, o i bei lavori.

Sai ben, che quando del mio patrio regno
prendesti in prima a celebrar gli onori,
io diedi forza al tuo affannato ingegno,
svegliandolo a cantar teneri amori;
onde il nome immortale ancor per tutto
serban di Lilla tua l’arena e ’l flutto.

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LA FONTANA D’APOLLO

498

55.Del foco tuo con mormorio sonoro
fará ’l mar, dov’io nacqui, eterna fede;
e come Apollo ti donò l’alloro,
cosí l’alga Nettuno or ti concede.
Lodanti i muti pesci, e tu di loro
fai dilettose e volontarie prede;
anzi con soavissime rapine
prendi l’anime umane, e le divine.

56.Fortunato Cantor, la nobil arte
quanto piú gradirei del tuo concento,
se i diletti e i dolor spiegassi in carte
che per costui, non piú sentiti, io sento;
per costui, ch’è di me la miglior parte,
amaro mio piacer, dolce tormento,
mezo de l’alma mia, vita mia vera,
anzi di questa vita anima intera.

57 -

Deh (te ne prego) cosí ’l Ciel secondo
sempre e benigno a’ tuoi desir si mostri,

la bella istoria degl’incendii nostri.

So, che se quest’ardor lieto e giocondo
sará materia a’ tuoi vitali inchiostri,
passerá l’onda oscura, e chiara ha
non senza gloria tua, la fiamma mia.

58.Farò (se ciò farai) per te colei
languir, per cui languisci, amante amata;
e quando il nodo, onde legato sei,
verrá poscia a troncar Parca spietata,
nel felice drappel de’ Cigni miei
ti porrò, candid’ombra, alma beata,
dove l’Eternitá, che sempre vive,
nel libro suo l’altrui memorie scrive. —

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59.Risponde: — O degna Dea de la beltate,
Imperadrice d’ogni nobil petto,
canterò, scriverò, se voi mi date
vena corrispondente al bel suggetto.
Da voi vienimi lo stile, e voi levate
sovra se stesso il debile intelletto,
poi che la cetra mia rauca e discorde
s’ha de’ lacci d’Amor fatte le corde.

60.Questo cor, che si strugge a poco a poco
languendo di dolcissima ferita,
la mercé vostra, in ogni tempo e loco
sará fonte d’amor piú che di vita,
somministrando al suo celeste loco,
ne le pene beato, ésca infinita:
con tal piacer per la beltá ch’adoro
sperando vivo, e sospirando moro.

61.Nacque nel nascer mio, né fia ch’estinto
manchi per volger d’anni ardor sí caro.
Quelle catene, ond’io son preso e cinto,
insieme con le fasce mi legaro.
Que’ lini istessi, in ch’io fui prima avinto,
la piaga del mio petto anco fasciaro.
Lavato a pena dal materno bagno,
fui lavato dal pianto, onde mi lagno.

62.Amor fu mio maestro, appresi amando
a scriver poscia, ed a cantar d’Amore.
Di duo furori acceso, arsi penando,
l’un mi scaldò la mente, e l’altro il core.
L’uno insegnommi a lagrimar cantando,
l’altro a far le mie lagrime canore.
Amor fe’ con la doglia amaro il pianto,
Febo con l’armonia soave il canto.

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63.Negar non voglio, né negar poss’io,
ch’ai dolci studi, agli onorati affanni,
che rapiscono i nomi al cieco Oblio,
e fanno al Tempo ingordo eterni inganni,
fatale elezzi’on l’animo mio
non inclinasse assai fin da’ prim’anni.
In qualunque martir grave e molesto
refugio unqua non ebbi altro che questo.

64.Ma da questa di vezzi arte nutrice
ecco le spoglie alfin, ch’altri riporta,
ecco qual frutto vien di tal radice,
un guarnel di zigrin, l’amo, e la sporta.
Trofei del nostro secolo infelice,
in cui di gloria ogni favilla è morta.
L’etá del ferro è scorsa, e sol di questa
la vilissima rugine ne resta.

65.Tempo fu, ch’ai cultor de’ sacri rami
favorevoli fur molto i pianeti.
Or sol regnano in terra avare fami,
e copia v’ha di Principi indiscreti,
de’ quai s’alcuno è pur, che ’l canto n’ami,
ama le Poesie, non i Poeti;
né fia poca mercé, quand’egli applaude
premiando talor laude con laude.

66.Di me non parlo, e se pur canto o scrivo,
d’Amor, non di Fortuna io mi lamento,
ché non in tutto di ricchezze è privo
chi trae la vita povero e contento.
In tale stato volentier mi vivo,
bastami sol, che d’oro ho lo stromento.
Lo stromento ch’io suono (a quell’alloro
vedilo lá sospeso) è di fin oro.

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67.Ha di Gigli dorati intorno i fregi,
ed ha gemmato il manico e le chiava.
Dono ben degno del gran Re de’ Regi,
Rege, amor de’ soggetti, onor degli ava.
Sí non indegni di cantar suoi pregi
fussero i versi miei poco soavi,
com’egli è tale in fra gli Eroi maggiori,
qual è il suo Giglio in fra i piú bassi fiori.

68.Ma questo è il men, se non che ’l vulgo, a cui
fosco vel d’ignoranza i lumi appanna,
prendendo a scherno i bei sudori altrui,
nel conoscere il meglio erra e s’inganna.
E se ben io tra que’ miglior non fui,
sovente chi piú vai biasma e condanna.
Miser, di colpi tali ognor fu segno
il mio battuto e travagliato ingegno!

69.Piú d’una volta il genitor severo,
in cui d’oro bollian desiri ardenti,
stringendo il morso del paterno impero
«Studio inutil» mi disse «a che pur tenti?»
Ed a forza piegò l’alto pensiero
a vender fole ai garruli clienti,
dettando a questi supplicanti e quelli
nel rauco foro i queruli libelli.

70.Ma perché potè in noi Natura assai,
la lusinga del Genio in me prevalse,
e la toga deposta, altrui lasciai
parolette smaltir mendaci e false.
Né dubbi testi interpretar curai,
né discordi accordar chiose mi calse,
quella stimando sol perfetta legge
che de’ sensi sfrenati il fren corregge.

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71.Legge omai piú non v’ha, la qual per dritto
punisca il fallo, o ricompensi il merto.
Sembra quanto è fin qui deciso e scritto
d’opini’on confuse abisso incerto.
Da le calunnie il litigante afflitto
somiglia in vasto mar legno inesperto.
Reggono il tutto con affetto ingordo
passi’on cieca, ed interesse sordo.

72.La Rota eletta a terminar le liti
qual nova d’Issíon rota si volve,
e con giri perpetui ed infiniti
trattien l’altrui ragion, né la risolve.
Pur que’ lunghi intervalli alfin spediti,
spesso il buon si condanna, e ’l reo s’assolve.
De l’oro, al cui guadagno è il mondo inteso,
la bilancia d’Astrea trabocca al peso.

73.Tennemi pur assai la patria bella
dentro i confin de le native soglie,
dico Napoli mia, che la sorella
de la Sirena tua sepoita accoglie.
Ma perché l’uom ne l’etá sua novella
è pronto a variar pensieri e voglie,
vago desio mi spinse, e mi dispose
a cercar nove terre, e nove cose.

74.Mossemi ancor con falsi allettamenti
la pcTSiiasi’on de la speranza,
ed al sacro splendor degli ostri ardenti
mi trasse pien di giovenil baldanza,
si ch’a l’altrice de le chiare genti
chiesi mercé di riposata stanza,
credendo Amor vi soggiornasse, come
par che prometta il suo fallace nome.

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75.Parte colá de’ piú liet’anni io spesi,
e de’ colli famosi a l’ombra vissi,
e sotto Stelle nobili e cortesi
or l’altrui lodi, or le mie pene scrissi.
Stelle, i cui raggi d’alta gloria accesi
vinceano i maggior lumi in Cielo affíssi:
ma l’infiuenze lor per tutto sparse,
ad ogni altro benigne, a me fur scarse.

76.Vidi la Corte, e ne la Corte io vidi
promesse lunghe, e guiderdoni avari,
favori ingiusti, e patrocinii infidi,
speranze dolci, e pentimenti amari,
sorrisi traditor, vezzi omicidi,
ed acquisti dubbiosi, e danni chiari,
e voti vani, ed Idoli bugiardi,
onde il male è securo, e ’l ben vien tardi.

77.Ma come può vero diletto? o come
vera quiete altrui donar la Corte?
Le diè la Cortesia del proprio nome
solo il principio, il fine ha da la Morte,
lo volsi dunque pria che cangiar chiome,
terra e cielo cangiar, per cangiar sorte.
Ma lung’ora però del loco, in cui
ricovrar mi devessi, in dubbio fui.

78.Sperai di tanti danni alcun ristoro
trovar lá dove ogni valor soggiorna,
ne la Cittá che ’l nome ebbe dal Toro,
sí come il fiume suo n’ebbe le corna.
Venni a la Dora, che di fertil oro
(come il titol risona) i campi adorna.
Ma ’n prigion dolorosa, ove mi scòrse,
lasso, che ’n vece d’òr, ferro mi porse!

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LA FONTANA D’APOLLO

5°4

79.Di quel Signor, che generoso e giusto
regna colá de l’Alpi a le radici,
non mi dogl’io; cosí pur sempre Augusto
goda, al valor devuti, anni felici.
Sol del destino accuso il torto ingiusto,
e ’l finto amor de’ disleali amici,
per la cui sceleragine si vede
lá dove nasce il Po, morir la fede.

80.Venne, sospinta da livor maligno,
ancor quivi l’Invidia a saettarmi,
che sua ragion con scelerato ordigno
difender volse, e disputar con l’armi;
e rispondendo col focil sanguigno
e col tuon de le palle al suon de’ carmi,
mosse l’ingiurie a vendicar non gravi
de le penne innocenti i ferri cavi.

81.M’assalse insidiosa, e com’avante
lingua vibrò di fiele e di veleno,
cosí poi vomitò foco sonante
per la bocca d’un fulmine terreno.
Con la canna forata e folgorante
tentò ferirmi, e lacerarmi il seno,
come la fama mi trafisse, e come
mi lacerò con le parole il nome.

82.Non meritava un lieve scherzo e vano
d’arguti risi, e di faceti versi,
ch’altri devesse armar l’iniqua mano
di sí perfidi artigli e sí perversi,
e scoccar contro me colpo villano,
ch’inerme il fianco a la percossa offersi.
Che non fa? che non osa ira e furore
d’animo desperato, e traditore?

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CANTO NONO

Pensò forse il fellon quando m’offese
per atto tal di migliorar ventura,
e con la voce del ferrato arnese
d’acquistar grido appo l’etá futura.

Sperò col lampo che la polve accese
di rischiarar la sua memoria oscura,
e fatto da la rabbia audace e forte
si volse immortalar con la mia morte.

Girò l’infausta chiave, e le sue strane
volgendo intorno e spaventose rote,
abbassar fe’ la testa al fiero Cane
che ’n bocca tien la formidabil cote,
si che toccò le machine inumane
ond’avampa il balen ch’altrui percote,
e con fragore orribile e rimbombo
aventò contro me globi di piombo.

Ma fusse pur del Ciel grazia seconda,

ch’innocenza e bontá sovente aita,

o pur virtú di quella sacra fronda

che da folgore mai non è ferita;

fra gli ozii di quest’antro e di quest’onda

fui riserbato a piú tranquilla vita.

Forse com’amator di sua bell’arte,
campommi Apollo da Vulcano e Marte.

Quindi l’Alpi varcando, il bel paese
giunsi a veder de la contrada Franca,
dove i gran Gigli d’oro ombra cortese
prestaro un tempo a la mia vita stanca.

La virtú vidi, e la beltá francese,
v’abonda onor, né cortesia vi manca.
Terren sí d’ogni ben ricco e fecondo,
ch’i’ non so dir, se sia provincia, o mondo.

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87.Ma però che ’l Furor suole in gran parte
di que’ petti guerrieri esser Tiranno,
e le penne pacifiche e le carte
con aste e spade conversar non sanno,
e tra gli scoppi e i timpani di Marte
i concenti d’Amor voce non hanno,
questo scoglio romito, e questo lido
feci de’ miei pensier refugio e nido.

88.Qui mi vivo a me stesso, e ’n quest’arena
che cosa sia felicitá comprendo,
e qui purgando la mia roza vena,
da’ tuoi candidi Cigni il canto apprendo,
con cui sfogar del cor la dolce pena
la Pescatrice mia m’ode ridendo.
Vena povera certo, ed infeconda,
ma schietta e naturai, com’è quest’onda.

89.Cosí vinto il rigor del fier destino,
con cui vera Virtú sempre combatte,
di Pausilippo e Nisida e Pioppino
risarcisco le perdite c’ho fatte.
Il puro stagno, e ’l bel fonte vicino,
le lor rive fiorite, e Tonde intatte
son mia Corte, e mia reggia; altro non bramo,
che l’erba e l’acqua e la cannuccia e l’amo.

90.Uom, ch’anelante a vani acquisti aspira,
e ’n cose frali ogni suo studio ha messo,
fa qual turbo o paleo, che mentre gira,
la sepoltura fabrica a se stesso,
e dopo molte rote alfin si mira
aver al moto il precipizio appresso.
Che vai tanto sudar, gente inquieta,
s’angusta fossa a le fatiche è meta?

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91.Il meglio è dunque in questa vita breve
procacciar contro Morte alcun riparo,
e poi che ’l corpo incenerir pur deve,
rendere almeno il nome eterno e chiaro.
Chi da Fortuna rea torto riceve
specchisi in me, ch’a disprezzarla imparo.
Sol beato è chi gode in ore liete
tra modesti piacer bella quiete. —

92.— Virtú non men ch’Amor, di sé s’appaga —
dice la Dea, ch’intenta il parlar ode. —
Sí come amor sol con amor si paga,
cosí virtú sol di virtú si gode.
Altro premio, altro prezzo, ed altra paga
non richiede, né vuol, ch’onore e lode.
Ella è merce e mercé sola a se stessa. —
Cosí dicendo, al bel fonte s’appressa.

93.Xe l’Isoletta un picciol pian ritondo
da siepe è cinto di fin oro eletto,
che col metallo prezioso e biondo
difende il praticel, che vi fa letto.
E di germi odoriferi fecondo
d’aromatiche piante havvi un boschetto,
che fan con l’ombre lor frondose e spesse
il loco insuperbir di ricca messe.

94.Un Parnasetto d’immortal verdura
nel centro del pratel fa piazza ombrosa,
in mezo al cui quadrangolo a misura
la pianta de la fabrica si posa.
Fermansi a contemplar l’alta struttura
la Vaga e ’l Vago in su la sponda erbosa,
e van mirando i peregrini intagli,
cui nulla è sotto il Sole opra ch’agguagli.

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LA FONTANA D’APOLLO

508

95.Di terreno Scultor scarpelli industri
formar non saprien mai sí bella Fonte;
e ben fece molt’anni e molti lustri
ai tre Giganti Etnei sudar la fronte.
Nove di marmo fin figure illustri
cerchiano un sasso, e ’l sasso assembra un monte
e quel monte ha due cime, e ’n su le cime
alato corridor la zampa imprime.

96.Deh perdoniti il Ciel sí grave fallo,
per cui men caro il buon licor si tiene,
Zoppo fabricator del bel cavallo
che ne venne ad aprir novo Hippocrenel
Bastar ben ti devea che ’l suo cristallo
scaturisse Helicona in larghe vene,
senza far di quell’acque elette e rare
l’uso a pochi concesso, omai vulgare.

97.Quanti da indi in qua del nome indegni
poeti il chiaro studio han fatto vile?
Quanti con labra immonde audaci ingegni
vanno a contaminar l’onda gentile?
Non si turbi il bel coro, e non si sdegni,
se venale e plebeo divien lo stile:
poi che del mondo ogni contrada quasi
di Cabalimi abonda, e di Parnasi.

98.È sí ben finto il zappador destriero,
ch’a lo spuntar del giorno in Oriente
i corsieri del Sol credendol vero
ringhiando gli annitrirono sovente.
Piove dal sasso in un diluvio intero
la piena in pila concava e lucente;
e la pila, ch’accoglie in sé la pioggia,
de le Muse su gli omeri s’appoggia.

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99.Ha lo stromento suo ciascuna Musa,
ed a ciascun stromento in ogni parte
l’onda canora in cavo piombo chiusa
per molte canne l’anima comparte.
Strangolata gorgoglia, indi diffusa
volge machine e rote ordite ad arte,
e con tenor di melodia mentita
de la man, de la bocca il suono imita.

100.Sta sotto l’ombra de la cava pietra
che sottogiace al volator Pegaso
il bel Signor de la cornuta cetra,
il gran Rettor di Pindo e di Parnaso.
In testa il lauro, al fianco ha la faretra,
e versa l’acqua in piú capace vaso:
l’acqua, che d’alto vien lucida e tersa,
per l’armonico plettro in giú riversa.

101.Intorno al labro spazioso e grande
de la conca che copre il Re di Deio,
s’intesse il fonte da tutte le bande
di traslucido argento un sottil velo,
e ’n tal guisa il suo giro allarga e spande
che vien quasi a formar coppa di gelo,
in guisa tal, ch’a chi per ber s’appressa
tazza insieme e bevanda è l’acqua istessa.

102.Par che quel chiaro velo innargentato,
che di liquidi stami ordí Natura,
abbia l’Arte tessuto e lavorato
per guardar da la polve onda sí pura;
o sia per asciugar forse filato
l’acqua, che ’n sostener quella scultura
le Dee del tempo e de l’oblio nemiche
stillan, quasi sudor de le fatiche.

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103.Volgon le Muse, l’una a l’altra opposte,
le spalle al fonte, ed a lo stagno il viso,
e ’n diverse attitudini composte
fanno corona a l’armentier d’Anfriso.
In piè levate, e ’n vago ordin disposte
grondan perle dal crin, brine dal viso:
e scalze e mezo ignude accolte in cerchio
de la gran conca reggono il coverchio.

104.Da la conca piú alta a la piú bassa,
che ’n baccino maggior Tacque ricetta,
de le bell’onde il precipizio passa,
la qual pur le riceve, e le rigetta.
Nel cerchio inferior cader le lassa,
dove l’acqua divisa a bere alletta.
In quattro fonti piccioli è divisa,
ed ogni fonte ha la sua statua incisa.

105.Quattro le statue son; la Gloria in una,
la Fama in altra parte incise stanno,
la Virtú quindi, e quinci la Fortuna
vaghi al vago lavor termini fanno;
e ’n cima a tre scaglion posta ciascuna,
ch’agiato a l’altrui sete adito danno,
l’acqua in vaso minor versa e ripone
o per urna, o per tromba, o per cannone.

106.Chi può dir poi, sí come scherza, e ’n quante
guise si varia la volubil vena?
Or per torto sentier serpendo errante
tesse di bei Meandri ampia catena.
Or con dirotta aspergine saltante
bagna lambendo il ciel l’aura serena;
e poi che quanto può s’inalza e poggia,
sparge l’accolto nembo in lieta pioggia.

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107.Piovuta si ringorga e si nasconde
l’acqua, e ’n cupo canal suppressa alquanto,
singhiozza sí, che ’l mormorio de Tonde
sembra di rossignuol gemito e pianto.
Poi per secrete vie sboccando altronde,
esce con forza tal, con furor tanto,
che si disfiocca in argentata spuma,
e somiglia a veder candida piuma.

108.Meraviglia talor, mentre s’estolle,
arco stampa nel ciel simile ad Iri.
Trasformasi l’umor liquido e molle,
vólto in raggi, in comete, in stelle il miri.
Miri qui sgorgar globi, eruttar bolle,
lá girelle rotar con cento giri,
spuntar rampolli, e pullular zampilli,
e guizzi e spruzzi e pispinelli e spilli.

109.Ne lo spazio che Torlo a cerchiar viene
tra cornice e cornice al maggior vase,
havvi un fregio di scudi, il qual contiene
Tinsegne in sé de le piú chiare case,
e di Cigni scherzanti e di Sirene
varie trecce ogni scudo ha ne la base,
che distendendo van su i bianchi marmi
Tali e le code, e fan cartiglio a Tarmi.

110.Posto è in tal guisa intorno a la bell’opra
l’ordin de Tarmi piú famose al mondo,
che de le Muse, che stan lor disopra,
reggon Tincarco, compartite in tondo.
Come l’una sostenga, e l’altra copra,
son tra lor con bel cambio appoggio e pondo.
Ogni statua uno scudo ha sotto il piede
e in ogni scudo un simbolo si vede.

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111.Per distinguer l’imprese il fabro egregio
de l’ornamento nobile e sublime,
mischi di piú color, ma d’egual pregio
scelse e polí con ingegnose lime.
Tal che d’ogni divisa il vario fregio
le differenze in color vario esprime,
e con pietre diverse in un commesse
e scultura e pittura accoppia in esse.

ii 2. —■ Vedi marmi colá vivi e spiranti —

disse al suo bell’Adon Venere allora. —
Son famiglie d’Eroi, de’ cui sembianti
Virtú si pregia, e Poesia s’onora.

Hanno molto a girar gli anni rotanti
pria ch’abbian vita, e non son nati ancora.
Mosso Vulcan da spirito presago,
innanzi tempo n’adombrò l’imago

113.Tu dèi saver, che sotto ’l Ciel, secondo
il giro di quel fuso adamantino,
che la Necessitá rivolge a tondo,
mossa però dal gran Motor divino,
la serie de le cose al basso mondo
muta immutabil sempre alto destino,
e fra queste vicende anco le lingue
l’una nasce di lor, l’altra s’estingue.

114.La dotta cetra Argiva udrassi pria
su ’l Cefiso spiegar melati accenti,
e trarre a la dolcissima armonia
del mare Orientai sospesi í vènti.
Privilegio fatai di questa fia
di sacre cose innebriar le menti,
sollevando ai secreti alti misteri
de’ Numi eterni i nobili pensieri.

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115.Moverá non men dolce il Tebro poi
su le corde Latine il plettro d’oro,
onde da’ Cigni miei ne’ poggi suoi
da ripiantato il trionfale alloro.
Grave, e ben atto a celebrare Eroi
sará del Lazio il pettine canoro,
ed a sonar con bellicosí carmi
di Guerrieri e di Duci imprese ed armi.

116.Succederá la Tosca Lira a queste,
di queste assai piú dilicata e pura,
che di tutti gli onor s’adorna e veste
onde I’altre arricchirò Arte e Natura.
Intenerito dal cantar celeste
l’Arno al corso porrá freno e misura,
e da’ versi allettato e trattenuto
porterá tardo al mare il suo tributo.

117.Questa con vaghi metri e dolci note
e con numeri molli accolti in rima
ha che per propria e singoiar sua dote,
meglio ch’altra non fa, gli amori esprima.
Or a le Tosche Muse (ancor che ignote)
fu il nobil Fonte dedicato in prima;
né certo edificar si devean cose
nel paese d’Amor, fuor ch’amorose.

118.Ma perch’è ver, che de le Muse afflitte
sono Invidia e Fortuna emule antiche,
uopo d’alte difese, e d’armi invitte,
avran contro sí perfide nemiche.
Le case dunque, che qui son descritte,
sosterran l’onorate altrui fatiche;
e questi fien tra’ Principi piú degni
che daran fida aita ai sacri ingegni.

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119.Beato mondo allor, mondo beato,
cui tanta amico Ciel gloria destina.
Beatissima Italia, a cui fia dato
per costor risarcir l’alta ruina,
e tornar trionfante al primo stato
de le provincie universal Reina. —
Sí dice, e de la schiera ivi scolpita
le generose imagini gli addita.

i 20. — Ferma — dicea — la vista in quella parte,

dove il bianco Corsier su ’l rosso splende.
Questo, se ben feroce il fiero Marte
ama, e foco guerrier nel petto accende,
talor d’Apollo a vie piú placid’arte
inerme ancora, e mansueto intende;
ond’aprendo la vena a novi fonti
fia che, novo Pegaso, il Ciel sormonti.

121.Sappi, che fra que’ mostri, onde s’adorna
del sommo Ciel la lucida testura,
oltre il Pegáso, altro destrier soggiorna,
adombrato però di luce oscura.
Pur di segno minor maggior ritorna
sol per esser di questo ombra e figura;
e le sue fosche e tenebrose stelle
tempo verrá, che saran chiare e belle.

122.Né speri alcun giá mai con sprone o verga
domarlo a forza, o maneggiarlo in corso,
con dura sella premergli le terga,
o con tenace fren stringergli il morso.
Spirito in lui sí generoso alberga,
ch’intolerante ha di vii soma il dorso.
Chi crede averlo o soggiogato, o vinto
con fatai precipizio a terra è spinto.

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123.Pur deposto talor l’impeto audace,
ch’avrá di sangue ostil versati rivi,
chiuderá Giano, ed aprirá la Pace,
ed ai cipressi innesterá gli olivi.
Germoglieran dal cenere che giace
de’ cadaveri morti i lauri vivi,
e diverran sol per lodarlo allora
l’Alpi Parnaso, e Caballin la Dora.

124 Dal chiaro armento di Sassonia uscito
carco n’andrá di scettri e di diademi;
né pur la bella Italia al fier nitrito
ma fia che l’Asia sbigottisca e tremi.

Poi di spoglie e trofei tutto arricchito
verrá de la mia Cipro ai lidi estremi.

Ma che? Fiero destin, perfido Trace... —

E qui scioglie un sospiro, e pensa, e tace.

125.— Tu vedi — segue poi — l’Aquila bianca,
che divide de l’aria i campi immensi,
e le nubi trascende, e lieve e franca
su i propri vanni in maestá sostiensi.
Quella in opre d’onor giá mai non stanca
l’insegna fia de’ gloriosi Estensi,
il cui volo magnanimo e reale
per vie dritte e sublimi aprirá l’ale.

126.Non tanto le verrá la bella insegna
per la divina origine d’Hettorre,
quanto perché con lei fia che convegna
l’inclita augella che viltate aborre.
Quella però, ch’ogni bassezza sdegna,
assai presso a le sfere il Ciel trascorre.
Questa dal vulgo allontanando i passi
non fia ch’a vii pensier l’animo abbassi.

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LA FONTANA D’APOLLO

5 i6

127.Quella la spoglia de l’antiche piume
dentro puro ruscel ringiovenita,
di rinovar se stessa ha per costume
a molti e molti secoli di vita.
Questa purgata entro ’l Castalio fiume,
quasi Fenice del bel rogo uscita,
verrá l’ire del Tempo a curar poco,
fatta immortai da Tacque, e non dal foco.

128.E come quella ognor con guardo fiso
avezzar a la luce i figli suole,
in quel modo ch’a’ rai del tuo bel viso
anch’io sempre mi volgo, o mio bel Sole;
cosí da questa con accorto a viso
imparerá la generosa prole
di Febo amica, ed a’ suoi raggi intesa,
di celeste splendor mostrarsi accesa.

129.Ben s’agguaglian tra lor, se non che quella
i Cigni d’oltraggiar prende diletto,
ma da questa, ch’io dico, Aquila bella
avran gli augei canori ésca e ricetto.
E s’altr’Aquila in Ciel conversa in stella
d’una cetera sola adorna il petto,
questa n’avrá fra l’altre in terra due
possenti ad eternar le glorie sue.

130.Vedi quell’altre poi quattro seguenti,
emule de la prima, Aquile nere,
per accennar, ch’a tutti quattro i vènti
hanno il volo a spiegar de Tali altere.
A semplici Colombe ed innocenti
non saran queste ingiuriose e fiere,
ma spirti avran di guerreggiar sol vaghi
con Nibbi ed Avoltoi, Vipere e Draghi.

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131.Rapí cangiato in queste torme istesse
il mio gran genitor vago Garzone,
ben che (cred’io) se te veduto avesse,
preposto avrebbe a Ganimede Adone.
Ma se costume è naturale in esse
satollar di rapine il curvo unghione,
queste pronte a donar, non a rapire
sol di prede di cori avran desire.

132.Predice a queste l’indovina Manto
il favor tutto de l’Aonie Dive.
Per queste il Mincio con eterno vanto
popolate di Cigni avrá le rive,
mormorando concorde al nobil canto
de’ suoi Gonzaghi le memorie vive,
che vivran sempre in piú d’un stil facondo,
e non morran fin che non more il mondo.

133.Sotto l’ali di queste il maggior Cigno,
che dará vita al mio Troian pietoso,
da mollir, da spezzar duro macigno
formerá canto in ogni etá famoso.
E giá da queste ancor destro e benigno
giunto in Italia a procacciar riposo
ebbe lo stesso Enea presagio e segno
di felice vittoria, e lieto regno.

134.Mira quel tronco, a cui di fronde aurate
fanno pomposo il crin germi felici.
È la Quercia d’Urbin, che ’n altra etate
tali e tante aprirá rami e radici,
che poi ch’avrá di spoglie assai pregiate
arricchiti di Roma i colli aprici,
in riva porterá del bel Metauro
con suoi frutti lucenti un secol d’auro.

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LA FONTANA D’APOLLO

5 r8

135.Questa piú ch’altra pianta irrigar l’onde
denno del fecondissimo Helicona.
Di questa Apollo a le sue chiome bionde
di lauro in vece, intesserá corona.
Al mormorio de le soavi fronde
il suono invidiar potrá Dodona.
Avranno a l’ombra sua tranquillo e fido
i miei candidi augei ricovro e nido.

136.La bella scorza, che seccar non potè
ardor d’estate, né rigor di verno,
porterá al Ciel con mille incise note
de’ suoi chiari cultori il nome eterno.
Il ceppo altier, che fulmine non scote,
prendendo d’Aquilon l’ingiurie a scherno,
sempre maggiore acquisterá fermezza,
come fa nel mio cor la tua bellezza.

137.Or colá volgi gli occhi ai sei Giacinti,
nel cui lieto ceruleo a punto miri
quell’azurro sereno, onde son tinti
de le tue luci i lucidi zaffiri.
Sí chiaro è quel color che gli ha dipinti,
che s’egli avien che ’n essi il guardo giri,
non sa il pensier, che dubbio alterna ed erra,
dir se sien Gigli in Cielo, o Stelle in terra.

138.Gigli celesti e fortunati, oh quale
seme d’alte speranze in voi s’accoglie!
Qual d’odori di gloria aura immortale
trarrá la Fama da le vostre foglie!
E quant’Api da voi porteran l’ale
ricche di ricche e preziose spoglie:
onde illustre lavor fia poi costrutto
ch’empierá di dolcezza il mondo tutto.

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139.Voi piantati e nutriti in que’ begli orti,
dove non son da bruma i fiori offesi,
darete per sottrarle agli altrui torti
a le sante sorelle ombre cortesi.
Per voi non men magnanimi che forti
cresceran tanto in pregio i gran Farnesi,
ch’a qual fiume piú celebre e piú chiaro
la palma usurperan la Parma e ’l Taro.

140 Quella Colonna, il cui candor lucente
del tuo seno assomiglia il bel candore,
sostegno ha de la Virtú cadente,
stabil come la fede è nel mio core.

E se tra le Colonne in Occidente
la gran lampa del Sol tramonta e more,
da questa invitta e salda ad ogni crollo
rinascerá con la sua luce Apollo.

141.Quante volte, quand’io (folle ch’io m’era)
di Gradivo l’amor gradir solía,
questa (diceami) la mia reggia altera,
questa de’ miei trionfi il trono ha.
Cesari e Mecenati in lunga schiera
per lei rinoverá la cittá mia;
né figli mai tra’ suoi famosi e chiari
la gran Lupa Latina avrá piú cari.

142.L’altro scudo vicin, che per traverso
di tre strisce vermiglie il bianco inostra,
e di Rose purpuree il campo terso
(simile al volto tuo) fregiato mostra;
di stirpe ha, splendor de l’Universo,
pompa del Tebro, e meraviglia nostra:
a cui, come a miglior fra le migliori,
ben converrassi il Fior degli altri fiori.

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143.Fior, che del sangue mio superbo vai.
Fior, pupilla d’Amor, tesor di Maggio,
tu de’ prati di Pindo onor sarai,
né dèi d’ombra o di Sol temere oltraggio.
Quella, ch’onora il Ciel Romano, e mai
non tuffa in torbid’onda il chiaro raggio,
de’ fregi tuoi, non piú di stelle inteste
porterá le ghirlande, Orsa celeste.

144.Ecco del gran Tonante, ecco poi nero
un altro egregio imperiale augello.
Del Doria, a cui di Dori il salso impero
destinato è dal Ciel, lo scudo è quello.
Fido ministro del gran Giove Ibero
arderá, ferirá lo stuol rubello,
sí come tu con tuoi pungenti sguardi
i ritrosi d’Amor ferisci ed ardi.

145.Non ha questo a vibrar del Cielo in terra
il tripartito folgore vermiglio,
ma de l’altro internai, che ’n nova guerra
ha temprato di bronzo, armar l’artiglio.
Quanto il lembo del mar circonda e serra
tremerá tutto, e correrá periglio.
Solo il verde arboscel, non che ferito,
ha difeso da questo, e custodito.

146.De la progenie ch’io ti conto e mostro
Aquila peregrina alzerá ’l volo,
che ’mporporata del piú lucid’ostro
le brune penne, andrá da polo a polo.
Progenie degna di famoso inchiostro,
del mondo onor, non di Liguria solo,
degna piú ch’altra assai del favor mio,
che dará legge al mar, dove nacqu’io.

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147.Ma deh pon’ mente a le purpuree Palle,
di que’ Medici illustri arme sovrana,
per cui (se ’l chiaro antiveder non falle)
le piaghe antiche ha da saldar Toscana.
Da Fortuna battute, al Ciel faralle
balzar Virtú sovr’ogni gloria umana.
Con esse al gioco de l’instabil sorte
vinceranno i lor Duci Invidia e Morte.

148.Palle d’alto valor fulminatrici,
onde tempesta uscir deve sí fatta,
che de’ rubelli esserciti nemici
ha ch’ogni forza, ogni riparo abbatta.
Per cui non sol de’ Barbari infelici
la superbia cadrá rotta e disfatta,
ma de lo scoppio il gran rimbombo solo
tutto de’ vizii atterrirá lo stuolo.

149.Sono i bei Globi simili ai celesti,
e simulacri de le sfere eterne;
e ben pari e conforme in quelle e ’n questi
(tranne sol uno) il numero si scerne,
a dinotar ch’agli onorati gesti
tutte quante n’ha il Ciel rote superne
volgeranno propizie amico lume,
solo escluso Saturno, infausto Nume,

150.Fiorir l’arti piú belle, e rischiararsi
allor d’Arno vedrein le torbid’acque;
e risorger la luce e rinfrancarsi
de l’Italico onor, ch’estinta giacque;
e molti ingegni a nobil volo alzarsi
su l’ali di colui che da me nacque,
e con chiari concenti addolcir l’aura
dietro ai Cantor di Beatrice e Laura. —

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LA FONTANA D’APOLLO

5“

151 E qui rapita ai secoli lontani

la bella Citherea la mente aperse,
onde l’istoria de’ successi umani,
quasi in teatro, al suo pensier s’offerse,
e ne’ piú cupi e piú profondi arcani
de l’etá da venir tutta s’immerse.

— Oh qual’ — dice — vegg’io, correndo i lustri,
nascer di ceppo tal germogli illustri!

152.Io veggio quinci dopo molto e molto
volger di Ciel, girar di mesi e d’anni,
del secol tristo in tenebre sepolto
spuntar un Sole a ristorare i danni:
Sol, ch’avrá sol di Donna il sesso e ’l volto,
ma ’l cor sempre viril tra i regii affanni.
Ogni nobil virtú sol da costei
verrá che nasca, o sorgerá per lei.

153.Non fia mai, che di questa un piú bel manto
alma copra piú saggia, o piú pudica.
Ma de le lodi sue basti sol tanto,
uopo non è ch’io piú di ciò ti dica,
ché qual proprio ella siasi, e come, e quanto
vinca di pregio ogni memoria antica,
in parte ov’io condur ti voglio in breve,
esserne l’occhio tuo giudice deve. —

154.Cosí gli dice, ed a la bella il bello
le parole interrompe in tal maniera:
— Deh dimmi, o fida mia, che scudo è quello,
lo qual posto non è con gli altri in schiera,
ma ne la base sta, che fa scabello
al gran motor de la piú chiara sfera?
In quell’azur, ch’ai ciel par si somigli,
che voglion dir que’ tre dorati Gigli? —

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155.— De la casa di Francia è la divisa,
e tal loco a ragion Vulcan le diede,
però ch’a punto a quella istessa guisa
fia di Febo — risponde — albergo e sede,
E sí come dal numero divisa
starsi sola in disparte ivi si vede,
cosí d’ogni valor ricca e possente
se n’andrá singoiar da l’altra gente.

156.Ragion è ben, che de l’Italia aggiunga
questa sola straniera onore ai fregi:
ch’altra giá mai, cui Virtú scaldi e punga,
non fia, ch’i Cigni suoi cotanto appregi.
Troppo fora a contar la serie lunga,
che n’uscirá, de’ gloriosi Regi:
e senz’annoverar sí folto stuolo
basta per tutti ad illustrarla un solo.

157.Come tutte nel cor raccolte sono
de l’altre membra le virtuti insieme,
cosí tutta il Signor, di cui ragiono,
raccorrá in sé de’ suoi l’unica speme.
Né men materia a qual piú chiaro suono
dará da celebrar sue glorie estreme,
che premio a’ bei sudor che i sacri monti
stillar vedran da le piú dotte fronti.

158.Con man tenera ancor, legata e stretta
terrá Fortuna mobile e vagante,
sí che resa a Virtú serva e soggetta
faralla a suo favor tornar costante.
E ’l Veglio alato, che con tanta fretta
fugge, e fuggendo rompe anco il diamante,
perché gli onori suoi non se ne porti,
con groppi stringerá tenaci e forti.

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159.Oltre il buon zelo, e la giustizia, a cui
dritto è che Gallia ogni speranza appoggi,
ha che tra’ Gigli d’òr sol per costui
de le Muse Toscane il coro alloggi.
Il Tago e ’l Gange irrigheran per lui,
in vece del Castalio, i sacri poggi,
onde per fecondar l’arido alloro
Tacque, ch’or son d’argento, allor hen d’oro.

160.Nasci nasci o Luigi, amica stella
quant’onor, quanto pregio a te promette!
Vibri pur cjuanto sa cruda e rubella
l’altrui perfidia in te lance e saette.
Taccio l’altre tue glorie, e passo a quella
che le Muse da te non fian neglette.
De’ dolci studi, e de la sacra schiera
te Rettore e Tutore il mondo spera.

161.Cresci cresci o Luigi, inclita prole
d’alme eccelse e reali, e giuste e pie.
Il tuo gran nome, ove l’altrui non suole
si spargerá per disusate vie;
e dove sorge, e dove cade il Sole,
e dove nasce, e dove more il die
la Fama il porterá leggera e scarca,
e romperá le forbici a la Parca.

162.Tra molte e molte cetre, onde rimbomba
de’ tuoi vanti immortali il chiaro grido,
dal Sebeto traslata odo una tromba
de la tua Senna al fortunato lido.
Questa trar ti potrá d’oscura tomba,
e darti in fra le stelle eterno nido,
ch’empiendo il Ciel d’infaticabil suono
--ará lira al concento, e squilla al tuono.

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163.E se ben chi la suona, e chi la tocca
sosterrá di Fortuna oltraggi e scherni,
quando l’invidia altrui maligna e sciocca
ha che ’n lui sparga i suoi veleni interni,
mentr’avrá spirto in petto, e fiato in bocca,
non però cesserá, che non t’eterni,
di te narrando meraviglie tante,
che ne suoni Parnaso, e tremi Atlante. —

164.Allor Venere tace, e dove folta
stendon la verde chioma allori e faggi,
mille intorno al bel Fonte e mille ascolta
Poeti alati e Musici selvaggi,
che con rime amorose a volta a volta
e con infaticabili passaggi
intrecciando sen van per la verdura
di lasciva armonia dolce mistura.

163.Il vago stuol de’ litiganti augelli,
per riportar de’ primi onori il fasto
innanzi a Citherea tra gli arboscelli
cominciò gareggiando alto contrasto,
e concenti formò sí novi e belli
ch’a pareggiargli io col mio stil non basto.
Giurò Venere istessa in Ciel avezza
che le sfere non han tanta dolcezza.

166.O perch’assai piacesse a questa Piva
il canto che ’n su ’l fine è piú sollenne,
o perché monda e di sozzure schiva
amasse il bel candor di quelle penne,
gregge di bianchi Cigni ella nutriva
ne l’Isoletta ove quel giorno venne,
ch’ambiziosi allor de le sue lodi
a cantar si sfidaro in mille modi.

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167.Infiniti da strani ermi confini
guerrier facondi e musici campioni,
e domestici a prova e peregrini,
vi concorsero insieme a far tenzoni.
Ira’ frondosi s’udír mirti vicini
vibrar accenti, e saettar canzoni,
e de la pugna lor, che fu concento,
fu steccato la selva, e tromba il vento.

168.Vari di voce, e ne lo stil diversi,
tutti però del par leggiadri e vaghi,
e tutti a la gentil coppia conversi
cantan com’Amor arda, e come impiaghi.
Cantan molti il futuro, e forman versi
de l’opre altrui fatidici e presaghi,
ché quel ch’ivi si bee furor divino
sveglia ne’ petti lor spirto indovino.

169.— Stiamo ad udir — la Dea di Pafo disse —
degli alati Cantor le dolci gare.
Tener l’orecchie attentamente affisse
si denno a quell’insolito cantare,
perché sí belle ed onorate risse
saranno in altra etá famose e chiare.
Gli augelli autor di sí soavi canti
son di sacri Poeti ombre volanti.

170.L’anime di costor, poi che disciolte
son da’ legami del corporeo velo,
passano in Cigni, e che ’n tal forma involte
vivan poi sempre, ha stabilito il Cielo.
E tra questi mirteti in pace accolte
le fa beate il gran Rettor di Deio,
lá dove ognor, sí come fér giá quando
tenner corpo mortai, vivon cantando.

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171.Molte ve n’ha, ch’ancor rinchiuse e strette
non son tra’ sensi, e queste pur son tali,
a cantar qui per mia delizia elette
fin che ’n career terreno implichin l’ali. —
Adone il canto ad ascoltar si stette
di que’ felici Spiriti immortali,
che giá venian con voci in vece d armi
nel verde agone al paragon de’ carmi.

172.Fu benigno favor, grazia cortese
di lei, ch’è de’ suoi lumi unico Sole,
e miraeoi del Ciel, ch’Adone intese
di quel linguaggio i sensi e le parole,
e ben distinto ogni concetto apprese
espresso fuor de le canore gole.
Ne la scola d’Amor che non s’apprende,
se ’l parlar degli augelli anco s’intende?

173.Era tra questi augei l’ombra d’Orfeo,
che fe’ de’ versi suoi seguace il bosco.
Pindaro v’era, ed eravi Museo,
e Teocrito v’era, e v’era Mosco.
Eravi Anacreonte, eravi Alceo,
e Safo, alto splendor del secol fosco,
che non portò di quanti io qui ne scrivo
luce minore a l’idioma Argivo.

174.V’era lo stuol di que’ Latini primi
che ’n amoroso stil meglio cantaro.
Gallo, Orazio, Catullo, alme sublimi,
Tibullo, Accio, Properzio, e Tucca, e Varo,
ed Ovidio, di cui non è chi stimi
ch’altro Cigno d’Amor volasse al paro.
V’era la schiera poi de’ piú moderni
de l’Italica lingua onori eterni.

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LA FONTANA D’APOLLO

528

175.E se ben gli altri, che le bianche piume
per le piagge spiegar di Roma e d’Argo,
fur lor maestri, ond’ebber spirto e lume,
mercé ch’a quelli il Ciel ne fu piú largo,
questi, però che di Parnaso il Nume
gli ha destinati a posseder quel margo,
cantano soli a la gran Dea presenti,
tacciono gli altri ad ascoltare intenti.

1 76. Aristofane tu, ch’ornasti tanto
lá ne’ Greci teatri il socco d’oro,
tu, che d’interpretar ti désti vanto
il ragionar del popolo canoro,
e ’n scena il novo inesplicabil canto
spiegar sapesti, e le favelle loro,
tanta or dal biondo Dio mercé m’impetra
che distinguerlo insegni a la mia cetra.

177.Un ve ne fu, che sovra un verde Lauro
fece col suo cantar l’aura immortale,
ed illustrò dal Battriano al Mauro
quel foco, che d’Apollo il fe’ rivale;
dicendo pur, ch’a le quadrella d’auro
cede la forza del fulmineo strale,
poi che ne l’arbor sacra, al Ciel diletta,
dove Giove non potè, Amor saetta.

178.Altro, il cui volo pareggiar non lice,
ben su 1 ’ Ali l 1 g g 1 e r, tre mondi canta,
e la beltá beata, e Beatrice,
che da terra il rapisce, essalta e vanta.
Un suo vicin con stil non men felice
seco s’accorda in una istessa pianta,
perché Certaldo ammiri, e ’l mondo scerna
la sua Fiamma, e la fama a un punto eterna.

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170.Havvi poi d’ A D r 1 a ancor canoro mostro,
purpureo Cigno, e nobile e gentile,
che la lingua ha di latte, e ’l manto d’ostro,
rossa la piuma, e candido lo stile.
Apre non lunge augel d’ E T r u r i a il rostro
(salvo il capo ch’è verde) a lui simile,
appellando il suo amor su ’l verde stelo
Scoglio in mar, Selce in terra. Angelo in Cielo.

180.Accompagna costor soavemente
il Sonator de la Sincer a avena,
che le Muse calar fece sovente
di Mergellina a la nativa arena.
Le cui dolci seguir note si sente
anco un altro fígliuol de la Sirena,
che con qual arte i rami a spogliar vegna
lo sfrondator de la V e n d e m m i a, insegna.

181.Donne insieme ed Eroi, guerre ed amori,
quel che nacque in su ’l Po cantar s’udia,
immortalando di Ruggier gli onori
con pura vena e semplice armonia;
e di dolcezza innebríava i cori,
i circostanti tronchi inteneria.
Arder facea d’amor le pietre e Tonde,
sospirar l’aure, e lagrimar le fronde.

182.Testor di rime eccelse e numerose
di Parthenope un figlio a lui successe,
e prese a celebrar I’Armi pietose,
liberatrici de le mura oppresse;
e i suoi pensier sí vivamente espose,
i versi suoi sí nobilmente espresse,
che fe’ del nome di Goffredo e Guelfo
sonar Cipro non sol, ma Deio, e Delfo.

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183.Né tu con voce men gradita e cara
favoleggiando il canto tuo sciogliesti,
dico a te, che di gloria oggi sí chiara
il tuo Fido Pastori-; adorni e vesti.
Seguir voleano, e de la nobil gara
dubbia ancor la vittoria era tra questi,
quand’ecco fuor d’un cavernoso tufo
sbucar difforme e rabbuffato un Gufo.

184.— Oh quanto oh quanto meglio, infame augello,
ritorneresti a l’infelici grotte,
nunzio d’infausti auguri, al Sol rubello,
e de l’ombre compagno, e de la notte.
Non disturbar l’angelico drappello,
vanne tra cave piante e mura rotte
a celar quella tua fronte cornuta,
quegli occhi biechi, e quella barba irsuta.

185.Da qual profonda e tenebrosa buca,
Nottula temeraria, al giorno uscisti?
Torna lá dove Sol mai non riluca
tra foschi orrori, e lagrimosi e tristi.
Tu trionfi cantar d’invitto Duca?
Tu di Mondi novelli eccelsi acquisti?
Tu de l’Invidia rea figlio maligno
di Pipistrel vuoi trasformarti in Cigno? —

186.Cosí parla a l’augel malvagio e brutto
la Dea, sdegnando un stil sí rauco udire,
e i chiari onor del domator del flutto,
dov’ella ebbe il natal, tanto aviiire.
Spiace de’ Cigni al concistoro tutto
la villana sciocchezza e ’l folle ardire,
che l’alte lodi ad abbassar si metta
del Colombo a lei sacro una Civetta.

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187.Mentre a garrir s’appresta, acconcio in atto
che de la nobil turba il gioco accresce,
e scote l’ali, e in un medesmo tratto
gli urli tra’ canti ambizioso ei mesce,
loquacissima Pica il contrafatto
uccellato Uccellone a sfidar esce,
e con strilli importuni in rozi carmi
dássi anch’ella a gracchiar d’amori e d’armi.

188.Ma che? non prima a balbettar si mise
quel suo (canto non giá) strepito e strido,
ch’alto levossi in mille e mille guise
in fra i volanti ascoltatori un grido,
ed empiè sí, che Citherea ne rise,
quasi di festa popolare il lido.
Tacque alfine, e fuggí non senza rischio,
del vulgo degli augei favola e fischio.

189.— Non è gran fatto, che l’audacia stolta
di questa Gaza, che sí mal borbotta,
1’adunanza gentil ch’è qui raccolta
— disse Venere bella — abbia interrotta.
Giá volse in altra forma un’altra volta
con la schiera pugnar famosa e dotta;
ma con l’altre Pieridi confuse
vergogna accrebbe a sé, gloria a le Muse. —

190.Amor, che vede di quel canto lieto
la madre intesa a la piacevol guerra,
volando intanto, ove ’l vicin mirteto
insidiosa chiave asconde e serra,
volge anelletto picciolo e secreto,
e con gagliardo piè batte la terra:
ed ecco d’acqua un repentino velo,
che fa pelago al suolo, e nube al cielo.

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191.A pena il piede il pavimento tocca,
e l’ordigno volubile si move,
che ’l fonte traditor súbito scocca
saette d’acqua inaspettate e nove,
e prorompe in piú scherzi, e mentre fiocca,
tempesta par, quand’è sereno, e piove.
Spicciano Tonde, ed aventate in alto
movono a chi noi sa furtivo assalto.

192.Come qualora a Roma il festo giorno
del suo sommo Pastor riporta Tanno,
le fusette volanti a mille intorno
col fermamento a gareggiar sen vanno,
ma ne riedon poi vinte, e nel ritorno
lucido precipizio a terra fanno,
e fanno le cadenti auree fiammelle
un diluvio di folgori e di stelle:

193.cosí ’l bel fonte in piú fonti si sparse,
se non quanto diverso è l’elemento.
Questo gioco bagnò, quel laioi aise,
e l’una pioggia è d’òr, l’altra d’argento.
Alcun non sa di lor come guardarse
da quel furor, ch’assale a tradimento.
Altrui persegue, e quanto piú lo schiva,
dov’uom crede salvarsi, ivi l’arriva.

194.Ahi crudo Amor, versar fontane e fiumi
arte non è, che tu pur ora impari,
avezzo giá per soliti costumi
le tue fiamme a spruzzar d’umori amari.
E non ti basta ognor da’ nostri lumi
lagninosi stillar ruscelli e mari,
ma spesso vuoi che gl’infelici amanti
spargano il sangue, ove son scarsi i pianti.

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195.Fugge la Dea di mille rivi e mille
bagnata il sen col suo bel foco in braccio;
e — Queste — dice a lui — gelide stille,
che m’han tutta di fuor sparsa di ghiaccio,
tosto rasciugherò con le faville
di que’ sospiri ond’io per te mi sfaccio. —
Va poi seco in disparte, e cosí lassa
in penoso piacer l’ore trapassa.

196.Giá tramontar volea la maggior stella,
e del giorno avanzava ancora poco,
quando col bell’Adon Venere bella
partí da quel delizioso loco.
— Diman, dolce mio ben — gli soggiuns’ella —
ai primi lampi del diurno foco
ne verrai meco a visitare insieme
de’ regni miei le meraviglie estreme.

197.E ’I mio carro immortai vo’ che ti porti
su i sereni del Ciel campi lucenti,
a piú vaghi giardini, a piú begli orti,
dove in vece di fiori ha stelle ardenti,
magion d’incorrottibili diporti,
patria beata de le liete genti.
Non deve a te mia gloria essere ascosa,
ché degna è ben del Ciel celeste cosa.

198.Quivi data per me ti fia licenza
di contemplar con mortal’occhi impuri
quante d’alta beltá somma eccellenza
Donne avran mai ne’ secoli futuri;
ben che m’ingombri il cor qualche temenza,
e vo’ che la tua fé me n’assecuri,
non alcuna di lor, mentre la miri,
a me ti tolga, ed al suo amor ti tiri. —

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199.Se ben la Dea d’Amor cosí dicea,
non n’era la cagion solo il diletto,
ma perché desviarlo indi volea,
non senza aver di Marte alto sospetto,
sapendo ben, che la sua stella rea
il riguardava con maligno aspetto:
e temea non le fusse a l’improviso
dentro le braccia un dí colto ed ucciso.

200.Sorgea la notte intanto, e l’ombre nere
portava intorno, e i pigri sogni in seno.
De bimmortali sue lucenti Fere
tutto il campo celeste era giá pieno;
e di quelle stellanti e vaghe schiere
per le piagge del ciel puro e sereno
la cacciatrice Dea, che fugge il giorno.
Torme seguia con argentato corno.