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il passaggio dell'acheronte 91

parer mio, di loro si può, se d’altri mai, di loro in modo tipico si può dire, ch’hanno perduto quel bene. In vero, qual è quel bene? È il bene che scevera gli uomini dai bruti; cui chi non ha o perde, non vive: secondo ciò che Dante afferma:1 “...vivere è l’essere delli viventi; e perciocchè vivere è per molti modi, siccome nelle piante vegetare, negli animali vegetare e sentire e muovere, negli uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare, ovvero intendere (alcuni testi hanno intelligere); e le cose si deono denominare dalla più nobile parte; manifesto è, che vivere negli animali è sentire, animali dico bruti, vivere nell’uomo è ragione usare.„2 Or qui Dante ha nel pensiero appunto questo ragionamento conviviale, che lo conduceva a dir vile, anzi vilissimo, e bestia, e morto, chi non segue, non potendo essere “da sè guidato„, le vestigie degli altri. E qui Dante tocca di quelli che non usano affatto l’intelletto, quindi non si servono di quello “alcuno lumetto di ragione„ che ci vuole per o discernere da sè o imparar da altri a discernere le vie del cuore.

  1. Conv. IV 7.
  2. Benvenuto infatti spiega: «perdettero l’intelletto, che è il più gran bene, e che distingue l’uomo dalle bestie...» Il bene dell’intelletto è il vero (Arist. Eth. 2, 6, citato in Summa 1a 94, 4). Adamo peccò rinnegandolo, misconoscendolo; peccò, non ostante che egli vedesse il vero: non fu ingannato. E così corruppe quel primo stato umano, in cui l’inganno non era possibile. Gli sciaurati quel primo stato, in cui il vero si vede, lo riebbero dal Cristo; ma il vero lo videro invano; lo trascurarono, lo gittarono, l’hanno perduto. Vedi quell’articolo della Summa sopra citato. Vedi anche nel Conv. II 14: la verità speculare... è l’ultima perfezione nostra, siccome dice il Filosofo nel sesto dell’Etica, quando dice che ’l vero è il bene dell’intelletto.