Pagina:Monsignor Celestino Cavedoni.djvu/39

32

nere di componimenti, modesti sì ma non poco malagevoli, nei quali egli congiunge la semplicità all’eleganza, la chiarezza e facilità all’arte ben poco facile dì dettarli con molta varietà di concetti e di forma in circostanze somiglianti. lo non vi dissi dell’infaticabile corrispondente, che non lascia senza riscontro alcuna proposta, ne del linguista, che al possesso dei classici idiomi, quotidianamente necessari all’Archeologo e al Professore, aggiunse la cognizione del Colto, esplorò quello della misteriosa Etruria, fu intendente nel Francese e nel Provenzale, nel Tedesco e nell’Inglese. Né finalmente vi descrissi il Sacerdote di soave ed incorrotto costume, che scrupolosamente adempie i doveri lutti di una vocazione, angusta e sublime nell’origine, nell’esercizio, nello scopo.

La durata dell’età sua fu quella che, per sentenza ancora dell’Allighieri, segna il cammino più naturale dell’umana vita. Non era scorso un anno ancora dalla morte del Tiraboschi, ed egli apriva gli occhi alla luce del giorno nel 18 maggio 1795, sui colli Modenesi a Levizzano, poco lungi dalla patria del Muratori. Così la benigna Provvidenza vegliava amorosamente per ristorarci dai patiti danni, quando discese nella tomba quel figlio adottivo della città nostra, che qui ebbe lieto e riposato ostello, e fu Professore onorario di questo Ateneo.

E poiché nel 26 Novembre 1865 suonava l’ora ferale che a Modena rapiva il successore dei due sommi storici, deh possa almeno la sua memoria, anzi quella di si splendido triumvirato, rimanere saldamente impressa nell’animo della crescente generazione; esserle stimolo a forti e virili propositi, sicché non torni a rimprovero di nepoti degeneri e codardi, l’aver sortito la nascita nel paese dove vissero e morirono un Muratori, un Tiraboschi, un Cavedoni. 1

  1. [p. 48 modifica]Gravi dolori amareggiarono gli ultimi anni della sua vita, perchè anche a lui venne applicata la Legge 23 luglio 1862 relativa al cumulo degli impieghi, e dovè subire la perdita della Cattedra. Allorché fu promulgata quella legge, egli era Professore d’Ermeneutica Biblica e lingua Ebraica, Presidente della Facoltà Teologica e Bibliotecario. Per adempierne esattamente le prescrizioni, e conoscere con precisione come doveva diportarsi, spedì al Ministero col mezzo del Prefetto un ragguaglio de’ suoi incarichi ed emolumenti. Dopo del quale il Ministero gli dichiarò che a suo credere poteva conservare la Cattedra e la Biblioteca, ove avesse rinunciato alla Presidenza, per la quale fruiva il modico assegno di 600 lire annue; e quell’autorevole interpretazione della legge gli valse dapprima per conservare i due uffici di Professore e Bibiliotecario. Ma alla fine d’Ottobre dell’anno medesimo quando stava per riscuotere l’emolumento di Professore, sentì dirsi che il suo nome e titolo erano stati esclusi dai mandati riguardanti i Cattedratici della nostra Università. Posto nella necessità d’indagare i motivi di quell’inaspettata determinazione, fece conoscere di essere in piena regola coll’interpretazione data alla legge dallo stesso Ministero, e gli fu fatta ragione. Quindi fino dai primi giorni del 1863 di nuovo ei si trovava sul suo scanno di Professore Universitario, di nuovo a favor suo fu posto in corso l’emolumento. Ma la letizia d’aver ricuperato una Cattedra a lui caramente diletta, doveva essere passeggiera, come lampo di luce che guizza e scompare. Non erano per anche scorsi[p. 49 modifica]quattro mesi, quando una nuova interpretazione ben diversa dalla prima, pioveva a suo danno dalle alte sfere della Commissione Consultiva sui cumuli degli impieghi. Invitato a scegliere fra la Cattedra e la Biblioteca, dava a questa la preferenza per avere miglior agio di attendere ai suoi studj, e nel 18 Aprile cessava definitivamente dall’ufficio di Professore. Rinunciata la cattedra e privato per conseguenza dello stipendio, venne nominato Professore onorario. Tuttavia continuò nell’insegnamento finchè glielo consentirono le forze logore ed affralite. Dopo un servigio di 33 anni egli credeva d’aver diritto alla pensione di Professore, ma non potè ottenerla. Poscia gli venne intimato di restituire gli emolumenti indebitamente percepiti nei primi quattro mesi del 1863, e tra per la crudezza di quel frasario burocratico, tra perchè sapeva d’aver continuato nell’Ufficio di Cattedrante in perfetto accordo col Ministero, si credè di essere trattato con modi d’abjetto sfregio, d’ignobile vilipendio, e ne sentì sino al fondo dell’anima amarezza e cordoglio. Del resto fu per lui di gran ventura l’aver preferito l’ufficio di Bibliotecario a quello di Professore. I tempi cominciavano a volger foschi e procellosi per le Facoltà Teologiche, e prima di tante altre, quella di Modena doveva essere travolta dall’impeto della bufera. Se il Cavedoni avesse conservato la carica di Professore, a breve andare, doveva anch’egli esser gittato sul lastrico cogli altri Cattedratici condannati a durissima sorte. Infatti il Ministero della Pubblica Istruzione, pigliando pretesto da un decreto del Dittatore Farini in data 21 Ottobre 1859 sull’ordinamento dell’Istruzione pubblica nella nostra città, e torcendo in un senso tutto diverso da quello che aveva, una disposizione relativa alla Facoltà Teologica, con un suo dispaccio del Luglio 1863 la distrusse, e non solo tolse lo stipendio ai Professori della Facolta stessa invitandoli a far valere i diritti alla pensione, ma dichiarò che nel liquidarla si sarebbe tenuto conto delle somme da essi riscosse sulla Cassa dell’Erario, per tutto il periodo di tempo successivo alla promulgazione del Decreto Fariniano. Qualche periodico Italiano ha affermato che il Governo del Regno in omaggio alla scienza dispensasse il Cavedoni dall’obbligo del giuramento imposto a tutti gl’impiegati, imitando così iglo-[p. 50 modifica] esempi dati con altri scienzati dal primo e dal terzo Napoleone. Poichè giova serbar memoria d’ogni più lieve particolarità spettante alla vita degli uomini insigni, come diceva il nostro Muratori scrivendo al Zeno, torna opportuno rammentare per filo e per segno come procedettero le cose. Nessun decreto noto al pubblico stabilì a favor suo una deroga alla legge comune. Ei sopravisse di pochi mesi alla promulgazione od applicazione della legge, e non fu invitato a prestare giuramento, ma soggiacque alla penosa ansietà dell’incerto suo destino; non ebbe parole atte a rassicurarlo, e quelli che conoscevano la delicatezza di sua coscienza, ed erano ben molti, si sentivano turbati da dolorose apprensioni. La spada di Damocle gli stava sospesa sul capo, ed egli stesso lo diceva. Un forestiero recatosi un giorno a visitarlo nella Biblioteca, gli manifestò il compiacimento che ne provava, veggendolo tuttora al suo posto. Al quale soggiunse: «sì, io mi trovo ancora quì, ma da un momento all’altro ne posso essere balzato; perchè se mi venisse chiesto il giuramento crederei di non doverlo prestare. Chi avrebbe mai detto che negli ultimi giorni della mia vita potrei essere ridotto ad invocare l’assistenza de’ miei parenti?» Perciò convien dirlo, il Governo usò riguardi al Cavedoni, ma la prova indubitata se ne ebbe solo quando fu colpito dalla morte; in seguito s’intese poi a dire che il Prefetto avesse avuto l’ingiunzione di non pretendere da lui il giuramento. La Deputazione di Storia Patria residente nella nostra città, nel giorno 15 Dicembre 1865, deliberò di fare scolpire in marmo il Busto del Cavedoni, affidandone la commissione all’illustre statuario Giuseppe Obici Professore a Roma, ed invitando i cittadini a contribuire colle loro offerte. Il lavoro venne eseguito, ed ora nella sala maggiore della nostra Biblioteca si veggono le sembianze del sommo archeologo fra quelle del Muratori e del Tiraboschi.