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passo è nuovo, chè se il piede trova traccia si storce e stracolla. Giù. Il petto rompe a sperone l’aria. Giù, scivolando: un volo fino al ramo prossimo, al ciuffo d’erba che ― un dito toccandolo ― mi tiene in piedi. Scatta il sasso in bilico per buttarmi a rovina, s’apre in dirupo la terra per accogliermi sfragellato; ma le mie gambe sono dure e flessibili. Così calava Alboino.

Lichene sotto ai piedi, scricchiolante, rigido; erba giallastra come foglie morte; un querciolo torto, e eccoli i piccoli verdi pini che ondeggiano la testa come bimbi dubitosi. Stretti e intrecciati, così che i piedi s’impastoiano, e com’io mi chino ad aprirmi la strada mi punzecchiano pruriginosi le guance. Procedo: sono tra i pini giganti. Un contadino con la frusta di pastore si ferma e mi guarda.

Mongolo, dagli zigomi duri e gonfi come sassi coperti appena dalla terra, cane dagli occhi cilestrini. Che mi guardi? Tu stai istupidito, mentre ti rubano gli aridi pascoli, i paurosi della tua bora. Barbara è la tua anima, ma sol che la città ti compri cinque soldi di latte te la rende soffice, come le tue ginepraie se tu vi cavi un palmo di macigno. Fermo nel bosco, intontito, aspetti che si compia il tuo destino. Che fai, cane! Oh diventa carogna putrida a impinguare il tuo carso infecondo. Calcare che si sfà e si scrosta e frana, tu sei, terriccio futuro. Di’, sloveno! quanti narcisi produrrai tu questa primavera per le dame del Caffè Specchi?

S’ciavo, vuoi venire con me? Io ti faccio padrone delle grandi campagne sul mare. Lontana è la nostra pia-