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sa distinguere il buono dal cattivo, e mangia fagioli e patate, e brontola dalle profondità: ― Xe bon, xe bon!

Ucio è innamorato di Vila. Dice: ― Vila xe ‘na stela. ― E poichè lo zio di Vila l’ha cacciata infamemente dalla campagna, Ucio cammina a grandi passi su e giù per il piazzale, poi si stravacca di schianto sulla panca e giura vendetta.

Io ci sto. Ottima cosa è la vendetta! Sgusciare di notte tra gli spini della siepe con una lunga stanga in mano e la roncola in tasca! La notte è fonda e muta. Ormai tutti dormono. Le persiane del padron di casa sono chiuse. I cani abbaiano dall’altra parte della campagna.

Ucio dà una risata e diventa bestia. Agguanta la prima vite che trova e la stronca netta. Agguanta un ramo carico di susine e lo divarica puntandosi con le zampe sul tronco; poi piomba a terra con lui. Tonfa un enorme pietrone fra le crote dello stagno che gracidano a squarciapancia, e l’acqua putrida schizza e l’inonda. Si scuote, con una scarponata schianta il pesco nano e si slancia avanti sghignazzando come un satiro in fregola.

Viva la vendetta! Ma io sono quieto e maligno. Apro silenziosamente la roncola, e incido la vite sottoterra perchè muoia e nessuno saprà perchè. D’una stangata rompo la cima del pero, e m’acquatto di colpo per timore che il crac svegli qualcuno.

Silenzio. Le rane. I cani lontano. Una stella cadente.

Ucio chiama dal melo. Egli divora e stronca: per ogni pomo un ramo. Io unghio fondo, uno per uno, i grandi pomi che piacciono molto al padron di casa. Mi lecco le unghie.