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glio davanti a lei. La presi per i polsi e le dissi duro: ― Coss’ti ga? ― Ti ga volù ti. ― Si svincolò, e andò via. Poi, dopo qualche settimana, l’incontrai, mi prese le mani e le baciò.

Io fui subito contento di non esser più con lei; ma avevo confusi desideri, non m’interessava niente, m’annoiavo. A volte, disteso per terra, con gli occhi semiaperti nel cielo, accarezzavo le giovani foglie, e d’un tratto m’avvoltolavo nell’erba dura dei prati.


Ucio è un giovanotto lungo e forte, le braccia pelose anche alla piegatura, i labbri tumidi, le gengive sanguinolente. Coltiva nel suo giardino begliomini, daglie s’ciave, crisantemi di S. Anna. Aveva bisogno d’un fondo per il cesto di fiori che annunziava pronto da cinque domeniche, e ha rubato la nostra tavola del bucato. Ma l’adoperò senza raschiar via il sapone incrostato. Aveva bisogno di rosai perchè noi lo burlavamo dei suoi fiori scempi, e li rubò dal nostro giardino, ma smarrendo sul terreno il gemello d’ottone matto della camicia. Babbo disse la domenica dopo in presenza di molta gente: ― Go trovà ‘sto botton. De chi ‘l xe? ― E Ucio esclamò: ― ‘l xe mio, ‘l xe mio!

Così è Ucio, ragazzone. Il suo rutto puzza d’aglio e le sue mani sono piote. Quando va a fare la scorreria in campagna, torna con la camicia carica di pere dure, strappate senza gambo, come vien vien, ruggini dall’unghie, fracide di sudore del suo ventre pratoso. Egli non