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ranza di idealità di senso pratico, è inglese per quella saggia economia, che tutto raccoglie, non per farne capitale d’usura o di sterile contemplazione, ma per trasformarlo in capitali nuovi e forze nuove. Darwin è minuto, è paziente, è inesauribile nella raccolta dei fatti, e quando spicca il volo nel cielo dell’idealità, ha cura sollecita di portar seco tanta zavorra di fatti, da rendergli facile la discesa sul terreno della realtà. Darwin è tanto inglese da essere perfino umorista e perfino invasore. Egli è anzi uno dei più grandi invasori nel territorio dei viventi. Tutto ha toccato, tutto frugato, perscrutato, palpato; non gli sfuggirono gli oscuri cicripedi, nè i più oscuri lombrici della terra, non le formiche nè le aquile; penetrò nella corolla profonda delle orchidee e fra i petali delle piante carnivore e lungo le volute delle arrampicanti. È ben degno di appartenere a quella razza irrequieta, instancabile, che invade il globo dal Canadà al Sikkim, dalle Isole Falkland alla Nuova Zelanda.

Darwin del resto è imbevuto dal capo ai piedi di succhi inglesi, come ogni grand’uomo è sempre una sinergia potentissima delle forze della nazione a cui appartiene. Dante è una grande personificazione del genio italiano, come Goethe lo è della Germania, come Voltaire della Francia. Un grand’uomo è il fiore dell’albero nazionale, ed è il profumo di quel fiore, la idealità più alta, più complessa e più fedele del carattere di un popolo, anche quando sembra contrario ad esso e sviluppa le proprie forze per condurre i fratelli e i padri per altre vie.

L’ingegno del Darwin è tanto complesso, è tanto incontentabile, da darci a primo colpo d’occhio le