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della mia lunga peregrinazione. Gran parte di questo tempo fu impiegata nell’importante affare di fabbricare una gabbia pel mio Poll: tal fu il nome da me imposto al mio pappagallo, che principiava ora ad essere più dimestico e a mettersi in perfetta corrispondenza con me. Pensai pure alla mia povera capretta lasciata a stentare nel mio frascato, e che era ben ora per me di andare a visitare per darle almeno di che cibarsi, se non me l’avessi tirata, come poi feci, a casa. Andai dunque e la trovai dove l’aveva lasciata, chè già di lì non poteva uscire, ma quasi morta di fame. Tagliate frasche d’alberi o di macchie, come mi riuscì trovarne, gliele gettai dinanzi; poi pasciuta che fu, la posi al guinzaglio siccome la volta precedente, indi la condussi via. Ma poteva risparmiare la cautela del guinzaglio, perchè la fame l’aveva tanto addimesticata, che mi seguì a guisa d’un cagnolino. Avendo poi sempre continuato a nutrirla, divenne sì amorosa e gentile che fu in appresso anch’essa nel numero della mia gente di casa, nè avrebbe mai voluto staccarsi da me.