Canto VIII

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Canto VII Canto IX
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A L L E G O R I A

11 Piacere, che nel giardino del Tatto sta in compagnia della
Lascivia, allude alla scelerata opinione di coloro che posero il
sommo bene ne’ diletti sensuali. Adone, che si spoglia e lava,
significa l’uomo, che datosi in preda alle carnalitá, e attutandosi
dentro Tacque del senso, rimane ignudo e privo degli abiti buoni
e virtuosi. I vezzi di Venere, che con essolui si trastulla, vogliono
inferire le lusinghe della Carne licenziosa e sfacciata, la quale
ama ed accarezza volentieri il diletto.

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ARGOMENT O

Perviene Adone a le delizie estreme,
e prendendo tra lor dolce trastullo
l’innamorata Diva e ’l bel fanciullo
a la meta d’Arnor giungono insieme.

Giovani amanti, e Donne innamorate,
in cui ferve d’Arnor dolce desio,
per voi scrivo, a voi parlo, or voi prestate
favorevoli orecchie al cantar mio.

Esser non può, ch’a la canuta ctate
abbia punto a giovar quel che cant’io.
Fugga di piacer vano ésca soave
bianco crin, crespa fronte, e ciglio grave.

Spesso la curva e debile Vecchiezza,
che gelate ha le vene, e Fossa vote,
incapace de l’ultima dolcezza
aborre quel che conseguir non potè.

Uom non atto ad amar, disama e sprezza
anco il tenor de Famorose note;
e ’l ben che di goder si vieta a lui,
per invidia dannar suole in altrui.

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3.Lunge deh lunge alme severe e schive
da la mia molle e lusinghiera Musa.
Da poesie sí tenere e lascive
incorrotta onestá vadane esclusa.
Ah non venga a biasmar quant’ella scrive
d’implacabil Censor rigida accusa,
la cui calunnia con maligne emende
le cose irriprensibili riprende.

4.Di Poema inorai gravi concetti
udir non speri Hipocrisia ritrosa,
che notando nel ben solo i difetti,
suol còr la spina, e rifiutar la rosa.
So che fra le delizie e fra i diletti
degli scherzi innocenti alma amorosa
cautamente trattar saprá per gioco
senza incendio o ferita il ferro e ’l foco.

5.Suggon l’istesso fior ne’ prati Hiblei
Ape benigna e Vipera crudele,
e secondo gl’instinti o buoni, o rei,
l’una in tosco il converte, e l’altra in mèle.
Or s’averrá ch’alcun da’ versi miei
concepisca veleno, e tragga fele,
altri forse sará men fiero ed empio,
che raccolga da lor frutto d’essempio.

6.Sia modesto l’Autor; che sien le carte
men pudiche talor, curar non deve.
L’uso de’ vezzi e ’l vaneggiar de l’arte
o non è colpa, o pur la colpa è lieve.
Chi da le rime mie d’Amor consparte
vergogna miete, o scandalo riceve,
condanni o scusi il giovenile errore;
ché s’oscena è la penna, è casto il core.

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7.Giá sergenti ed ancelle avean levati
da le candide nappe i nappi d’oro,
in cui di cibi eletti e dilicati
i duo presi d’Amor preser ristoro;
onde poi ch’a versar fiumi odorati
venne l’aureo baccin tra le man loro,
su la mensa volò lieta e fiorita
il bianco bisso ad asciugar le dita.

8.Allor dal seggio suo Venere sorta
verso l’ultima torre adduce Adone.
Vien tosto a disserrar l’aurata porta
l’Ostier de l’amenissima magione.
Ignudo ha il manco braccio, e l’unghia torta
v’affige dentro e stringelo un Falcone.
Le Talpe, le Testudini, e l’Aragne
son sempre di costui fide compagne.

9.Chiuso ne l’ampio e ben capace seno
è quel giardin, de la maestra torre,
degli altri assai piú spazioso, e pieno
di quante seppe Amor gioie raccorre.
Un largo cerchio e di beH’ombre ameno
vien un teatro sferico a comporre,
che col gran cinto de l’eccelse mura
protege la gratissima verdura.

10.Adon va innanzi, e par che novo affetto
d’amorosa dolcezza il cor gli stringa.
Non fu mai d’atto molle osceno oggetto,
che quivi agli occhi suoi non si dipinga.
Sembianti di lascivia e di diletto,
simulacri di vezzo e di lusinga,
trastulli, amori, o fermi il guardo o giri,
gli son sempre presenti, ovunque miri.

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11.Sembra il felice e dilettoso loco
pien d’angelica festa un Paradiso.
Spira quivi il Sospiro aure di foco,
vaneggia il Guardo, e lussureggia il Riso.
Corre a baciarsi con lo Scherzo il Gioco,
stassi il Diletto in grembo al Vezzo assiso
Scaccia lunge il Piacer con una sferza
le gravi Cure, e col Trastullo scherza.

12.Chino la fronte e con lo sguardo a terra
l’amoroso Pensier rode se stesso.
Chiede conforto al duol, pace a la guerra
il Prego in atto supplice e dimesso.
Scopre negli occhi quel che ’l petto serra
il Cenno del Desir tacito messo.
Sporge le labra, e l’altrui labra sugge
il Bacio, e nel baciar se stesso strugge.

13.Sta l’Adulazion sovra le soglie
del dolce albergo, e ’l peregrin vi guida.
La Promessa l’invita, e ’n guardia il toglie,
la Gioia l’accompagna, e par che rida.
La Vanitá ciascun che v’entra accoglie,
e la Credenza ogni ritroso affida.
La Ricchezza di porpore vestita
superbamente i suoi tesor gli addita.

14.Havvi l’Ozio che langue e si riposa
lento ed agiato, e in ogni passo siede.
Pigro, e con fronte stupida e gravosa
seguelo il Sonno, e mal sostiensi in piede.
Ordir di giglio, incatenar di rosa
fregi al suo crin la Gioventú si vede.
Seco strette ha per mano in compagnia
Beltá, Grazia, Vaghezza, e Leggiadria.

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15.Con l’ingordo Desio ne vien la Speme
perfida, adulatrice, e lusinghiera.
Mascherati la faccia, errano insieme
l’accorto Inganno e la Menzogna in schiera.
Sparsa le chiome in su la fronte estreme
fuggendo va l’Occasion leggera.
Balla per mezo la Letizia stolta,
salta per tutto la Licenzia sciolta.

16.L’ésca e ’l focile in man, sfacciata Putta,
tien la Lussuria, ed a l’Infamia applaude.
Baldanzosa l’Infamia, ignuda tutta
non apprezza e non cura onore o laude.
Le serpi de la chioma orrida e brutta
copre di vaghi fior l’astuta Fraude;
e ’l velen de la lingua aspro ed atroce
di dolce riso e mansueta voce.

17.Tremar l’Audacia ai primi furti, e starsi
vedi smorto il Pallor caro agli amanti.
Volan con lievi penne in aria sparsi
gli Spergiuri d’Amor vani e vaganti.
Con l’ire molli e facili a placarsi
van le dubbie Vigilie e i rozi Pianti,
e le gioconde e placide Paure,
e le Gioie interrotte e non secure.

18.Ride la terra qui, cantan gli augelli,
danzano i fiori e suonano le fronde,
sospiran l’aure e piangono i ruscelli,
ai pianti, ai canti, ai suoni Eco risponde.
Aman le fere ancor tra gli arboscelli,
amano i pesci entro le gelid’onde.
Le pietre istesse, e l’ombre di quel loco
spirano spirti d’amoroso foco.

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19.— A Dio, ti lascio; omai fin qui — di Giove
disse lá giunto il messaggier sagace —
per ignote contrade, ed a te nove,
averti scòrto, o bell’Adon, mi piace.
Eccoci alfine in su ’l confin, lá dove
ogni guerra d’Amor termina in pace.
Di quel Senso gentil questa è la sede
a cui sol di certezza ogni altro cede.

20.Ogni altro senso può ben di leggiero
deluso esser talor da’ falsi oggetti;
questo sol no, lo qual sempr’è del vero
fido ministro, e padre de’ diletti.
Gli altri non possedendo il corpo intero
ma qualche parte sol, non son perfetti.
Questo con atto universal distende
le sue forze per tutto, e tutto il prende.

21.Vorrei parlarne, e ti verrei solvendo
piú d’un dubbio sottil de le mie scole;
ma tempo è da tacer, ch’io ben comprendo
che la maestra tua non vuol parole.
lo qui rimango ad Herse mia tessendo
ghirlandetta di mirti e di viole.
Tu vanne, e godi. Io so che ’n tanta gioia
qualunque compagnia ti fora a noia. —

22.Con un cenno cotal di ghigno astuto
si rivolse a Ciprigna in questo dire;
poi smarrissi da Ior, sí che veduto
non fu per piú d’un dí fino a l’uscire.
Ma pria che desse l’ultimo saluto
ai duo focosí amanti in su ’l partire,
de l’un’ e l’altro in pegno di mercede
giunse le destre, e gl’impalmò per fede.

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23.Restár soletti in quell’orror frondoso
poi che Mercurio dipartissi e tacque.
Rigava un fonte il vicin margo erboso,
in cui forte Natura si compiacque.
L’acque innaffiano il bosco, e ’l bosco ombroso
specchia se stesso entro le limpid’acque,
tal ch’un giardino in duo giardin distinto
vi si vedea, l’un vero, e l’altro finto.

24.Porta da questo fonte, umile e lento
per torto solco il picciol corno un rio.
Parria vero cristallo, e vero argento,
se non se ne sentisse il mormorio.
D’oro ha l’arene, e quindi è sempre intento
di sua mano a raccòrlo il cieco Dio,
onde fabrica poi gli aurati strali,
strazio immortai de’ miseri mortali.

25.In duo rivi gemelli si dirama
l’amoroso ruscel; l’uno è di mèle,
picn di quanta dolcezza il gusto t’ r ^r n:i
l’altro corrompe il mèl di tosco e fele:
quel fel, quel tosco, ond’armò giá la Fama
l’aspre saette de l’Arcier crudele.
Crudel Arcier, ch’anco il materno seno
infettò d’amarissimo veleno.

26.Dal velenoso e torbido compagno
sen va diviso il fíumicel melato,
onde per canal d’òr piú d’un rigagno
verga di belle linee il verde prato,
e sboccan tutte in un secreto Bagno
che nel centro del bosco è fabricato.
Di questo Bagno morbido e soave
la Lascivia e ’l Piacer tengon la chiave.

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27.Siede a l’uscio il Piacer di quell’albergo
con la Lascivia a trastullarsi inteso:
garzon di varia piuma alato il tergo,
ridente il volto e di faville acceso.
L’aurato scudo, il colorato usbergo
giacegli inutilmente a piè disteso.
Torpe tra’ fior pacifico guerriero
l’elmo, ch’una Sirena ha per cimiero.

28.Curvo arpicordo da’ vicini rami
pende, e spesso da l’aura ha moto e spirto.
D’ambra tersa e sottile in biondi stami
forcheggia il crine intortigliato ed irto,
tutto impacciato di lacciuoli e d’ami,
di fresca rosa e di fiorito mirto.
Arco di bella e varia luce adorno
gli fa diadema in testa, Iride intorno.

29.Né di men bella o men serena faccia
mostrasi in grembo a lui la Lusinghiera.
Di viti e d’edre i capei d’oro allaccia,
di canuti Armellin guarda una schiera.
Un Capro a lato, e con la destra abbraccia
il collo d’una Libica Pantera.
Regge con l’altra ad un troncon vicino
ammiraglio lucente e cristallino.

30.Quivi al venir d’Adone e Citherea
componendo del crin le ciocche erranti,
i dolcissimi folgori tergea
de le luci umidette e scintillanti.
Spesso a un nido di Passere volgea,
che su l’arbor garrian, gli occhi incostanti;
e la succinta, anzi discinta gonna
scorciava piú che non conviensi a donna.

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31.Ferirò il bell’Adon di meraviglia
quelle forme vezzose e lascivette,
e con l’alma sospesa in su le ciglia
a contemplarle immobile ristette.
Ella d’un bel rossor tutta vermiglia,
impedita da scherzi e lusinghette,
col suo drudo per man da l’erba sorse,
ed al Donzel che rincontrava occorse.

32.Vergata a liste d’or candida tela
di sottil seta e di filato argento
vela le belle membra, e quasi vela
si gonfia in onde e si dilata al vento,
e l’interno soppanno apre e rivela
tra’ suoi volazzi in cento giri e cento.
Crespa le rughe il lembo, e non ben chiude
l’estremitá de le bellezze ignude.

33.Da l’ali de l’orecchie in giú pendente
di due perle gemelle il peso porta.
Sostiene il peso, di fin or lucente
sferica verga in picciol orbe attorta.
Di smeraldi cader vezzo serpente
si lascia al sen con negligenza accorta;
e de la bianca man, eh’ad arie stende,
d’indiche fiamme il vivo latte accende.

34.Da l’estivo calor, che mentre bolle
le ’nfiamma il volto d’un incendio greve,
schermo si fa d’un istromento molle
di piuma vie piú candida che neve,
e per gonfiar di sua superbia folle
con doppio vento il vano fasto e lieve,
v’ha di cristallo orientai commessi
duo specchi in mezo, e si vagheggia in essi.

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35.Tese costei sue reti al vago Adone:
ogni atto er’amo, ogni parola strale.
Rompea talor nel mezo il suo sermone
languidamente, e con dolcezza tale,
che ’l diamante spezzar de la ragione
potea, non che del senso il vetro frale.
Parlava, e ’l suo parlar tronco e diviso
fregiava or d’un sospiro, or d’un sorriso.

36.— Se quanto di beltá nel volto mostri
tanto di cortesia chiudi nel petto,
ché tal certo — diss’ella — agli occhi nostri
argomento di te porge l’aspetto;
venirti a sollazzar ne’ chiusi chiostri
non sdegnerai di quel beato tetto.
Nel tetto lá, ch’io ti disegno a dito,
come degno ne sei sarai servito.

37.Questi è quei (se noi sai) ch’altrui concede
quel ben che può far gli uomini felici.
Ognuno il cerca, ognuno il brama e chiede,
usan tutti per lui vari artifici.
Chi ritrovar ne le ricchezze il crede,
chi ne le dignitá, chi negli amici.
Ma raro il piè da quest’albergo ei move,
né (fuor che nel mio grembo) abita altrove.

38.Del sozzo vaso, ov’ogni mal s’accoglie,
a pena uscí che fu chiamato in Cielo;
ma gli convenne pria depor le spoglie,
tal ch’ignudo v’andò senz’alcun velo.
Scende dal Ciel sovente in queste soglie,
dov’io gelosa agli occhi indegni il celo.
11 celo altrui con ogni industria ed arte,
solo a qualche mio caro io ne fo parte.

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39.Quando volò ne l’immortal soggiorno,
nacque nel mondo un temerario errore.
Del manto ch’ei lasciò si fece adorno
un aversario suo, detto Dolore.
Questi sen va con le sue vesti intorno,
si che ’l somiglia a l’abito di fore;
onde ciascun mortai preso a l’inganno,
in vece del Piacer segue l’Affanno.

40.lo son poi sua compagna, io son colei
che volgo in gioia ogni travaglio e duolo.
Da noi soli aver puoi (se saggio sei)
quel piacer de’ piacer ch’ai mondo è solo.
De’ suoi seguaci, e de’ seguaci miei
è quasi innumerabile lo stuolo;
né tu dèi men felice esser di questi,
poi che giunger tant’oltre oggi potesti.

41.Qui lavarti conviene. A ciò t’invita
il loco agiato, e la stagion cocente.
Nostra legee il richiede, e la fiorita
tua bellezza ed etate anco il consente.
Ma piú quella beltá, che teco unita
teco (oh te fortunato) arde egualmente.
Non entra in questa casa, in questo bosco
chi non vaneggia e non folleggia nosco. —

42.A queste parolette Adon confuso
nulla risponde, e taciturno stassi,
ch’a tenerezze tante ancor non uso
tien dimessa la fronte, e gli occhi bassi.
Ma da piú Ninfe è circondato e chiuso,
che non voglion soffrir ch’innanzi passi.
Qual dal bel fianco la faretra scioglie,
qual gli trae la cintura, e qual le spoglie.

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43.A l’importuno stuol che l’incatena
non senza scorno il Giovinetto cede;
e salvo un lento vel, che ’l copre a pena,
nudo si trova da la testa al piede.
Gira la vista allor lieta e serena
a la sua Diva, e nuda anco la vede,
ch’ogni sua parte piú secreta e chiusa
confessa agli occhi, ed a la selva accusa.

44.Ella tra ’l verde de l’ombrosa chiostra
vergognosetta trattasi in disparte,
sue guardinghe bellezze or cela, or mostra,
fa di se stessa in un rapina e parte.
Impallidisce, indi i pallori mostra,
sembra caso ogni gesto, ed è tutt’arte.
Giungon vaghezza ai vaghi membri ignudi
consigliati disprezzi, incolti studi.

45.Copriala a prova ogni arboscel selvaggio
con braccia di frondosa ombra conteste,
però che ’l Sol con curioso raggio
spiar volea quella beltá celeste.
Videsi di dolcezza ancora il faggio,
il faggio, onde pendean l’arco e la veste,
non possendo capir quasi in se stesso,
far piú germogli, e divenir piú spesso.

46.11 groppo allor, che ’n su la fronte accolto
stringea del crine il lucido tesoro,
con la candida man lentato e sciolto
sparse Ciprigna in un diluvio d’oro;
onde a guisa d’un vel dorato e folto
celando il bianco sen tra Tonde loro,
in mille minutissimi ruscelli
dal capo scaturir gli aurei capelli.

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47.Celò ’l bel sen con l’aureo vel, ma come,
appiattando la testa in cespo erboso,
invan l’augel che trae di Fasi il nome
crede tutto a chi ’l mira essersi ascoso;
cosí se ben de le diffuse chiome
fece a l’altre bellezze un manto ombroso,
scopriva intanto in fra quell’ombre aurate
sol nel Sol de’ begli occhi ogni beltate.

48.Oltre che di quel Sol chiaro e sereno
quella nube gentil non splendea manco.
Ella pur cerca or il leggiadro seno
velarsi, or il bel tergo, or il bel fianco.
Ma le fila de l’or tenersi a freno
su l’avorio non san lubrico e bianco;
e quel che di coprir la man si sforza,
audace venticel discopre a forza.

49.Vanno al gran Bagno. Or da Cantiche carte
di Baia e Cuma il paragon si taccia.
In un quadro perfetto ò con bell’arte
disposto, ed ogni fronte è cento braccia.
Di ben commodi alberghi in ogni parte
cinto, e tre ne contien per ogni faccia.
Camere e logge in triplicata fila
vi stanno, ed ogni stanza ha la sua pila.

50.In mezo a l’edificio alto si scorge
piantato di diaspro un gran pilastro,
per le cui vene interne il fonte sorge,
forate sí da diligente mastro
che per dodici canne intorno porge
Tacque in vasi d’acate e d’alabastro.
È d’argento ogni canna assai ben tersa,
come d’argento son Tacque che versa.

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51.Vansi Tacque a versar, ma pigre e lente,
in ampie conche di forbiti sassi,
sí che raccor si può Iunior cadente
da Tordin primo de’ balcon piú bassi.
Pigra dico sen va l’onda lucente,
e move tardi i cristallini passi,
ché ’n sí ricco canal mentre s’aggira,
le sue delizie ambiziosa ammira.

52.E quindi poscia per occulta tromba
a sua propria magion passa ciascuna,
e traboccando con fragor rimbomba,
tanto lucida piú, quanto piú bruna.
Rassembra ogni magion spelonca o tomba,
par la luce del Sol luce di Luna:
pallido v’entra per anguste vie,
tanto che non v’è notte, e non v’è die.

53.11 portico, a cui l’onda in grembo piove,
serie di curvi fornici sostiene.
Fregiano il muro interior, lá dove
Tumido gorgo a scaricar si viene,
marmi dipinti in strane fogge e nove
di belle macchie e di lucenti vene.
Lusingan d’ognintorno i bei riposi
covili opachi, e molli seggi ombrosi.

54.Ma null’opra mortai l’arte infinita
de la cava testudine pareggia,
che di pietre mirabili arricchita
splende, e gemma plebea non vi lampeggia.
V’ha quel che ’l ciel, v’ha quel che l’erba imita,
v’ha quel ch’emulo al foco arde e rosseggia.
Stucchi non v’ha, ma di sottil lavoro
smalti sol coloriti in lame d’oro.

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55.Tra’ bei confin de le gemmate rive
sí serena traspar l’onda raccolta,
che i non suoi fregi usurpa, e ’n sé descrive
tutti gli onor de la superba volta.
Non tanto forse in sí bell’acque e vive
sdegneria Cinthia esser veduta e còlta.
Forse in acque sí belle il suo bel viso
meglio ameria di vagheggiar Narciso.

50.Quinci (penso) adivien, che la loquace
giá ninfa, che per lui muta si tacque,
d’abitar fatta voce or si compiace
dov’ei di vaneggiar giá si compiacque.
Quivi de’ detti estremi ombra seguace
d’arco in arco lontan fugge per Tacque;
e qual d’Olimpia entro l’eccelsa mole,
moltiplica risposte a le parole.

57.Venne allor l’una coppia, e l’altra scòrse
de’ bei lavacri al piú vicin recesso;
né molto andò, che quindi uscir s’accorse
d’accenti e baci un fremito sommesso.
Adone a quella parte il passo torse
tanto che per veder si fé’ da presso.
Vide, e gli cadder gli occhi in fondo al fonte,
tanta vergogna gli gravò la fronte.

58.Su la sponda d’un letto ha quivi scorto
libidinoso Satiro e lascivo
eh a bellissima Ninfa in braccio attorto
il fior d’ogni piacer coglie furtivo.
Del bel tenero fianco al suo conforto
palpa con una man l’avorio vivo,
con l’altra, ch’ad altr’opra intenta accosta,
tenta parte piú dolce, e piú riposta.

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59.Tra’ noderosi e nerboruti amplessi
del robusto amator la giovinetta
geme, e con occhi languidi e dimessi
dispettosa si mostra e sdegnosetta.
Il viso invola ai baci ingordi e spessi,
e nega il dolce, e piú negando alletta;
ma mentre si sottragge, e gliel contende,
ne le scaltre repulse i baci rende.

60.Ritrosa a studio, e con sciocchezze accorte
svilupparsi da lui talor s’infinge,
e ’ntanto tra le ruvide ritorte
piú s’incatena, e piú l’annoda e cinge,
in guisa tal, che non giá mai piú forte
spranga legno con legno inchioda e stringe.
Flora non so, non so se Frine o Thaide
trovar mai seppe oscenitá sí laide.

61.Serpe nel petto giovenile e vago
l’alto piacer de l’impudica vista,
ch’a le forze d’Amor Tiranno e Mago
esser non può, ch’un debil cor resista;
anzi da l’ésca de la dolce imago
l’incitato desio vigore acquista;
e stimulato al naturai suo corso,
meraviglia non fia, se rompe il morso.

62.E la sua Dea, che d’amorosi nodi
ha stretto il core, a seguitarlo intenta,
con detti arguti e con astuti modi
pur tra via motteggiando il punge e tenta.
Godi pur — dicea seco —, il frutto godi
de’ tuoi dolci sospir, coppia contenta.
Sospir ben sparsi, e ben versati pianti,
felici amori, e piú felici amanti.

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63.Sia Fortuna per voi. Non so se tanto
fia cortese per me chi m’imprigiona. —
Cosi favella al suo bel Sole a canto,
e sorride la Dea, mentre ragiona,
facendo pur del destro braccio intanto
al suo fianco sinistro eburnea zona.
E giá colei che gl’introdusse quivi
spargea dal suo focil mille incentivi.

64.Come fiamma per fiamma accresce foco,
come face per face aggiunge lume,
o come geminato a poco a poco
prende forza maggior fiume per fiume;
cosí ’l fanciullo a l’inonesto gioco
raddoppia incendio, e par che si consume:
e tutto in preda a la lascivia ingorda
de la modestia sua non si ricorda.

65.Giá di se stesso giá fatto maggiore
drizzar si sente al cor l’acuto strale,
tanto ch’ornai di quel focoso ardore
a sostener lo stimulo non vale;
ond’anelando il gran desir, che ’l core
con sollecito spron punge ed assale,
e bramoso di farsi a pien felice,
pur rivolto a la Dea, la bacia, e dice:

66.— Io moro, io moro oimè, se non mi dona
oportuna pietá matura aita.
Se di me non vi cal, giá si sprigiona,
giá pendente al suo fin corre la vita.
Ferve la fiamma, ed imminente e prona
l’anima giá prorompe in su l’uscita.
Quella beltá, per cui convien ch’io mora,
suscita con gli spirti i membri ancora.

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67.Tosto ch’a dolce guerra Amor protervo
mi venne oggi a sfidar con tanti vezzi,
tesi anch’io l’arco, ed or giá temo il nervo
per soverchio rigor non mi si spezzi.
Non posso piú, de l’umil vostro servo
il troppo ardir non si schernisca o sprezzi,
che vorria pur (come veder potete)
de la gloria toccar l’ultime mete. —

68.Cosí parlando, e de la lieve spoglia
la falda alquanto in languid’atto aperta,
Timpazienza de l’accesa voglia
senz’alcun vel le dimostrò scoverta.
— Soffri — diss’ella allor — fin che n’accoglia
apparecchio miglior: la speme è certa.
Da la Commoditá, mia fida ancella,
data in breve ne fia stanza piú bella.

69.Ritardato piacer (portalo in pace)
ne le dilazi’on cresce non poco.
Bastiti di saver, che mi disface
di reciproco amor scambievol foco.
Teco in su l’ora de la prima face
m’avrai (ti giuro) in piú secreto loco.
Fa’ pur buon cor, tien la mia fede in pegno,
tosto averrá che ’n porto entri il tuo legno. —

70.Come a fiero talor Veltro d’Irlanda
buon Cacciator, che ’nfuriato il veda,
ben che venga a passar da la sua banda
vicina assai la desiata preda,
la libertá però, che gli dimanda,
non cosí tosto avien che gli conceda,
anzi fermo e tenace ad ogni crollo
tira il cordon, che gl’imprigiona il collo:

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71.cosí né men, per piú scaldar l’affetto,
nel diffidi goder l’amante accorta,
mentr’ei volea del suo maggior diletto
con la chiave amorosa aprir la porta,
di quel primo appetito al Giovinetto
l’impeto affrena, e ’l bacia, e ’l riconforta.
Poi con la bella man quindi il rimove,
e l’invita a girar le piante altrove.

72.Può da que’ chiusi alberghi a l’ampia corte
libero uscir per piú d’un uscio il piede;
e scritta de le stanze in su le porte
d’ogni lavanda la virtú si vede.
Ciascun’acqua ha virtú di varia sorte,
come l’esperienza altrui fa fede.
Qual vigor, qual sapore in sé contegna
il tatto e ’l gusto espressamente insegna.

73.Oh miraeoi gentil, vena che scorre
d’un sasso solo in varie urne stillante,
come possa distinte in sé raccòrre
doti diverse, e qualitá cotante.
Chi può di tutte i propri effetti esporre?
Qual piú, qual meno è gelida o fumante,
altra piú torbidetta, altra piú chiara,
altra dolce, altra salsa, ed altra amara.

74.La tempra di quell’onde, ove fu posta
la bella Dea con l’Idol suo gradito,
del fonte insidioso era composta
che congiunse a Salmace Hermafrodito,
e ’n sé tenea proprietá nascosta
di rinfiammare il tepido appetito:
oltre l’erbe ch’infuse erano in essa,
dotate pur de la virtute istessa.

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75.V’era il Fallo e ’l Satino, in cui figura
oscene forme il fiore e la radice.
La Menta, che salace è per natura,
l’Eruca degli amori irritatrice.
E v’era d’altri semplici mistura,
giá di Lampsaco còlti a la pendice.
Amor, ma dimmi tu nel bel lavacro
qual fu nudo a veder quel corpo sacro.

76.Non cosí belle con le chiome sparse
quando a la prima ingiuria il mar soggiacque
ai Duci d’Argo vennero a mostrarse
le vezzose Nereidi in mezo a Tacque.
Tal mai non so, se la sua stella apparse
qualor da l’Ocean piú chiara nacque.
Pare il bel volto il Sol nascente, e pare
il seno l’Alba, e quella conca il mare.

77.Simulacro di Ninfa, inciso e fatto
di qual manno piú terso in pregio saglia,
posto in ricca fontana, o bel ritratto
d’avorio fin, cui nobil fabro intaglia,
somiglia a punto a la bianchezza, a Tatto,
se non che ’l moto sol la disagguaglia;
e la fan differir dal sasso scolto
Toro del crin, la porpora del volto.

78.Al folgorar de le tremanti stelle
arser gli umori algenti e cristallini,
ed avampár d’insolite fiammelle
Tumide pietre, e i margini vicini.
Vedeansi accese entro le guance belle
dolci fiamme di rose e di rubini,
e nel bel sen per entro un mar di latte
tremolando nuotar due poma intatte.

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79.Or, qual Fortuna, in su la fronte ammassa
l’ampio volume de la treccia bionda.
Or, qual Cometa, andar parte ne lassa
dopo le terga ad indorar la sponda.
Aura talor, che la scompiglia e squassa,
fa rincresparla ed ondeggiar con l’onda,
onde il crin rugiadoso e sparso al vento
oro parea, che distillasse argento.

50.Parea, battuta da beltá sí cara,
disfarsi di piacer l’onda amorosa,
e bramava indurarsi, e spesso avara
in sen la si chiudea, quasi gelosa.
Chiudeala, ma qual prò, s’era sí chiara
che mal teneala al bell’Adone ascosa?
Però che tralucea nel molle gelo
come suol gemma in vetro, o lampa in velo.

51.Oh qual gli move al cor lascivo assalto
l’atto gentil, mentre si lava e terge!
Or np l’acque s’attufía, or sorge in alto,
or le vermiglie labra entro v’immerge,
or di quel molle e cristallino smalto
con la man bianca il caro amante asperge,
or il sen se ne spruzza, ed or la fronte,
e fa d’alto piacer piangere il fonte.

82.Adone anch’egli de’ leggiadri arnesi
scinto, e pien di stupore e di diletto,
sotto effigie gelata ha spirti accesi,
agghiacciando di fore, arde nel petto;
e mentre ha gli occhi al suo bel foco intesi,
svelle da le radici un sospiretto
cosí profondo e fervido d’amore,
che par che sospirar si voglia il core.

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83.— Ahi qual m’abbaglia — sospirando dice —
folgore ardente, e candido baleno?
Quai vibrar veggio, spettator felice,
fiamme i begli occhi, e nevi il bianco seno?
Forse del Ciel de Tacque abitatrice
fatta è quest’alma, o questo è un Ciel terreno?
Traslato è in terra il Ciel. Venga chi vole
in Aquario quaggiú vedere il Sole.

84.Beltá (cred’io) non vide in vai di Xanto
Paride tal ne la medesma Diva;
né d’amoroso foco arse cotanto
quando mirò la mal mirata Argiva,
qual io la veggio allettatrice, e quanto
sento l’alma stemprarmi in fiamma viva:
fiamma, di cui maggior non so se fusse
quella che la sua patria arse e distrusse.

85.Dimmi, Padre Xettun, se ti rimembra
quand’ella uscí de le tue salse spume,
di’ se vedesti ne le belle membra
tanto splendore accolto, e tanto lume.
Dimmi tu Sol, quella beltá non sembra
oggi maggior del solito costume?
maggior che quando in Ciel fosti di lei
invido testimonio agli altri Dei?

86.Fosti men fortunato, Endimione,
indegno di mirar quel ch’oggi io miro,
quando a te scese dal sovran balcone
la bianca Dea de l’argentato giro.
Cedimi cedi, o misero Attheone,
ch’io per piú degno oggetto ardo e sospiro;
e differente è ben la nostra sorte:
ch’io ne traggo la vita, e tu n’hai morte.

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I TRASTULLI

O bellezza immortal, perché ne Tonde
ti lavi tu, se son di te men pure?

L’acque a le macchie tue divengon monde,
e fansi belle con le tue brutture.

Deh poi ch’a sí soavi e sí seconde
destinato son io gioie e venture,
ch’io ti lavi e t’asciughi ancor consenti
con vivi pianti, e con sospiri ardenti.

E s’è ver che ne’ fonti anco e ne’ fiumi
amoroso talor foco sfavilli,
fa’ che com’Aci in acqua io tni consumi,
e com’Alfeo mi liquefaccia e stilli.

Forse raccolto tra’ cerulei Numi,
mirando i fondi miei chiari e tranquilli,
fia che ne la stagion contraria al ghiaccio
la bella fiamma mia mi guizzi in braccio. —

Cosí discorre, e ’ntanto i freddi umori
prendon vigor da Tamorose faci.

Amor gli stringe, e stringe i corpi e i cori
con lacci indissolubili e tenaci.

Del nodo che temprò que’ fieri ardori
fe’ catene le braccia, e groppi i baci;
e con la propria benda ai vaghi amanti
forbí le membra gelide e stillanti.

Giunto era il Sol del gran viaggio al fine
lasciando al suo sparir smarriti i fiori.
Facean scorta ai silenzii ed a le brine
l’ombre volanti e i sonnacchiosi orrori.
Chiudea la Notte in bruno velo il crine
mendica de’ suoi soliti splendori,
ché la stella d’Amor d’amore accesa
in ciel non venne, ad altro ufficio intesa.

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91.Cameretta riposta, ove consperse
olezzan l’aure d’aliti soavi,
ai solleciti cori Amor aperse,
Amor l’uscier, che ne volgea le chiavi.
Tutte incrostate, e qual diamante terse,
v’ha di fino cristallo e mura e travi,
che con lusso superbo, ov’altri miri,
son specchi agli occhi, e mantici ai desiri.

92.Talamo sparso di vapor Sabeo
cortine ha qui di porpora di Tiro.
Quel che per Arianna e per Lieo
d’indiche spoglie le Baccanti ordiro,
quel ch’a Theti le Ninfe ed a Peleo
fabricár di corallo e di zaffiro,
povero fora al paragon del Letto
ch’è da le Grazie ai lieti amanti eretto.

93.Splende il Letto reai di gemme adorno,
e colonne ha di cedro e sponde d’oro.
Panno le coltre a l’Oriente scorno,
vincono gli origlieri ogni tesoro.
Purpurea tenda gli distende intorno
fregiato un Ciel di Barbaro lavoro.
Biancheggiano fra gli ostri e fra i rubini
morbidi bissi, ed odorati lini.

94.Quattro strani sostegni ha ne’ cantoni,
su le cui cime il padiglion s’appoggia.
Son fatti a guisa d’arbori a tronconi
d’oro e smeraldo in disusata foggia.
Qui quasi in verdi e concave prigioni
stuol d’augellini in fra le fronde alloggia,
onde s’alcun talor scote la pianta,
ode concerto angelico che canta.

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95.Questo fu il porto, che tranquillo accolse
la nobil coppia dal dubbioso flutto.
Qui del seme d’Amor la messe colse,
qui vendemmiò de 1 suoi sospiri il frutto;
qui, tramontando il Sol, Yener si tolse
d’Adon piú volte il bel possesso in tutto;
e qui per uso al tramontar di quello
spuntava agli occhi suoi l’altro piú bello.

96.Da che la queta oscura umida madre
del silenzio e del sonno i colli adombra,
fin che le bende tenebrose ed adre
il raggio mattutin lacera e sgombra,
di quelle membra candide e leggiadre
gode la Dea gli abbracciamenti a l’ombra,
senza luce curar, se non la cara
luce che le sue tenebre rischiara.

97.E da l’Orto ancor poi fin a l’Occaso
sei cova in grembo, e con le braccia il fascia.
’xulic c Cii Sciiipr è 56CG C 3C pCT CcLSG
di necessario affar talvolta il lascia,
che sia brev’ora senza lei rimaso
sentesi sospirar con tanta ambascia,
ch’aver sembra nel cor la fiamma tutta
che Troia accese, e Mongibello erutta.

98.Quando il rapido Sol per dritta verga
poggiando a mezo ’l ciel fende le piagge,
lá ’ve de’ monti le frondose terga
tesson verde prigion d’ombre selvagge,
per soggiornar dove il suo bene alberga
solitaria sovente il piè ritragge,
e gode o lungo un fiume o sotto un speco
partir l’ore, i pensieri e i detti seco.

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99.E sempre in suo desir costante e salda
o siede, o giace, o scherza il dí con esso.
Concorde a Tacque de l’ombrosa falda
freme de’ baci il mormorar sommesso.
Xé raggio d’altro Sol la fiede o scalda,
che de’ begli occhi, in cui si specchia spesso;
né su ’l meriggio estivo aura cocente,
se non sol quella de’ sospir, mai sente.

100.Yassene poi per questa riva e quella
Torme seguendo de l’amante piante,
predatrice di fere ardita e bella,
del caro predator compagna errante,
e l’arco in mano, al fianco le quadrella
porta talor del fortunato amante:
tal ch’ogni Fauno ed ogni Dea silvana
gli crede, Apollo l’un, l’altra Diana.

101.Cosi qualor Giovenca giovinetta
sen va per campi solitari ed ermi,
tenera sí, che calpestar l’erbetta
ancor non sa con piè securi e fermi,
né curva in sfera ancor piena e perfetta
de la fronte lunata i novi germi,
seguela, ovunque va, per la verdura
la torva madre, e la circonda e cura.

102.l’atta gelosa è sí di quel bel volto,
che teme Amor d’amor non se n’accenda.
Teme non Borea in turbine disciolto
da le nubi a rapirlo in terra scenda.
’Teme non Giove in ricca pioggia accolto
a sí rara bellezza insidie tenda.
’ ’orria poter celar luci sí belle
a la vista del Sole, e de le stelle.

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103.Se si rischiara il mondo, o se s’imbruna,
spieghi o pieghi la Notte il fosco velo,
de l’Aurora ha sospetto e de la Luna,
ch’a lei noi furi, e non sei porti in Cielo.
Odia, come rivai, l’Aura importuna,
gli augelli, i tronchi, i fior l’empion di gelo.
Ha quasi gelosia de’ propri baci,
de’ propri sguardi suoi troppo voraci.

104.Sotto le curve e spaziose spalle
d’un incognito al Sol poggio frondoso
cinto da cupa e solitaria valle
s’appiatta in cavo sasso antro muscoso.
Raro de’ suoi recessi il chiuso calle
altri tentò, che ’l Sonno, e che ’l Riposo.
L’ombre sue sacre, i suoi riposti orrori
e Fere reveriscono, e Pastori.

103.Questo (l’Arte imitando) avea Natura
di rozi fregi a meraviglia adorno.
L’avea con vaga e luslica pilluxa
sparso di fronde e fior dentro e dintorno.
Gli fea d’appio e di felce un’ombra oscura
schermo a l’ingiurie del cocente giorno.
Difendea l’Edra incontrali Sol l’entrata
di cento braccia e cento branche armata.

106.Qui spesso ricovrar da’ campi aprici
la bellissima coppia avea costume,
e ’n liet’ozio passar l’ore felici,
secura da l’ardor del maggior lume.
Eran de’ sonni lor l’aure nutrici,
cortinaggi le fronde, e l’erbe piume,
secretarie le valli e le montagne,
e Terme solitudini compagne.

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107.Incontro al biondo Arder, che folgoranti
dritto da l’arco d’or scoccava i raggi,
scudo faceano ai duo felici amanti
con torte braccia i Briarei selvaggi.
Mossi da l’aure vane e vaneggianti
con alterni sussurri abeti e faggi
pareano dire (e lingua era ogni fronda):
— Piú ne nutrisce Amor, che ’l Sole e l’onda. —

108.Or quivi un dí fra gli altri ecco che stanco
tornar di caccia ed anelante il vede.
L’or biondo e crespo, il terso avorio e bianco
tre volte e quattro a rasciugar gli riede.
Gli fa catena de le braccia al fianco,
sei reca in grembo, e ’n grembo a l’erba siede;
e ’n vagheggiando lui, che l’invaghisce,
pur com’Aquila al Sol, gli occhi nutrisce.

109.Tien le luci a le luci amate e fide
congiunte, il seno al seno, il viso al viso.
Divora e bee, qualora ei bacia o ride,
con la bocca e con l’occhio il bacio e ’l riso.
— Deh chi dagli occhi miei pur ti divide,
o non da’ miei pensier giá mai diviso?
Qual altra esser può mai cura che vaglia
a far che del mio duol nulla ti caglia?

110.Or m’aveggio ben io, che d’egual foco
(chi creduto l’avria?) meco non ardi.
e che formi talor, sí come poco
avezzo a ben amar, vezzi bugiardi;
poi che posposto a la fatica il gioco,
da le tue cacce a me torni sí tardi;
e curi (come suole ogni fanciullo)
piú che tutt’altro, un pueril trastullo. —

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111.Cosí dicendo, col bel vel pian piano
gli terge i molli e fervidi sudori:
vive rugiade, onde il bel viso umano
riga i suoi freschi e mattutini fiori.
Poi degli aurei capei di propria mano
coglie le fila e ricompon gli errori;
e di lagrime il bagna, e mesce intanto
tra perle di sudor perle di pianto.

112.Ed egli a lei: — Deh questi pianti asciuga,
deh cessa omai queste dogliose note.
Pria seminar di neve, arar di ruga
tu vedrai queste chiome, e queste gote,
che mai per altro amor sia posto in fuga
l’amor che dal mio cor fuggir non potè.
Se tu fiamma mia cara immortai sei,
immortali saran gl’incendii miei.

113.Per quella face ond’infiamniato io fui
giuro, e per quello strai che ’l cor m’offende.
Giuro per gli occhi e per le chiome, in cui
lo strale indora Amor, la face accende,
ch’Adon fia sempre tuo, né mai d’altrui:
tal è quel Sol ch’agli occhi suoi risplende.
S’altro che ’l ver ti giuro, o bella mia,
di superbo Cinghiai preda mi sia. —

114.Ed ella a lui: — Se tu ben mio sapessi
quanto sia dolce esser amato amando,
e quant’è duro esperienza avessi
lunge da l’amor suo girsene errando,
di scambievole amor segni piú espressi
mi daresti talor meco posando,
e saremmo egualmente amanti amati
tu contento, io felice, ambo beati.

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115.È ver che nulla il bel pensiero afirena
che sempre a l’occhio il caro oggetto appressa.
In alme strette di leal catena
so che per lontananza Amor non cessa.
Dividale (se può) Libica arena.
Oceano profondo. Alpe inaccessa.
Pur lasciar il suo bene è peggio assai
che desiarlo, e non goderlo mai.

116.Godiamci, amiamci. Amor d’Amor mercede,
degno cambio d’Amore è solo Amore,
Fansi in virtú d’un’amorosa fede
due alme un’alma, e son duo cori un core.
Cangia il cor, cangia l’alma albergo e sede,
in altrui vive, in se medesma more.
Abita Amor l’abbandonata salma,
e vece vi sostien di core e d’alma.

11 7. O dolcezza ineffabile infinita,
soave piaga e dilettosa arsura,
dove quasi Fenice incenerita
ha culla insieme il core, e sepoltura;
onde da duo begli occhi alma ferita
muor non morendo, e ’l suo morir non cura:
e trafitta d’Amor sospira e langue
senza duol, senza ferro, e senza sangue!

118.Cosi dolce a morir l’anima impara
ésca fatta a l’ardor, segno a lo strale,
e sente in fiamma dolcemente amara
per ferita mortai morte immortale:
morte, ch’ai cor salubre, ai sensi cara
non è morte, anzi è vita, anzi è natale.
Amor che la saetta, e che l’incende,
per piú farla morir vita le rende.

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119.Or se risponde il tuo volere al mio,
e son conformi i miei desiri ai tuoi;
se quanto aggrada a te, tanto bram’io,
e quanto piace a me, tanto tu vuoi;
s’è diviso in duo petti un sol desio,
ed è conimune un’anima tra noi;
se ti prendi il mio core, e ’l tuo mi dái,
perché de’ corpi un corpo anco non fai?

120.O de l’anima mia dolce favilla,
o del mio cor dolcissimo martiro,
o de le luci mie luce e pupilla,
o mio vezzo, o mio bacio, o mio sospiro,
volgimi quegli, ond’ogni grazia stilla,
fonti di puro e tremulo zaffiro:
porgimi quella, ove m’è dato in sorte
in coppa di rubino a ber la morte.

121.Que’ begli occhi mi volgi. Occhi vitali,
occhi degli occhi miei specchi lucenti,
occhi faretre ed archi, e degli strali
intinti nel piacer fucine ardenti,
occhi del Ciel d’Amor stelle fatali
e del Sol di beltá vivi Orienti;
stelle serene, la cui luce bella
può far perpetua ecclisse a la mia stella.

122.Quella bocca mi porgi. O cara bocca,
de la reggia del Riso uscio gemmato,
siepe di rose, in cui saetta e scocca
Viperetta amorosa Arabo fiato,
arca di perle, ond’ogni ben trabocca,
cameretta purpurea, antro odorato,
ove rifugge, ove s’asconde Amore
poi c’ha rubata un’alma, ucciso un core.

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123.Tace, ma qual fia stil, che di ciascuna
paroletta il tenore a pien distingua?
Certo indegna è di lor, se non quell’una
che le forma si dolci, ogni altra lingua.
Sí parlando e mirando ebra e digiuna
pasce la sete sí, non che l’estingua:
anzi perché piú arda, e si consumi,
bacia le dolci labra, e i dolci lumi.

124.Bacia, e dopo ’l baciar mira e rimira
le baciate bellezze or questi, or quella.
Ribacia, e poi sospira e risospira
le gustate dolcezze or egli, or ella.
Yivon due vite in una vita, e spira
confusa in due favelle una favella.
Giungono i cori in su le labra estreme,
corrono l’alme ad intrecciarsi insieme.

125.Di note ad or ad or tronche e fugaci
risona l’antro cavernoso e scabro.
— Dimmi o Dea — dice l’un —, questi tuoi baci
movon cosí dal cor, come dal labro? —
Risponde l’altra: — Il cor ne le mordaci
labra si bacia. Amor del bacio è fabro.
Il cor lo stilla, il labro poi lo scocca,
il piú ne gode l’alma, il men la bocca.

126.Baci questi non son, ma di concorde
amoroso desio loquaci messi.
Parlan tacendo in lor le lingue ingorde,
ed han gran sensi in tal silenzio espressi.
Son del mio cor, che ’l tuo baciando morde,
muti accenti i sospiri e i baci istessi.
Rispondonsi tra lor l’anime accese
con voci sol da lor medesme intese.

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127.Favella il bacio, e del sospir, del guardo
(voci anch’essi d’Amor) porta le palme,
perch’al centro del cor premendo il dardo
su la cima d’un labro accoppia l’alme.
Che soave ristoro al foco ond’ardo,
compor le bocche, alleggerir le salme?
le bocche, che di nèttare bramose
han la sete e ’l licor, son api e rose.

128.Quel bel vermiglio, che le labra inostra,
alcun dubbio non ha che sangue sia.
Or se nel sangue sta l’anima nostra,
sí come i saggi pur voglion che stia,
dunque qualor baciando entriamo in giostra,
bacia l’anima tua l’anima mia,
e mentre tu ribaci, ed io ribacio,
l’alma mia con la tua copula il bacio.

129.Siede nel sommo de l’amate labbia,
dove il fior degli spirti è tutto accolto,
come corpo animato in sé pur abbia,
il bacio, che da i’anima vien tolto.
Quivi non so d’Amor qual dolce rabbia
l’uccide, e dove muor resta sepolto:
ma lá dove ha sepolcro, ancora poi,
baci divini, il suscitate voi.

130.Mentre a scontrar si va bocca con bocca,
mentre a ferir si van baci con baci,
sí profondo piacer l’anime tocca,
ch’apron l’ali a volar, quasi fugaci;
e di tanta che ’n Ior dolcezza fiocca
essendo i cori angusti urne incapaci,
versanla per le labra, e vanno in esse
anelando a morir l’anime istesse.

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131.Treman gli spirti in fra i piú vivi ardori
quando il bacio a morir l’anima spinge.
Mutan bocca le lingue, e petto i cori,
spirto con spirto, e cor con cor si stringe.
Palpitan gli occhi, e de le guance i fiori
amoroso pallor scolora e tinge;
e morendo talor gli amanti accorti
ritardano il morir, per far due morti.

132.— Da te l’anima tua morendo fugge,
io moribonda in su ’l baciar la prendo,
e ’n quel vital morir, che ne distrugge,
mentre la tua mi dai, la mia ti rendo;
e chi mi mira sospirando, e sugge,
suggo, sospiro anch’io, miro morendo;
e per morir, quando ti bacio e miro,
vorrei ch’anima fusse ogni sospiro. —

133.— Fa’ dunque anima mia — l’altro le dice
ch’io con vita immortai cangi la morte.
Voli l’anima al Ciel sí che felice
sia degli eterni Dei fatta consorte.
Fa’ ch’io viva, e ch’io mora, e (se ciò lice)
fa’ ch’io riviva poi con miglior sorte.
Dolcemente languendo, a l’istess’ora
fa’ che ’n bocca io ti viva, in sen ti mora.

134.Un albergo medesmo in que’ dolci ostri
unisca il mio desir col tuo desire.
Le nostr’anime, i cor, gli spirti nostri
vadano insieme a vivere e morire.
Ferito a un punto il feritor si mostri,
péra la feritrice in su ’l ferire;
onde, mentre ch’io moro, e che tu mori,
ravivi il morir nostro i nostri ardori.

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135.Sostien’, Diletta mia, ch’a mio diletto
senza cessar da le tue labra io penda.
Ma col labro vermiglio il bianco petto
avarizia d’Amor non mi difenda.
Né que’ begli occhi al mio vorace affetto
dispettoso rigor (prego) contenda.
Morendo io vivrò in te, tu in me vivrai,
cosí ti renderò quanto mi dái.

136.Se nulla è in noi di nostro, e non v’ha loco
cosa che possa tua dirsi, né mia;
se ’l mio cor non è mio molto né poco,
come ’l tuo credo ancor, che tuo non sia;
poi che tu sei mia fiamma, io son tuo foco,
e ciò che brama l’un, l’altro desia;
poi che di propria mano Amor ha fatto
e fermato tra noi questo contratto:

137.consenti pur, ch’io ti ribaci, e dammi
ch’io te, come tu me, stringa ed abbracci.
Pungi, ferisci, uccidi, e svenir fammi
fin che l’anima sudi, e ’l core agghiacci.
Te l’ardor mio, me la tua fiamma infiammi,
e me teco, e te meco un laccio allacci.
Perpetuo moto abbian le lingue, e doppi
sien de le braccia e de le labra i groppi.

138.Per mezo i fior de le tue labra molli
Amor qual augellin vago e vezzoso
con cento suoi fratei lascivi e folli
vola scherzando, e vi tien l’arco ascoso.
Né vuol ch’io le mie fami ivi satolli,
de le dolcezze sue quasi geloso,
ché tosto ch’io per mitigar l’ardore
ne colgo un bacio, ei mi trafige il core.

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139.Ma qualor da lui scampo, e lá rifuggo,
dov’ha piú di vermiglio il tuo bel viso,
piú dolce ambrosia (oh me beato) io suggo
di quella che si gusta in Paradiso.
Zefíretto soave, ond’io mi struggo,
sento spirar de le tue rose al riso,
lo qual del foco, che ’l mio cor consuma,
ventilando l’ardor, vie piú l’alluma.

140.Xo che baci non son questi ch’io prendo,
son de la dolce Arabia aure odorate,
d’una soavitá ch’io non intendo,
piú che di cinnamomo, imbalsamate.
Son profumi d’Amor, ch’ei va traendo
da l’incendio de l’alme innamorate.
Par ch’abbia in queste porpore ricetto
quanto mèle han Parnaso, Hibla ed Himetto.

141.Felice me, che meritar potei
quel dolce mal, che tanto ben m’ha fatto.
Ma son ben folle ne’ diletti miei,
che bacio e parlo in un medesmo tratto.
È sí grande il piacer, che non vorrei
la mia bocca occupar fuor che ’n quest’atto.
E con la bocca istessa il cor si dole
quando i baci dan luogo a le parole. —

142.— Ed io — dic’ella — che fruir mi vanto
gloria infinita in que’ superni seggi,
non provo colassú diletto tanto,
ch’a la gioia presente si pareggi.
Prendi pur ciò che chiedi, e chiedi quanto
di me ti piace, a tuo piacer mi reggi.
Ecco a picciole scosse a te mio bene
sospirando, e tremando, il cor sen viene.

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143.Deh nel core (o mio core) omai m’aventa
quella lingua d’Amor dolce saetta,
e ’n cote di rubino aguzzar tenta
la punta, ch’a morir dolce m’alletta;
e fa’, tanto ch’anch’io morir mi senta,
del tuo dolce morir dolce vendetta.
Serpe sembri al ferir, ché ben ascose
stan sovente le Serpi in fra le rose.

144.E se, perch’ella è velenosa e schiva,
forse imitar la Vipera ti spiace,
movila almen, si come suol lasciva
coda guizzar di Rondine fugace.
O pur qual fronda di novella Oliva
rincresparla t’insegni Amor sagace.
Vibrala sí, che la tua bocca arciera,
emula de’ begli occhi, il cor mi fèra. —

145.— Non sono — egli ripiglia — or non son questi
gli occhi, onde dolci al cor strali mi scocchi?
cdi occhi, onde dolce il cor dianzi m’ardesti?
Begli occhi. — E ’n questo dir le bacia gli occhi.
— Begli occhi -— ella soggiunge — occhi celesti,
cagion che di dolcezza il cor trabocchi.
Core, ond’io vivo senza cor, tesoro
ond’io povera son, vita ond’io moro. —

146 Allora il Vago: — Anzi tu sol, tu sei
quel core onde ’l mio cor vita riceve.

Cor mio... — Piú volea dir, quando colei
la parola in un bacio, e ’l cor gli beve.

Ella per lui si strugge, egli per lei,
coma raggio di Sol falda di neve.

Suonano i baci, e mai dal cavo speco
forse a piú dolce suon non rispos’Eco.

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147.Fa un groppo allor de l’un e l’altro core
quel sommo del piacer, fin del desio.
Formano i petti in estasi d’Amore
di profondi sospiri un mormorio.
Stillansi l’alme in tepidetto umore,
opprime i sensi un dilettoso oblio.
Toman fredde le lingue, e smorti i volti,
e vacillano i lumi al ciel travolti.

148.Tramortiscon di gioia ebre e languenti
l’anime stanche, al Ciel d’Amor rapite.
Gl’iterati sospiri, i rotti accenti,
le dolcissime guerre e le ferite,
narrar non so. Fresche aure, onde correnti,
voi che ’l miraste, e ben l’udiste, il dite.
Voi secretari de’ felici amori
verdi mirti, alti pini, ombrosi allori.

149.Ma giá fugge la luce, e l’ombra riede,
e s’accosta a Marocco il Sole intanto.
Imbrunir d’Oriente il Ciel si vede,
cangia in fosco la terra il verde manto.
Giá cede al Grillo la Cicala, e cede
il Rossignuolo a la Civetta il canto,
che garrisce le stelle, e dice oltraggio
del bel Pianeta al fuggitivo raggio.

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